donne chiesa mondo - n. 32 - febbraio 2015

L’OSSERVATORE ROMANO febbraio 2015 numero 32 Sua madre confrontava tutte queste cose nel suo cuore donne chiesa mondo La carezza di Dio «Ogni cristiano e ogni comunità sono chiamati a essere strumenti di Dio per la liberazione e la promozione dei poveri» e «questo suppone che siamo docili e attenti ad ascoltare il grido del povero e soccorrerlo». L’ha detto Francesco nella Evangelii gaudium , la sua prima esortazione apostolica. La Chiesa povera e per i poveri, al centro dei pensieri e delle parole del Pontefice, è oggi soprattutto femminile. Sono in gran parte donne le persone più povere, e sono donne coloro che hanno scelto di dedicare la loro vita a chi ha poco o nulla, a chi è diseredato, emarginato ed escluso. Suore, laiche, missionarie hanno assunto, seguendo il Vangelo, il più faticoso dei compiti. È al femminile la storia dei comedores , le mense popolari di Villa El Salvador, periferia sud di Lima, raccontata in queste pagine da Silvia Gusmano. È una donna polacca, suor Małgorzata Chmielewska, l’organizzatrice della comunità Pane della Vita la cui missione consiste «nel vivere con i poveri» e che, in un’intervista a Dorota Swat, racconta la sua esperienza. Le donne che dedicano la loro vita agli ultimi, non possono certo eliminare la povertà, spiega suor Małgorzata, ma possono intervenire sulla infelicità da essa prodotta e persino scoprire una felicità che la maggior parte di noi non riesce a trovare perché occupata a cercarla altrove. È la felicità che non viene dalla ricchezza o dal denaro, ma dalla solidarietà, dalla gioia di dare e ricevere il bene, dall’amore degli altri e di Dio, dalla speranza. Lo sapeva bene santa Chiara che, come racconta Mario Sensi, particolarmente amava la povertà, «e non poté mai essere indotta a ricevere possessione, né per lei, né per lo monasterio». Non stupisce che ci siano le donne in prima fila accanto ai poveri, che siano loro innanzitutto a dispensare «la carezza di Dio». Per amare i poveri, soccorrerli, per avvicinarsi all’infelicità della povertà e pensare di rovesciarla nel suo contrario, per sconfiggere la miseria — che è diversa dalla povertà — e per dare dignità bisogna conoscere, possedere o riconoscere quell’amore incondizionato che viene dall’esperienza materna. Come le madri amano i figli più deboli, così la Chiesa delle donne cerca e predilige la vicinanza dei poveri. ( r.a. ) Povertà significa essere liberi A colloquio con la polacca Małgorzata Chmielewska, superiora della comunità Pane della Vita di D OROTA S WAT Suor Małgorzata si occupa dei senzatetto e dei poveri. È venuta a Roma solo per qualche giorno. Quando la incontriamo, è già stata alla messa celebrata dal Papa a Santa Marta e ha incontrato monsignor Konrad Krajewski. È raggiante e si vede. Alle nostre domande risponde in modo concreto ed esauriente e ogni tanto, come per abitudine, ci chiede se veramente non abbiamo fame. Come ha conosciuto la comunità Pane della Vita? Per caso. Insieme alla mia amica, anco- ra ai tempi del comunismo, facevamo va- rie cose, allora meno legali, per gli emar- ginati. Cercavamo un luogo o una comu- nità adatta ai nostri bisogni, cioè che vi- vesse insieme a queste persone: qualcuno mi ha dato l’indirizzo e siamo andate in Francia. Oggi Pane della Vita ha in Polonia diverse case, laboratori e perfino un negozio on line. In Polonia la comunità esiste dal 1989 quando venne aperta la prima casa per i senzatetto, organizzata da me, dalla mia migliore amica e dall’attore Maciej Rayza- cher. In poco tempo l’abbiamo inserita nella comunità Pane della Vita. La sua missione consiste nel vivere con i poveri intorno a Cristo nell’eucaristia. Vogliamo vivere con i poveri — non lavoriamo per loro perché non sono nostri assistiti, bensì fratelli e sorelle, il che ha un’importanza essenziale nelle nostre reciproche relazioni — e cerchiamo di indicare Cristo nell’euca- ristia come Signore e salvatore, come l’unico che può guarire le ferite, indicare la via e dare amore. Non avevamo un pia- no: le persone che comparivano sulla no- stra strada con i loro problemi rappresen- tavano per noi delle domande. E così è tuttora. La prima casa è nata perché ab- biamo incontrato delle senzatetto: a un certo momento in campagna da noi venne una ragazza per farsi prestare 50 złoty (circa 12 euro) per il collegio scolastico, se non pagava sarebbe stata espulsa ed era l’anno del diploma. Le abbiamo dato i soldi e abbiamo cominciato a occuparci di altre persone con gli stessi problemi: è na- to così un fondo di borse di studio che at- tualmente sostiene 600 giovani. Quando venivano da noi, sempre lì in campagna, erano disoccupati e ci chiedevano da man- giare con imbarazzo: volevano lavorare e abbiamo cominciato a pensare come dargli lavoro. Pian piano sono nati i laboratori e le squadre di edili. Tra i senzatetto ci sono molti malati che hanno bisogno di essere curati da specialisti, abbiamo quindi aper- to un ospizio per i malati. Le madri con bimbi piccoli non potevano stare insieme ad altre donne con problemi psichici o di alcol: era necessario creare una casa appo- sitamente per loro. È così che funziona. Lavorate anche con i disabili? Esiste, specie in campagna, il grande problema dei disabili, che vivono in con- dizioni terribili: se un allevatore tenesse così i maiali verrebbe mandato in prigio- ne. Così abbiamo cominciato a ristruttura- re o costruire case per le famiglie in diffi- coltà in cui o i genitori o figli (o entram- bi) presentano qualche forma di disabilità. Sono molti anche i giovani disabili menta- li non gravi: troppo intelligenti per avere una pensione d’invalidità, ma troppo poco abili per vivere autonomamente. Tutti vor- rebbero comunque lavorare: nei nostri la- boratori trovano una possibilità. Tra loro spesso ci sono ragazzi cresciuti in orfano- trofio che non hanno mai avuto una vita propria da adulti: vivono in stanze con al- tre persone, dipendono sempre da qualcu- no, mentre con la nostra discreta assisten- za potrebbero funzionare benissimo e ma- gari avere una famiglia. Crede che al di là delle dichiarazioni di prin- cipio la Chiesa accetti davvero la disabilità, in particolare quella mentale? glia, o persone nate già svantaggiate, che non hanno mai avuto niente: la vita nella comunità e sentire che sono amati dà a entrambi la felicità. Quindi penso che nel- la maggior parte loro sono felici, natural- mente nel senso molto profondo della pa- rola. Nelle nostre case nonostante la gran- de sofferenza c’è la gioia, si ride, si scher- za. Certo, questa benedizione funziona quando l’uomo scopre che l’amore è vera- mente il valore più alto e che Dio ci ama senza limiti, in modo acritico, come una madre ama il figlio indipendentemente da come esso è. Anzi, una madre ama di più il figlio che soffre di più. Io ho cinque fi- gli adottivi, uno, Artur, è autistico: anche se è un ragazzo difficile, è il pupillo della casa. Ama gli accendini, li raccoglie e li infila nelle bottiglie vuote: tutti a casa ne hanno in ta- sca uno per darglielo, così che anche lui possa essere felice per un momento. I poveri scoprono quella feli- cità che noi non vediamo perché occupati a cercarla altrove. Per loro, forse, è più facile scoprire la vera felicità: in questo consiste la grandezza del povero. Per aiutare i poveri serve denaro. Tra coloro che vi sostengono ci sono persone ricche? Margaret Thatcher ha detto che per es- sere un buon samaritano bisogna avere i soldi. Ciò è naturalmente vero. Cerchiamo di guadagnarci da soli il pane per quanto è possibile: nelle nostre case lavorano tutti coloro che sono in grado di farlo. La pri- ma cosa che facciamo perché un nuovo ar- rivato conservi la propria dignità è chie- dergli di apparecchiare la tavola. I soldi e le cose materiali che riceviamo sono natu- ralmente un dono della Provvidenza, ma chiaramente ce le danno delle persone, e spesso non sono persone benestanti! Un giorno chiamò una signora: mi chiese se volevo una macchina. Risposi di sì: era un fuoristrada perfetto per la campagna, ma in versione lussuosissima con sedili in pel- le. Vi abbiamo subito messo sopra una targa con scritto “dono”. In generale, pe- rò, per le persone ricche è più difficile condividere perché dagli uffici eleganti delle multinazionali nel centro di Varsavia, Parigi, Londra o Roma è più difficile ve- dere chi sta in basso. Invece coloro che giorno per giorno affrontano le difficoltà della vita comprendono più facilmente. Quando raggiungiamo un certo livello di ricchezza, ci allontaniamo dalla fonte della solidarietà umana, dalla misericordia e dai legami con gli altri: è il pericolo che cor- rono le persone molto ricche. Ne conosco qualcuna: sono piene di buona volontà ma incapaci di capire “l’altro”. In questo sta la loro povertà. Viviamo in una società competitiva che insegna subito ai bambini che devono essere migliori degli altri. So- no i figli dei poveri che vengono scelti per dare il benvenuto al vescovo in parroc- chia? Sono loro che declamano le poesie? Cosa si può fare? Cambiare il sistema di as- sistenza sociale? Sicuramente bisogna perfezionare il si- stema di assistenza sociale, ma il problema è che le persone più deboli, coloro che so- no nati in condizioni di svantaggio, non sono in grado di funzionare in un sistema dove bisogna sapere fare molte cose, usare il computer, riempire moduli in banca, parlare un linguaggio che non conoscono. Creando tali sistemi, li escludiamo. Non sono nemmeno emarginati, perché per emarginare qualcuno bisogna prima veder- lo. Sono, semplicemente, persone che non esistono. Il ruolo di noi cristiani deve es- sere quello di “vedere” il problema, perché molte persone non lo vedono. Niente può sostituire l’incontro dell’uomo con un al- tro uomo: la relazione, la condivisione, il sostegno reciproco. Gli abitanti delle no- stre case non prendono solamente: ci dan- no moltissimo. Si creano relazioni, scambi, senza i quali non c’è amore, né rispetto. Nessuno può essere assistito a vita, invece è proprio quello che fanno i moderni si- stemi di assistenza. Agli esclusi si danno le condizioni minime di sopravvivenza, ma non si permette loro di reinserirsi nel si- stema della normale vita economica, cultu- rale, educativa e spirituale. È molto più difficile mettere una persona in condizio- ne di poter funzionare da sola, vivere di- gnitosamente, guadagnarsi la vita e man- tenere la famiglia. La missione della comunità è vivere con senzatetto, orfani e ragazze madri intorno a Cristo nell’eucaristia Oggi ai deboli si offre solo l’assistenzialismo È molto più difficile mettere una persona in condizione di poter funzionare da sola vivere dignitosamente e guadagnarsi il pane Suor Małgorzata Chmielewska è la superiora della comunità Pane della Vita, fondata da una coppia francese, Pascal e Marie Pingault. Convertitisi in età adulta, nel 1971 con un gruppo di amici hanno deciso di vivere radicalmente il Vangelo. Dopo tredici anni è nata la comunità riconosciuta dalla Chiesa come associazione di fedeli laici. I suoi membri, laici consacrati, vivono insieme ai poveri. In Polonia la comunità gestisce case, dormitori per i senzatetto, i malati e le madri sole. La sua fondazione Case della comunità Pane della Vita organizza il lavoro dei malati e dei senzatetto nelle manifatture e assegna borse di studio ai bambini delle campagne. donne chiesa mondo No. Certo, ci sono luoghi, comunità e sacerdoti che lavora- no con i disabili mentali, ma sono una piccola minoranza. Ultimamente in una parrocchia non si è voluto dare la comu- nione a un ragazzo disabile: un nostro sacerdote è andato là e gliel’ha data perché il ragazzo stava per morire. Per me queste persone sono i vip nel Regno di Dio, eppure noi li emarginiamo. Troviamo ai primi posti nella nostra Chiesa i deboli, le donne anziane, i disabili? Come intende la povertà? La povertà non è la miseria. Faccio di tutto perché nelle no- stre case, che sono molto mode- ste, le persone possano vivere dignitosamente, perché ci sia la pulizia, perché l’ambiente sia gradevole, l’erba tagliata. La povertà non è un concetto rela- tivo perché riguarda miliardi di persone in questo mondo ed è una cosa reale e dolorosa. Si- gnifica l’incertezza del domani, l’impotenza e l’angoscia per i lora cominciamo a pregare: dopo un po’ qualcuno ci dà qualcosa, arriva qualcuno e porta qualcosa. La povertà in pratica si- gnifica essere liberi. Beati i poveri: sono felici qualche volta gli abitanti delle vostre case? A Varsavia recentemente è stato esami- nato il livello di soddisfazione dei clienti dei vari servizi, inclusi i clienti degli ospizi per i poveri, perché in Polonia chi riceve l’assistenza sociale è un “cliente”. E così un giovane sondaggista è venuto da noi e ha domandato a un senzatetto trentacin- quenne malato di cancro: «Lei è soddi- sfatto?». Questo è naturalmente un’assur- dità. La povertà in sé non dà la felicità: direi che, al contrario, rende infelici. Gli abitanti delle nostre case sono o persone che erano benestanti e avevano una fami- «La mia opera racconta di come una singola persona possa fare la differenza per sconfiggere la povertà. La mia opera raffigura una donna che conduce dei bambini piccoli fuori dall’oscurità, portandoli verso una vita di dedizione, scelte e lavoro» (Jennifer Cacaci, 2012). Non sono nemmeno emarginati perché per emarginare qualcuno bisogna prima vederlo Semplicemente sono persone che non esistono propri cari, l’impossibilità di soddisfare i loro bisogni. La povertà ci insegna anche la fiducia nella Provvidenza di Dio, per- ché in modo concreto sperimentiamo che Dio c’è veramente. Nella nostra comunità molto spesso rimaniamo senza niente e al-

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==