Nord e Sud - anno V - n. 38 - gennaio 1958

lutamente diverso. Siamo lontani dalla cupa e disperata drammaticità di Orwell, così come dall'amaro e disincantato umo-- rismo di Huxley. Ossia, ancora una volta, malgrado l'apparente estraneità di questo romando all'ispirazione di Alvaro, come bene sottolinea, in un'<<avvertenza» premessa al volume, A. Fratelli, lo scrittore è fedele a se stesso. E in effetti, Belmoro che si apre alla vita del nostro pianeta è un altro dei fanciulli di Alvaro che scoprono il mondo. L'arte dello scrittore calabrese si conferma l'arte dei primi incontri: ci ricordiamo dei suoi pastori dinanzi alle lettere dell'alfabeto, dei protagonisti dell'Amata alla finestra, dell'Età breve dinanzi alla donna. A questi ultimi si accomuna Belmoro. Ma quello che era stato un tema fra i più fecondi della poetica di Alvaro qui sembra inaridito. Le esperienze di Belmoro sono anonime, manca lo sbalordimento, lo stupote per la scoperta di un mondo; c'è in lui un passivo subire e insi~me un ammiccare che è da adulto scaltrito, non da chi si schiude per la prima volta ad una realtà. Ci sovviene sì di Candido, ma, insieme, dei falsi primitivi forniti di « sapienza riposta~. Né questa incerta e contraddittoria struttura si ritrova solo nella psicologia del protagonista; essa carat~~rizza tutta l'impostazione del volume. Si alternano a brani che sollecitano una piacevole lettura a chiave - è facile al lettore raccogliere l'invito di ritrovare in Magnitudo Roma con le sue strade, i suoi monumenti, i suoi abitanti - brani in cui l'allocuzione oratoria si fa scoperta. « Era stato un tempo, intorno al 1950, in cui tutto era questione di parole, ed era quanto nmaneva della letteratura, la decadenza di una forma d'arte in altri tempi splendida. V'erano state _parole, in quel tempo, che adoperate nella loro forma tradizionale significavano però un'altra cosa come Democrazia, Libertà, Popolo» (pp. 67-68). È un esempio che basta a mostrare come discorsi di tal tipo possano integralmente compromettere la particolare atmosfera allusiva, che fa la fortuna di opere di questo genere. Ci pare che si ripeta in tal modo l'errore dell'Uomo è forte, ma aggravato: lì, un discorso saggistico atteggiato in termini narrativi con i particolari stridori che generava; qui, in un contesto « fantastico », squarci di saggistica, o meglio di oratoria, che distruggono il tono « inventivo » dominante. Si conferma, cioè, secondo noi, che l'arte di Alvaro trovava il suo naturale alveo in una precisa qualificazione storica e geografica, la sua Calabria, salvo a trascenderla in un clima di trasognato lirismo; e che ogni qual volta egli abbandonava questo' abbrivo, per sceglierne uno più <<europeo », o come in Belmoro, uno più « contemporaneo », ossia avveniristico, i risultati inevitabilmente calavano. Proprio in Be/moro quando non « inventa » la società futura, ma si ispira semplicemente alla realtà del suo tempo, riesce ad essere più agghiacciante di Orwell. Fra i tanti delitti del 1984, questo era assente: « Ripetuta all'infinito, in ogni circostanza e in ogni ora, non c'è opera d'arte che resista. Ed è questo il nostro scopo. Io ho veduto disgregarsi ie più famose e considerate sinfonie, i più grandi poemi. Non c'è nulla che resista ai mezzi moderni. E bisogna insistere ». -(p. 231); è il cinico discorso di un funziona- (127] BibliotecaGino Bianco

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