Fine secolo - 25-26 gennaio 1986

FINE SECOLO* SABATO 25 / DOMENICA 26 GENNAIO 2 Una faccia· delcaso Tortora CARTESU NADIA-- O· Chi può dire di non essere stato disturbato o turbato dal "caso Tortora"? Comunque si pensi éhe stiano le cose, esso è un'enor– mità. Se Tortora è colpevole'come e quanto pensano i suoi giudi– ci, c'è da temere per una magistratura vilipesa, un'opinione pub– blica intossicata da dubbi o solidarietà di leader d'opinione e poli– tici, un sistema rappresentativo piegato alle sfide di un piccolo partito, una lotta alla camorra denigrata e indebolita. Se Tortora è innocente come lui si dichiara, c'è da rabbrividire di una magi– stratura che fa lega per una persecuzione, per un'opinione che si compiace oscuramente di veder umiliato un notabile_dello spetta– colo, per un apparato politico e d'informazione che baratta la ve- rifà con l'interesse di parte o la ragion-di stato. Comunque sia,.il "caso Tortora" è. un 'insopportabile pulce ne/l'o– recchio di chi ha voglia di dormire sonni tranquilli. Per giunta. si apre il processo di Palermo, e il caso Tortora allunga.fin lì le sue ombre, rischiando di screditare la giustizia e i suoi metodi, o vice– versa di fare della necessitd di opporsi a/la mafia una ragione per passar sopra alle piccole e grandi ingiustizie personali. · Dunque, il "caso Tortor.a", e il suo rapporto con la questione del– la camorra, de/funzionamento della giustizia, dei modi di pensare e di agire dei magistrati, e dei professionisti de/l'informazione, è una ostica prova di esame per_la nostra educazione civica. Occor- rerebbe trovare la buona volontà per leggere, studiare e integrare i volumi della sentenza. La maggior parte di noi non l'ha fatto, come la maggior parte di voi: chissà se lofaremo mai. Per questo, restiamo un po' cauti, un po' vergognosi: .ci pronunciamo sulle procedure, eludiamo la sostanza. Qui, intanto, abbiamo chiesto a una nostra collaboratrice di-mettere insieme, per noi e per voi, i pez=i che riguardano la storia di una persona, Nadia Marzano, · condannata lei stessa, e cui tanta parte è stata attribuita per la condanna di Enzo Tortora. Forse sono stati compilati secondo un pregiudizio, f! probabilmente saranno letti secondo un pregiudizio. Comunque, buona lettura. Q uando ra·cconta che le sue notti sono inquiete, stringe le mani. Per dire che conosce qualcuno, aggancia i due in– dici. E quando confessa che spesso sente la_ te– sta viaggare altrove, allorà si preme l'indice e il medio alla tempia, come per sistemare un og– getto' fuori posto. Ci ha fatto il callo Nadia Marzano si è trovata spesso nei posti sbagliati. Ultimo è questo carcere milanese che la ospita; ma per lei tutto si è messo male sin dall'inizio, a partire dalla_famiglia, che-non rie– sce a ricordare con affetto. Nemmeno con cat– tiveria. Preferisce magari confondere i.ricordi. Così la madre è quella che l'ha abbandonata, ma che oggi alleva il suo primo figlio, e il pa– dre uno da non menzionare, anche se poi l'aiu– ta materialmente. Il giro di chiavi dell'ultimo cancello la riconse– gna alla cella dopo il colloquio settimanale. Il suo ex marito le ha portato in visita il figlio Ilic, 8 anni. Lei piange e·se ne scusa. Il -bambi-. no le ha detto: mamma tu stai lontana da me perchè hai fatto certe cose. Chissà che cosa ha capito. Gli dovrebbero spiegare che è tutta col– pa dell'indurimento della pelle a quel dito della mano destra. Sì, proprio d~un cali(?. Lo mostra, il callo, su un dito sbilenco. E' il suo alibi. «Non lego molto con la gente, non mi piace parlare con gli_ altri, non mi ci ritrovo. E allora scrivo, •scrivo molto, a tutti, per ogni cosa». Aveva scritto anni fa anche ·a Pasquale Barra, un· tipo così poco milanese, soprattutto nel soprannome «o' animale», scelto per la sua ferocia e la propensione cannibalesca, anche se lui preferisce farsi chiamare «o' studente», for– se, chissà, con una nostalgia verso studi proibi– ti, .e un'altra vita. La lettura degli scritti di Nadia, caso raro per un cartéggio finito nelle mani della giustizia, è stata riservata a pochi per una sequenza di fat– ti insoliti che riveleremo nelle.pagine successi- · ve. Per ricostruirne il contenuto occorre affi~ darsi non all'inchiostro ma alle parole. Secon– do il destinatario, Barra, le frasi della donna erano sì banali, ma dense di significati, perchè alludevano ad altro, a delle avances d'affari. Probabilmente a nome di altri personaggi, si– curi che una lettera femminile ariche se oscura insospe_ttissela censura meno di una forte gra– fia maschile. La mittente ha cercato invece di spiegare ai giudici di aver scelto l'uomo per un senso diffuso di solidarietà. Chi ha avuto a che fare con l'universo carcerario non se ne stupirà certo. In carcere gli uomini che hanno com– messo delitti atroci sono quelli che attirano più copiosamente la posta femminile, ricolma di profferte di sentimenti momentanei e duraturi. «Non le avessi mai scritte quelle lettere, ma chi poteva immaginare che cosa sarebbe successo; tutta questa storia pazzesca». Non si dà pace per quell'inchiostro che l'ha portata in galera, anche se il callo vigoroso mostra come l'abitu– dine non sia venuta meno. E' anche dispiaciuta per l'ex marito, che si è trovato coinvolto in tutta la vicenda e certo non ha fatto salti di gioia nell'apprendere che la moglie scriveva a tipi del genere. Lui anni fa il carcere l'ha conq– sciuto, per un traffico di auto rubate. Cose da piccolo clan, dice, da organizzazi~ne di quar- ,, Una che non ride più, per~ra di C8rmen BERTOLAZZl Un incontro fortuito con Nadia Marzano, durante una visita pa(lamentare al carcere di San Vittore. tiere, e ora si ritrova sì libero, ma dipinto nelle carte processuali come un grosso trafficante di droga. É. con lui che vive il bambino, per cui la madre si dispera. «Sarei disposta a tutto, ad andare a vivere anche da mia suocera, ma rivo– glio il bambino prima che me lo tolgano. Han– no già fatto così cçm l'altro, ma questo è mio. Potrei tornare a casa mia, e tenerlo il sabato e la domenica». La sua casa non è in grado di ospitare chic– chessia. Una stamberga, così viene descritta, di nemmeno venti metri quadrati, senza telefono, con un lucernaio guardato a vista da una baci– nella, pronta a non disperdere una sola goccia di pioggia. E' amareggiata perchè qualcuno nei giorni scorsi è l!ndato a fotografare la casa per conto di un giornale: una bella foto dall'ester– no, racconta, e la conseguente deduzione che il suo appartamento è una reggia. Come se una bella facciata non potesse nascondere uno spa– ventoso sottotetto. «Io, io sarei una castella– na?». Così figura in certe carte processuali. Lei, raffinata donna di mondo a fare gli onori di casa a· Enzo Tortora, Raffaele Cutolo e a qualche suo bravo. Confida che non è mai stata «una regolare». «D'altra parte sarebbe stato anche difficile con gli inizi di vita che ho avuto». Hà fumato qual– che volta, come tanti. Ma l'eroina no, mai– protesta. Con foga tira su il maglione a trecce. verdi e mostra le Ycne. Piange, e continua a scusarsi. Spera forse chè le sue lacrime possano arrivare fino ai giudici che a migliaia di chilometri di distan7.a, a Na– poli, stanno decidendo se concederle gli arresti domiciliari. ·«Potrei tornarmene a casa, tenere il bambino. Certo, dovrei anche.trovare un la– voro per mantenermi». Non ce ne sarà biso– gno, la richiesta è stata respinta lunedì pome– riggio. La casa perduta Nell'estate dell'84 una domanda analoga era· stata in.veceaccettata. Lei aveva potuto lascia– re il carcere, come aveva consigliato pochi mesi prima un medico incaricato dallo stesso Tribunale di Napoli di indagare sulle sue con– dizioni di salute e che l'aveva trovata in pessi– me condizioni psichiche e fisiche. Poichè abita– va da sola, il suo difensore aveva richiesto ai giudici che la autorizzassero a uscire almeno un'ora al giorno, il tempo di fare la spesa.' La risposta fu favorevole. Lei lo seppe subito, e non attese la comunicazione scritta. Una sera di settembre venne sorpresa alle undici di sera sotto casa in pantofole, mentre telefonava. Dice: <<Nonmi sentivo bene, avevo un'emorra– gia e volevo chiamare qualcuno». · La polizia, che la controllava a vista, la riac– compagnò a casa e poi stese il verbale che avrebbe provocato la revoca del beneficio. Nell'attesa lei rimase a casa, sen7.apiù mettere il naso fuori, ma ormai il guaio era fatto. Quando seppe con certezza che sarebbe dovuta tornare a San Vittore, tentò-il suicidio ingeren– do pasticche, aprendo il gas e tagliuzzandosi le vene. Venne portata in ospedale, rimessa in se– sto, rispedita al carcere. Da allora non è più uscita, a dispetto delle numerose richieste pre– sentate dal suo avvocato che nel co111plicato · linguaggio forense cerca di spiegare un concet– to elementare: che la donna sta sempre male, e che non è pericolosa. Altrimenti sarebl?(!fuggi– ta a suo tempò. E c'è da chiedersi: per andare dove? Non ha molte amiche in carcere. Sono anche gentili, la invitano a bere un caffè nella loro cella, e poi al secondo sorso, immancabilmen– te: «Dai, confessa, che è tutto vero. Tu il Tor– tora l'hai conosciuto veramente». E lei lascia lì il caffè e se ne va via a scrivere, chissà a chi. - Sono venuti dei medici a visitarla; a tutti ha ri– sposto con sincerità e senza pudore. Ha snoc- . ciolato la storia della sua vita, gioie e disgrazie, qualche rara speranza. «Ora sono sempre così triste, depressa, la testa mi pesa. Mi prendono le fisse, un pensiero che mi entra dentro e non mi abbandona pìù. Ora è quello del mio figlio. Vedo alla televisione un incidente, o questi tra– pianti di cuore. Penso: e se dovesse succedergli qualcosa e io sto qui dentro? C'apisco che sono pensieri tristi, quasi assurdi, ma mi afferrano». Non sorride. «Ad~ sono così, ma prima ero una ragazza allegra. Ridevo». L'ultima sua risata pare risalga al giorno del suo arresto quando i magistrati le chiesero se conoscesse di persona tal Enzo Tortora. «No», rispose e rise. «Poi mi chiesero anche di Alain Delon. Pensai che forse qualcuno del giro si era preso in prestito i nomi degli altri, e che era questo che volevano sapere da me. Ma non co– noscevo nemmeno i falsi _famosi». Al processo la ricordo in un angolo della gab– bia, mano nella mano con Renato Vallanza– sca. Lui così mil anese e galante con lé donne deve aver capi.to che era sola e quindi ha fatto da cavaliere al processo a questo fiore da tap– pezzeria. Amante della pubblicità? «Per carità, una come me non ne ha proprio bisogno. Fossi una ballerina ...». E' ben vestita, curata, alla moda. Una gonna nera affusolata e un paio di ~tiva– letti di pelle di foca. Al processo aveva una au– dace cavigliera di cuoio punk. I suoi capelli sono neri, lisci e sembrano tristi anche loro. Li accarezza spesso, li aggiusta, li relega dietro l'orecchio per poi selezionare un ciuffo da la– sciare libero sul viso. «Brucia fare il carcere per niente». Le sem~ra tutto un incubo, non trova il ban– dolo della matassa, ma poi, improvvisamente, alza finalmente gli occhi e dice: «Non succe– derà che il processo d'appello non si farà in au– tunno? Perchè allora noi imputati verremmo liberati per scadenza dei termini. Tutti liberi, lo scandalo messo a tacere, ma sempre colpe– voli».

RkJQdWJsaXNoZXIy