Fine secolo - 1-2 marzo 1986

FINE SECOLO* SABATO 1 / DOMENICA 2 MARzo· 7 ClaudioPiersanti LA MOGl,TE DI ANGELO Chi. era l'lllltore: Ugo Ojetti Il brano presentato la settimana scorsa si intitolava Cinesi in San Pietro, ed era tratto da Cose viste ( 1921- 27), raccolta degli elzeviri scritti da Ugo Ojetti per il «Corriere della Sera», del quale fu diretrore dal 1925 al 1927. Tra le altre sue opere, la raccolta di articoli scritti per l'« Illustrazione italiana» nel biennio 1908- 1909, I capricci del Conte Ottavio, e La pittura italiana dell'Ottocento del 1929, anno in cuifondò·«Pegaso», che diressefmo al '33. · fa molto piacere vederti», si decise a dire dopo vermi studiato qualche secondo. Anche a me fa– va piacere vederlo. Ma ancora mi intimidiva, perchè continuavo a sentire che lui era un uomo di potere, mentre io ero sempre lo stesso. La mia giacca nuova aveva smesso di piacermi, con tutti quei ridicoli lunghi peli verdi che spuntavano qua e là tra gli scacchi. Alle poltrone giungeva poca luce obliqua, da lonta– no. Angelo aveva messo il bicchiere a terra e si era aggomi– tolato sulla poltrona: si mordicchiava la punta del pollice evme se io non potessi vederlo. «&i solo?» gli chiesi. «Stasera arriveranno i genitori e la sorella di Monica. Ma Monica non c'è». «Peccato, l'ho vista in foto e m'è sembrata carina». «Anche la sorella è carina, vedrai lei». «Bene. Ma... tua moglie non tornerà neppure nei prossimi giorni?» «No. Anche perchè... tutti credono che sia partita, ma non è vero. E' qui». «Qui?» «E' qui vicino». Con la mano sinistra si spingeva la fronte verso l'alto, e i ciuffi di capelli, che aveva ancora folti e neri, gli spuntavano tra le dita. E mi guardava, come volesse allungarsi la fronte e tener lontano i capelli dallo sguardo, ché era aperto, senz.a segreti. «Monica è morta», mi disse, come confermando qualcosa di già detto. «E' sepolta là, davanti all'abete più alto, quello». Non c'era bisogno che indicasse col dito, l'abete era al cen– tro di un prato: gli altri, fitti e scuri, erano confusi nello sfondo. Avevo capito dove, ma niente di più, ero davvero smarrito in un bosco alpino, e la notte era appena comincia– ta. «Non ti ho chiesto neppure come stai», si scusò interpretan– do chissà come il mio silenzio. «Stai bene, vero?» «Bene? No, adesso direi di no». · «Spero non sia colpa mia». Disse proprio così. Ero sbalordito. E cominciavo a sentirmi irritato, soprattutto per l'aria assente della sua faccia, per quella sua sostanziale solitudine. «Mi hai chiamato perchè sei diventato matto?» Il tono di voce che uscì dalla mia bocca era più debole del voluto, ma abbastanz.a forte per scuoterlo. «Sono molto egoista», ammise. I suoi occhi si erano riempiti di lacrime. Io bestemmiavo e gridavo, ma soltanto nel pen– siero, non potevo prendermela con lui così com'era. Non riuscivo a credere quel che mi aveva detto, non mi sembrava possibile. Per me Angelo era ammattito, e nel modo peggio– re, se esistono davvero tante maniere di 'impazzire. Conti– nuava a versare lacrime, ma rivolto verso la macchia scura del bosco, e di nuovo del tutto assente. «E perchè l'avresti sepolta sotto un albero?» «Non voglio si sappia, che è morta». «Però ne stai parlando con me». Fece di no con la testa: non avevo capito. «Per questo, ti ho chiesto di venire». Tornò a guardarmi e continuò: «Se le persone di famiglia... e gli amici più intimi non sanno niente lei non sembra più morta, quando parlo con loro e dico che Monica non c'è, che è partita, Viitutto bene. Lei non riusciva a star ferma tanto a lungo, mi rag- - giungeva quando ero in viaggio, mi accompagnava. Era molto bello». «Perchè lo racconti proprio a me?» «Perchè tu conosci soltanto me, in questo ambiente. Io non posso mai dimenticare che Monica non c'è più, e sento che qualcuno oltre me lo deve sapere». «Angelo, devo dirti la verità. Non capisco quello che dici». Conoscevo già la capacitiì. del dolore di rendere if-èervello piccolo piccolo, e guardando Angelo nuovamente silenziosÒ me la figuravo, quella porzione ridotta di cervello, come un sottile cilindro incandescente, perpendicolare tra i due occhi. Io non potevo percepire il peso di una morte per me mai av– venuta: in quella casa non riuscivo a immaginare altre vite che le nostre due. «E come sarebbe morta?» gli chiesi.. «E' caduta in parete, a mezz'ora di cammino da qui. Lei ar– rampicava bene, era una parete ridicola per una come lei. Saranno stati venti metri ... E' caduta a due passi da me. Si è piegata. E' morta così, senza sentire niente. Poi l'ho portata in braccio fin qui. Ha perso appena poche gocce di sangue». Stropicciò il pollice sulle· altre dita, per quantificare quel poco. «Come avesse preso uno schiaffo in faccia. L'ho sep– pellita assieme alle sue valige, le ho preparate io, ci ho messo dentro i suoi abiti, il trucco, gli anelli... tutto». Continuava a guardare fuori. Allungai le gambe e presi anch'io a guardare quel poco di visibile che offriva la finestra. In qualche punto brillava un residuo di neve. Silenzio, in casa e fuori. Dovevo lottare contro una risata nervosa che mi pizzicava la gola, con una strana compassione per me -stesso. Però neppure per un istante pensai che avrei dovuto andar via. Non sapevo se avevo a chè fare con un occultamento di cadavere o_con la crisi di follia di un giovane imprenditore, un tempo mio amico. O con tutte e due le cose insieme, che non si escludevano. Pensai anche: «Questo adesso mi am– mazza e io resto qui in mezzo ai morti, con una valigia di camicie-nuove e una giacca pelosa che fa schifo». Ritorno sul particolare della giacca perchè quei peluzzi, non avendo altro da guardare, erano diventati il simbolo di disgusto che cominciava ad annaspare nel mio·stomaco. «Hanno telefonato dal paese, stanno arrivando. Preparo qualcosa di caldo». «Va bene. Grazie». , ~a voce era quella della signora tedesca della quale ho già detto qualcosa: Un'anziana signora in tailleur grigio. Non vivrei nella stessa casa con una signora come quella, dallo sguardo pieno·di disprezzo. Al "Grazie" di Angelo la donna aveva girato subito i tacchi, con una certa eleganza. E noi riprendemmo a guardar fuori, stavolta con uno scopo preci– so. Ammetto che feci una domanda cretina. «Con loro... non ne vuoi parlare davvero?». «Certo che no», mi rispose stupito. E io non dissi altro. In fondo, da un punto di vista penale la mia posizione era irri– levante, cosa per me non secondaria, visto che lavoro in un Un gioco Incontri occasionali con una pagina, una metafora, un aggettivo. Questo è il gioco che qui vi è proposto, con precedenza, quando capiti, a testi meno noti o meno diffusi o dimenticati, come accade nella giqrnata di un editore. Claudio Piersanti è nato a Teramo nel 1954. Ha pubblicatq il romanzo Casa di nessuno (Feltrinelli, 1981) ed è stato tra i curatori di Bologna: fatti nostri ( Ber(ani, 1977). PressQ il Lavoro Editoria/e sta per uscire il suo nuovo romanzo Charles. Il testo qui accanto è tratto da un racconto pubblicato su 'Linea d'ombra', aprile '85. • ufficio legale. Potrà sembrare meschina, questa mia conside– razione, ma io vivo del mio lavoro, e non posso rischiare di perderlo. Aspettammo, in silenzio, l'arrivo dei padroni di casa. Le luci dell'automobile che si fermava non giunsero da 'Sinistra, come mi aspettavo, ma da destra;· vedevamo soltanto il fa– scio di luce sugli alberi, non l'automobile. Cessata la luce sentii l'ansia prendermi il respiro, e solo l'espressione tran– quilla di Angelo riuscì un poco a calmarmi. Angelo stava tornando normale, come se l'effetto della sbronza sfumasse d'incanto. Ma forse non era ubriaco come pensavo. Ora se– deva composto•. «Sono persone simpatiche», annunciò, rafforzando l'aggetti– vo con un paio di oscillazioni della testa. Poco dopo i padroni di casa entrarono nel salone e ci rag– giunsero. Mi piacquero tutti e tre: il gentiluomo svizzero, simpatico, pur emandando da ogni gesto una sorta di auto– rità naturale, !'ancor bella (come si dice) signora, e la molto bella Alessandra, sorella di una donna sepolta ai piedi di un abete che si poteva distinguere dagli altri, nonostante il buio. Ma d'imbarazzo, per quell'albero, ero l'unico a·soffri– re. Angelo parlava, e parlava di Monica. Con tòno com– prensivo. «Aveva bisogno d'allegria, di amici... era elettriz– zata», spiegava offrendo le sigarette. Io ne presi una. L'an– ziano signore alzò le spalle a un evento che doveva trovare consueto. «Era qui da una settimana, un'intera settimana tra le mon– tagne... E lei come fa», aggiunse prendendo ·un tono scher– zoso, «a essere un vecchio amico di Angelo? Quanti anni ha?» Me lo chiese guardandomi con una franchezza che accentuò la mia impressione positiva. Anche il suo italiano sterilizza– to non era spiacevole. «Ho quarant'anni», risposi. «E ci conosciamo da... quindici, più o meno». «Alla vostra età non si hanno ancora vecchi amici. Qualche amico vecchio, forse, ma è un altro discorso. Ci vediamo tra mezz'ora, scusateci. A tra poco». euomo aveva raccolto il segnale della moglie e con lei attraversò il salone. Salì la sca– la per primo, come salisse i gradini di un albergo, o andasse al lavoro: voglio dire che non si guardava attorno, non si compiaceva delle sue proprietà. Chissà come avrebbe reagi– to alla notizia, pensai. Ma censurai questo genere di fantasia e sorrisi ad Alessandra, seduta accanto ad Angelo, mano nella mano. Parlavano di Monica. «Avete litigato di nuovo?» gli chiese lei•divertita. «Esatto». ., Lei·sorrise e si rivolse a me: «Impossibile non litigare con lei, io ci litigo da quando sono nata. Comunque adesso c'è lui» (guardò un secondo gli occhi di Angelo) «e tutte le stranezze di Monica toccano a lui. Tu la conosci, mia sorella?» «No», ammisi a malincuore. Mi spiaceva non avere neppure questo argomento di discussione, in comune con lei. «L'ho vista in foto, mi è sembJ!.ltamolto bella». «E' bella, sì, ma se)a conosci non ci pensi, è un maschio, mia sorella._Ci gjamo del tu, vero?»

RkJQdWJsaXNoZXIy