donne chiesa mondo - n. 30 - dicembre 2014
women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo women L’OSSERVATORE ROMANO dicembre 2014 numero 30 Inserto mensile a cura di R ITANNA A RMENI e L UCETTA S CARAFFIA , in redazione G IULIA G ALEOTTI www.osservatoreromano.va - per abbonamenti: ufficiodiffusione@ossrom.va donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo Dove può arrivare lo sguardo di una suora I mille volti della maternità spirituale di M ARIA B ARBAGALLO N oi suore ci troviamo spesso im- merse nelle situazioni più dram- matiche, in cui siamo chiamate a dare la vita, o quella del corpo o quella dell’anima. Non è un me- stiere, una professione, è un atteggiamento mi- stico che rientra nel mistero di Dio, che si fa dei collaboratori e delle collaboratrici per of- frire quella vita in abbondanza che lui ci vuol dare. Fra tante esperienze, una delle più significa- tive è la storia della piccola Maria della mis- sione di Dubbo, in Etiopia. Sono i primissimi tempi della missione, le suore sono intente a organizzarsi, a pulire, a visitare i dintorni, ed ecco che suor Francesca vede una bimba aggi- rarsi da sola nei pressi della missione. La bim- ba è denutrita, sporca, malandata e malata. La portano all’ospedale; i medici dicono che mo- rirà, ma le suore hanno speranza e — dopo poco tempo tra cure e amore — la bimba si ri- prende, guarisce. La chiamano Maria, si sa che è orfana, ma le suore non la possono tenere, la piccola ha bisogno di una famiglia. L’affidano a una fa- miglia del posto, cattolica e sostenuta dalla missione. Dopo alcune settimane la famiglia avverte le suore che la bimba è malata. Vanno a visitarla, non è grave, è solo malnutrita, mal tenuta, in condizioni igieniche terribili. La ri- prendono, la fanno rifiorire. È una bimba for- te, cresce sana e viene affidata a un’altra fami- glia. Qui cresce benino, va a scuola, diventa una bella ragazzina. Ma ecco che un giorno Maria scompare, non si sa più nulla di lei. Passano dieci anni. La missione è già più grande, con varie opere: c’è la scuola, l’ospe- dale, l’orfanotrofio, l’orto, la fattoria. Ecco che un giorno si presenta una giovane donna, mal vestita, denutrita, con una bimba in braccio altrettanto malandata. Dopo poche ore, le suore riconoscono in lei Maria. Sono sorprese, ma non fanno domande poiché le risposte era- no lì, davanti a loro. Maria viene accolta amo- revolmente, la sua bimba nutrita e curata in- sieme a lei e passano i mesi. Si trova un lavo- ro per Maria e sembra proprio che la donna diventerà un membro della missione. Invece, un giorno Maria scompare di nuovo abbando- nando la bimba. Si cerca ancora, ma invano. La piccola cresce bene e avrà il suo futuro: sa- rà adottata da un’ottima famiglia italiana. Forse è meno conosciuta una forma di ma- ternità spirituale che le suore esercitano nei confronti di giovani donne. Tra queste, molte si presentano alle porte del convento espri- mendo il desiderio di diventare religiose. Sono donne di ogni classe sociale, di ogni livello culturale, di ogni etnia, spesso prive di una vera formazione umana e spirituale. Vengono accolte e aiutate a crescere come donne, con dignità, autonomia, cultura umana, cristiana e professionale. Donne capaci di un pensiero proprio, in grado di conoscere se stesse e di fare delle scelte libere. Su di esse si spende molto tempo, energia, fatiche e si investono molte speranze: ma di queste persone solo un esiguo gruppo arriva alla vita religiosa. Spe- cialmente nei Paesi più poveri, quando ritor- nano in famiglia o nel loro ambiente sono preparate per la vita come poche altre donne. Poche persone possono avere una formazione così completa, voluta dalla Chiesa e necessaria per affrontare una vita di sacrifici come è la vita religiosa, ma che poi serve per affrontare qualunque genere di vita. In una nostra casa di riposo portarono un giorno un’anziana signora molto mal ridotta. Il figlio non sapeva più che fare e la portò lì, per farle finire i suoi giorni. La signora non parlava, non mangiava, stava sempre a letto. Per il nostro staff medico non era così grave da giustificare quello stato così rinunciatario. Le suore e le infermiere si dedicarono a lei: le parlavano, la facevano alzare mostrando il giardino fiorito, la lavavano e pettinavano e la vestivano bene, con le sue collane, la portava- no in cappella a pregare e in giro per il giardi- no e infine la signora si rimise a mangiare e dopo qualche settimana camminava, appog- giandosi a un supporto, sorrideva e parlava. Il figlio quando la rivide restò fortemente sorpreso e se ne uscì con una infelice frase, che speriamo la madre non abbia sentito: «Ma allora, disse, non conviene proprio averla portata qui da voi!». Non so cosa gli abbia ri- sposto la suora, ma questa esperienza è molto frequente nelle case di riposo per anziani. Le signore che noi ospitiamo soffrono una terribi- le solitudine, sperimentano l’emarginazione dalla propria famiglia che le sente come un peso. Se le anziane sono suore sembra che ormai non ci sia più bisogno di direzione spirituale, lita rete dei trafficanti che gli promettono il passaggio verso gli Stati Uniti se però porta alcuni zaini pieni di droga per loro. Non vuo- le accettare ma è costretto. Quando vede che le sue speranze sono continuamente frustrate, si rifiuta di continuare e lo mandano via in malo modo con minacce. A un tratto del suo racconto l’uomo scoppia in un pianto disperato. Così conclude suor Xo: «La domanda che ho sentito dentro di me come persona consacrata è stata: “Che posso fare?”. Che potevo fare ascoltando quell’uomo che, distrutto dalla sua disavven- tura, mi raccontava il suo dolore, la sua angu- stia, la sua disperazione e i suoi dubbi su quello che avrebbe potuto fare di fronte a quella situazione? È difficile dare risposte a chi ha perduto tutto. Cosa si può fare in un di S ILVINA P ÉREZ «D alle strade vi- cine si senti- vano urla di- sperate e pianti. Aveva- mo paura, non sapevamo che fare. Molti sono corsi a cercare riparo e sono stati raggiunti dai colpi dei mitra, altri si sono rifugiati nella piccola palestra della scuola. Erava- mo in silenzio, inginocchiati a bi- sbigliare le parole della fede. Ir- rompono i jihadisti e una raffica as- sordante si alza sopra le grida della gente: mio padre cade a pochi me- tri da me, colpito a morte. Tutti gli altri vengono buttati fuori dalla scuola e ammassati nel cortile d’in- gresso. Solo una povera donna non può uscire perché paralizzata alle gambe. Farà compagnia a mio pa- dre, massacrata mentre disperata annaspa invano con le braccia per Il romanzo Chiamate la levatrice Le vicende appassionanti di un gruppo di ragazze che fanno le levatrici presso una struttura tenuta da suore — levatrici e infermiere anch’esse — nei quartieri più poveri e malfamati di Londra negli anni Cinquanta, narrate da una di loro, sono l’anima di Chiamate la levatrice di Jennifer Worth (Sellerio, 2014), libro così interessante da essere stato trasformato con successo in una serie televisiva inglese. Un mondo non tanto lontano nel tempo, ma che sembra così profondamente diverso dal nostro: i bambini che nascono, in famiglie povere e numerosissime, sono sempre accolti con amore e gioia, e le giovani infermiere sono guardate con gratitudine e affetto. Queste ragazze, provenienti da famiglie di classe alta e media, imparano a confrontarsi con sporcizia e miseria, con le botte e la sifilide, ma anche a scoprire un mondo di solidarietà e amore inaspettato. Leggendo si impara molto anche sui parti, quando avvenivano ancora nelle case e in modo completamente naturale, e la vita della madre e del figlio era spesso nelle mani di una donna coraggiosa ed esperta, la levatrice. ( @LuceScaraffia ) Il film Odyssée de la Vie Dopo tre settimane di vita l’embrione è grande come una capocchia di spillo, ma inizia già a sviluppare gli emisferi cerebrali, il midollo spinale, «un cuore rudimentale». Poi, velocemente, prende la forma di un pesce, di un anfibio, di un rettile e dopo un mese è passato da una a «milioni di cellule perfettamente organizzate tra loro». Nel secondo mese il suo aspetto è già umano, spuntano due «protuberanze nere» che, seppur sprovviste di palpebre, sono gli occhi e, mentre cresce di un millimetro al giorno, si delineano le gambe e le braccia; la coda si ritira nel coccige. È emozionante poter seguire questo processo — ancora così misterioso nonostante i progressi della scienza — in un film che unisce la poesia del racconto al realismo di immagini potenti, costruite al computer con l’aiuto di un team di medici. Girato nel 2005, Odyssée de la Vie ( L’Odissea della vita ), per la regia di Nils Tavernier, ha il grande merito di soddisfare una delle più grandi curiosità umane di tutti i tempi: cosa avviene nella pancia della donna nei nove mesi che precedono la nascita? Il documentario segue l’attesa di Giulia, la prima figlia di Barbara e Manù, in un continuo rimando tra dentro (l’universo della piccola) e fuori (la gioia, i timori, le aspettative dei genitori). Centrale il tema dell’acqua fonte di vita: la bolla che protegge Giulia, ma non le impedisce di sentire il mondo esterno e il parco acquatico dei delfini dove lavora sua madre. ( @SilviaGusmano ) V IOLENZA DOMESTICA IN U GANDA La Chiesa ugandese ha messo la violenza domestica al centro del suo Avvento. La conferenza episcopale locale, infatti, ha lanciato la campagna Decisioni condivise, sviluppo condiviso, felicità condivisa per «intensificare la consapevolezza sul problema della violenza domestica in modo da promuovere comportamenti migliori in famiglia mentre ci si avvicina a celebrare il Natale». Lo ha spiegato monsignor John Baptist Odama, arcivescovo di Gulu e presidente della Conferenza, incoraggiando tutti i leader della Chiesa a pregare contro la piaga. Dalla prima domenica di Avvento, dunque, ogni parrocchia del Paese è chiamata a ricordare il dramma della violenza domestica nelle celebrazioni liturgiche. La campagna contro questa forma di violenza è stata avviata in Uganda nel 2010. Secondo le statistiche ufficiali, che evidentemente riguardano solo i casi denunciati, nel 2012 ci sono stati 2793 casi di violenza domestica con 9278 vittime. A UMENTO DELLE NASCITE IN C OREA DEL S UD Per il sesto mese di fila, le nascite in Corea del Sud sono aumentate. Lo dicono i dati pubblicati dall’Ufficio di statistica nazionale, secondo i quali in settembre i neonati sono aumentati del 2,2 per cento. I numeri raccontano di un aumento costante da aprile, dato molto incoraggiante per un Paese fino a oggi agli ultimi posti per tasso di natalità. Uno studio governativo pubblicato nell’agosto 2014, subito dopo la partenza di Papa Francesco dalla Corea del Sud, aveva indicato il tasso di decrescita nel Paese come il più alto al mondo. Alla base del fenomeno v’è una cultura nazionale improntata su crescita economica a ogni costo e ritmi di lavoro massacranti. Consapevole del pericolo, celebrando la messa dell’Assunzione nello stadio di Daejeon il 15 agosto scorso, il Papa aveva spronato i cattolici ad andare contro «l’economia disumana, che genera cultura della morte». A fianco delle religioni, pur se in ritardo, si è schierato anche il governo, che ha varato misure che aiutano a livello fiscale le coppie con figli e tutelano le donne incinte. U CCISA LA PRIMA DONNA SINDACO DI Y EI Il cadavere di Cecilia Oba Tito, primo sindaco donna di Yei, nel sud-ovest del Sud Sudan, è stato trovato — insieme a quello di Emmanuel Lemi, suo capo di gabinetto — lo scorso 9 novembre alla periferia di Juba, la capitale. Monsignor Zachariah Angutuwa Sebit, vicario generale della diocesi di Yei, ha affermato che il duplice omicidio è un atto contro la popolazione della Yei River County e, più in generale, contro la pace nel Sud Sudan. Gli assassini dell’ex sindaco — ha proseguito il presule — hanno voluto colpire la Chiesa: Tito, infatti, è stata un membro attivo della Chiesa nel Paese e si è battuta per promuovere i diritti delle donne locali, in particolare l’accesso all’educazione. Dopo essere stata eletta deputato all’Assemblea nazionale, Tito aveva partecipato alla stesura della Costituzione del Sud Sudan, che ha raggiunto la piena indipendenza nel luglio 2011, e nel 2013 era stata eletta sindaco. P REMIATE LA PROFESSORESSA W U E LE SUE ALUNNE Il governo di Taiwan ha conferito alla prima superiore dell’Istituto Beata Imelda, il più antico istituto scolastico cattolico del Paese, il primo premio per l’innovazione multimediale sulla prevenzione dell’Aids. Il premio — spiega Xin Yage su Asia News — è stato istituito dopo che si è scoperto quanto i giovani taiwanesi fossero ignoranti nei confronti della malattia, cresciuta negli ultimi anni in modo preoccupante nella fascia di età tra i 15 e i 24 anni. Il concorso è rivolto a tutte le scuole, pubbliche e private, allo scopo di creare una piattaforma multimediale in grado di spiegare il pericolo dell’Aids ai coetanei. Le alunne premiate, guidate dall’insegnante Sophia Wu, hanno distanziato di gran lunga i concorrenti. La professoressa Wu — doppia laurea in Scienze dell’educazione e Scienze religiose — è un’esperta di comunicazione multimediale per adolescenti: «Chiarezza, sintesi, passione e precisione devono essere i connotati di ogni nostro progetto. I ragazzi hanno bisogno di afferrare immediatamente l’importanza dell’argomento trattato, di potersi appassionare a esso e di poterlo condividere». La presentazione multimediale premiata non si limita a illustrare la facilità di contagio dell’Hiv e la prevenzione dell’Aids, ma offre un contenuto più ampio: informare, condividere e aiutarsi a vicenda senza giudicare e senza abbandonare nessuno per strada. Fino a tre anni fa, Wu insegnava in un’altra scuola cattolica, un istituto tecnico per i giovani delle classi sociali più povere della periferia di Xinzhu. «È stata un’esperienza importantissima: inizialmente i ragazzi si vergognavano di appartenere a quella scuola, ma abbiamo lavorato sul fatto che la dignità non te la deve riconoscere nessuno, la dignità di quello che fai sta dentro di te e non ti devi vergognare del tuo contesto, ma essere fiero dei valori umani — e, per chi crede, cristiani — su cui basi la tua vita». L’insegnante ha quindi rivelato il suo segreto: «Sprigiona la libertà dei tuoi studenti. Lasciali liberi di trovare nuove strade per comunicare i valori in cui credono. Dove c’è vita e fantasia si può solo generare nuova vitalità, che risulta contagiosa per tutti coloro che ne vengono a contatto, proprio come aveva fatto Gesù con i suoi contemporanei». M ADRE E LEADER IN UFFICIO Ha avuto grande eco sulla stampa italiana la ricerca Maam (Maternity As a Master) condotta da Andrea Vitullo e Riccarda Zezza, i cui risultati sovvertono molti stereotipi in tema di maternità: chi è madre diventa più facilmente leader in ufficio. Trasferire sul luogo di lavoro le abilità di madre può dunque tradursi in un avanzamento di carriera perché il cervello materno presenta una serie di precise qualità. Cambiamento: nessuno cambia più rapidamente di un bambino, per cui le madri sono solite fronteggiare situazioni nuove in un costante mix di flessibilità e fermezza, riorganizzandosi mentalmente per rispondere ai cambiamenti. Capacità di risolvere i problemi: la madre produce più ossitocina e dopamina, così la trasmissione dei segnali tra le diverse parti del cervello diventa più rapida; naturalmente portata a moderare il suo ego per lasciar spazio alle esigenze dei figli, è incline a cercare soluzioni e opportunità anche non di immediata evidenza. Empatia: la madre riassume in sé tolleranza, comprensione e gestione del no, in casa come in ufficio. Essenzialità: ricevere stimoli da molteplici direzioni favorisce la capacità di sintesi, permette di andare subito al sodo; la ricerca ha dimostrato che le madri analizzano con naturalezza database informativi complicati da leggere riuscendo facilmente ad adottare strategie efficaci. Ruoli: il multitasking è uno straripamento positivo di risorse da impiegare in momenti diversi a seconda delle necessità. Velocità: grande è l’abilità della madre nello spostare il focus da un tema all’altro riconoscendo ciò che ha la priorità e stabilendo gerarchie di valori. Il saggio Of Woman Born Nel 1976, quando la nuova fase di politicizzazione femminile era centrata sulla ribellione al ruolo materno, e le donne chiedevano affermazioni professionali e libertà sessuale, una poetessa americana, Adrienne Rich, ha scritto Of Woman Born ( Nato di donna ), centrato sul valore della maternità. Un libro apparentemente controcorrente, che conobbe un immediato successo e divenne ben presto un “classico” del femminismo. Per far capire la forza ideale e poetica di questo scritto, è sufficiente citarne l’incipit travolgente: «Tutta la vita umana sul nostro pianeta nasce da donna. L’unica esperienza unificatrice, incontrovertibile, condivisa da tutti, uomini e donne, è il periodo di mesi trascorso a formarci nel grembo di una donna (…). Per tutta la vita e perfino nella morte conserviamo l’impronta di questa esperienza». Rich proseguiva confrontando questa fondamentale esperienza con la mancanza di studi e di riflessione su questo tema, lacuna che lei stessa si proponeva di colmare, con successo. ( @LuceScaraffia ) Durante la guerra sino-giapponese l’orfanotrofio di Kashing fu bombardato La suora raccolse i bimbi e si distese su di loro per proteggerli Li trovarono tutti morti in quell’abbraccio 16 anni e 6 mesi Storia di una giovane incinta dalle catene a Mosul al campo profughi di Dohuk Sono morta in quelle maledette prigioni tra le mani dei miliziani Ma vado avanti La luce della vita è dentro di me Dai bambini ai moribondi passando per migranti, anziani e ragazze che chiedono di entrare in convento Relazioni che non si possono descrivere ma solo sperimentare né i buoni sacerdoti avvertono il bisogno di “perdere tempo” con loro. In una nostra casa di suore anziane, una di esse, alla domanda: «Come va?», mi rispose: «Grazie, adesso va meglio da quando c’è madre Camilla. Lei ci visita tutte le settimane e ci fa una buona dire- zione spirituale. Creda, adesso va meglio, io lo desideravo tanto». Questa madre Camilla era stata un’ottima missionaria, anche lei inviata alla casa di riposo, che aveva trovato un nuo- vo ruolo, o meglio il ruolo che sempre aveva svolto nella vita, un ruolo di “madre” che aiu- ta a crescere nella fede e nella speranza. Ricordo suor Leocadia. Era assistente delle casa con altri figli più grandi e Cesarina fu mandata nel nord, da noi, insieme ad altre. Questa bambina non aveva nessuno che an- dasse il sabato a trovarla, anche se qualche buona signora a volte le portava qualche rega- lino. Ma non era suo papà. Il sabato sera le bambine mostravano quello che avevano rice- vuto. Suor Leocadia si inventò un rimedio: ogni sabato preparava un bel pacchetto, con vestitini, biancheria, dolci… come se fosse ar- rivato con la posta e lo dava alla bimba. «Ec- co — le diceva — è arrivato qualcosa per te». Quello che spesso mi ha sorpreso nella vita missionaria è vedere come le suore proteggono i bambini. Durante la guerra sino-giapponese, a Kashing, dove si trovava la nostra missione, nel 1937 ci fu una grande distruzione. L’orfa- notrofio venne bombardato e la suora che si trovava nel sotterraneo con i bambini più pic- coli li raccolse tutti attorno a sé, li fece disten- dere per terra e lei si mise di sopra a loro e li coprì con il suo corpo e i suoi abiti nella spe- ranza di salvarli. La trovarono così, distesa a terra con le braccia aperte, morta insieme ai bambini, quando riuscirono a togliere le mace- rie. Quella suora è morta veramente da “ma- dre”. Ma dove il senso materno di protezione si esercita in modo straordinario è nel rapporto con gli emigranti, persone che vivono “sospe- se”, sempre in attesa di qualcuno o di qualche cosa. A Chicago migliaia di emigranti non pote- vano accedere all’ospedale, perché era rischio- so per chi non aveva la documentazione in re- gola. Le suore inventarono allora un sistema di ambulatori rionali, che chiamavano out sta- tion . Erano piccoli centri di assistenza nelle zone degli immigrati, gestiti da medici e infer- miere possibilmente dello stesso gruppo etni- co. Erano luoghi molto ben tenuti, ma ester- namente sembravano piccole abitazioni, semi- clandestine. Ci voleva coraggio per fare queste cose. Fu l’unico modo per salvare la vita a centinaia di persone in attesa di un permesso di soggiorno. Il dramma si ripete oggi in Messico, alla frontiera con gli Stati Uniti. Lì le suore devo- no accogliere persone distrutte dal viaggio, medicare le piaghe dei loro piedi, nasconderli e informarli perché spesso non sanno che il deserto è disseminato di croci. Suor Xo ha da poco compiuto trent’anni. È piccolina di statura. È lì per un’esperienza che fa parte della sua formazione prima di emette- re gli ultimi voti. Dopo una buona colazione, il bagno, il riposo, c’è un momento di incon- luogo dove non si sa a chi ricorrere e non si ha assolutamente niente per poter andare avanti, solo l’offerta di un vile zaino di droga per avere una debole probabilità di passare la frontiera? A volte resta solo l’Amore. In quel momento sono stata spinta da un forte impul- so, gli sono andata vicino e l’ho abbracciato, lui ha appoggiato il suo capo sulla mia spalla singhiozzando forte e abbracciandomi.. lascia- va cadere su di me grosse lacrime… sentivo il suo cuore battere e non era possibile nessuna parola. Ma solo ho sentito un sussurro: “Lui è qui”. Poi un sorriso, un addio, e il mio flebile: “Prego per lei”». Non si può spiegare dove può arrivare una donna che sa vedere la sofferenza degli altri. Nell’Hospice di New York, ricordo l’esperien- za di suor Loretta. Molti ospiti di quel centro erano giovani ammalati di Aids. Questi giova- ni, in gran parte, attraversavano il buio della loro malattia terminale da soli e morivano da soli. Suor Loretta parlava con loro, cercava di ricongiungerli ai familiari, abbandonati da an- ni, li ascoltava. Anch’essi avevano molte cose nel cuore da capire, molte ferite da guarire. L’incontro con Dio non era facile, ma quando arrivava il momento quasi finale, suor Loretta faceva capire che Dio li aspettava per abbrac- ciarli e introdurli in una vita diversa: la vera vita. Questo non lo diceva a parole ma, avver- tendo la solitudine dell’ammalato, lo abbrac- ciava forte e con amore, sussurrandogli parole di affetto e di speranza, di perdono e di ricon- ciliazione e, spesso, sentiva che il giovane ri- maneva sereno e partiva sereno. Suor Loretta — che ha scritto un libro su queste esperienze — è stata invitata da un’uni- versità a New York per parlare del suo libro. Alla fine della presentazione, in un silenzio impressionante dell’aula magna gremita da centinaia di studenti, il moderatore chiese se qualcuno voleva fare una domanda. Il silenzio era totale. A un tratto un giovane studente si alzò e disse: «Non ho domande da fare, ma vorrei dire una cosa: se a me capitasse di mo- rire per qualsiasi ragione, vorrei davvero che qualcuno come suor Loretta, mi abbracciasse forte come fa lei con i suoi ragazzi». Credo che la maternità spirituale non si possa davvero descrivere, ma solo sperimen- tare. Pablo Picasso, «Nudo blu» (1902) l’aria chiedendo clemenza inchioda- ta alla sua sedia». Per Aria, sedici anni, appartenen- te alla comunità degli yazidi irache- ni, il vero incubo è iniziato il gior- no in cui il suo villaggio è stato at- taccato dagli uomini dell’Is. Ha vi- sto uccidere il padre e il fratello e da allora non ha più notizie della madre e delle due sorelle. Ora si trova in un campo profughi a Dohuk, è incinta di sei mesi e rac- conta il suo incubo fatto di percos- se, torture, stupri e degrado. «Era il 9 giugno — racconta via skype riempiendo lo schermo del computer con il suo viso esile e i suoi grandi occhi azzurri — quando la nostra città, Mosul, è stata colpi- ta. Durante l’attacco i miliziani hanno ucciso decine di persone. Noi donne eravamo le più spaven- tate, sapevamo cosa ci sarebbe suc- cesso se ci avessero catturate. Non abbiamo avuto tempo di fuggire. Gli uomini dell’Is hanno raccolto i prigionieri, dividendoli per sesso ed età. Il primo gruppo era composto da ragazzi giovani, un altro da ra- gazze, e un terzo da uomini e don- ne più anziani. A questi ultimi i jihadisti hanno tolto tutto. Denaro, oro e cellulari. Li hanno abbando- nati lì. A noi ci hanno caricate sui camion, dopo aver fucilato tutti gli uomini giovani del primo gruppo, tra cui mio fratello». Aria, assieme a un gruppo di cir- ca venticinque ragazze, fu traspor- tata a Baaj, una cittadina a ovest di Mosul, e rinchiusa in un vecchio edificio di tre piani. «Qui ci hanno diviso ancora. Io sono rimasta con il gruppo delle più giovani e, cre- do, delle più graziose. I nostri car- cerieri ci dissero che eravamo desti- nate, dopo la conversione all’islam, a sposare qualche glorioso combat- tente. Le altre furono condannate a diventare schiave sessuali dei mili- ziani. Dalla disperazione una di lo- ro si è impiccata, un’altra ancora ci ha provato ma i jihadisti l’hanno fermata e picchiata a sangue» dice Aria, precisando che — dopo quell’episodio — nessun’altra ha tentato di togliersi la vita. «Per circa dieci giorni siamo ri- maste rinchiuse praticamente al buio. Dormivamo per terra e man- giavamo solo una volta al giorno. I jihadisti dell’Is — racconta — ci hanno chiesto più volte di conver- tirci all’islam, minacciando che al- trimenti avrebbero ucciso tutti i membri della nostra famiglia. Alcu- ne hanno ceduto al ricatto per sal- peggio di così non poteva andare. Correvo e piangevo. Correvo e pre- gavo. Sempre più forte senza mai voltarmi indietro. Non so come, ma sono arrivata nella parte della città controllata dai curdi. Un gruppo di donne guerrigliere si sono prese cu- ra di me per un paio di giorni e poi mi hanno aiutato a superare il confine con la Turchia e da lì sono arrivata in questo campo profughi. Dopo qualche mese ho scoperto di essere incinta. Ho pianto tanto. Ho pensato ancora una volta di farla fi- nita. Nonostante la fuga, nonostan- te la mia libertà, mi sono sentita profondamente sconfitta. Ho pen- sato a mio padre. In realtà so che sono morta in quelle maledette pri- gioni tra le mani dei miliziani. Ma vado avanti. Tra qualche mese do- vrò dare un nome a questo bambi- no. Non potrò mai più tornare a Mosul. Non potrò mai più cancel- lare la vergogna. Sono morta ma la luce della vita è dentro di me». Con lo sguardo perso nel vuoto, Aria racconta come dopo dieci in- terminabili giorni fu venduta per 35 dollari ad Hassan, un giovane jiha- dista della Siria, che la portò nella casa dove viveva con altri miliziani. «Voleva obbligarmi a sposarlo, ma non poteva prima della mia conversione. Diceva che un vero credente non sposa un’infedele. Con la mia fede yazida ero una peccatrice per lui. Mi sono rifiutata e allora ha iniziato a picchiarmi e a violentarmi. Sempre più spesso. Sempre più forte. Un giorno mi disse che avrebbe aspettato ancora una settimana e poi mi avrebbe portato dalle altre donne, quelle che servivano a tutti i miliziani per sfogare le loro voglie. Ero dispera- ta, pensavo solo alla morte. “Ho pagato 35 dollari, capisci! Sei inuti- le, non mi servi a nulla”. Una notte la zona dove eravamo fu attaccata pesantemente. Gli uomini uscirono tutti e all’improvviso mi sono ritro- vata sola. Sono uscita e ho iniziato a correre nel buio. Correvo nella direzione da cui arrivavano i colpi di mortaio. Non sapevo a cosa an- davo incontro ma ho pensato che vare il padre, il marito, o il fratello». Le Nazioni Unite hanno calcolato infatti che, dopo la caduta di Mosul, millecinquecen- to tra donne e ragazzi hanno subito violenza. Le violenze sessuali so- no commesse su vasta scala: tra le vittime donne, bambine e bambini. I crimini perpetrati vanno dallo stupro ai matrimoni forzati, alla schiavitù sessuale. I miliziani del califfato sono sostenitori di una totale sottomissione dell’elemento femminile. E la praticano sulle gio- vani sequestrate e brutalizzate nelle zone di combattimento. Perfino ri- correndo alla deformazione blasfe- ma per dare giustificazione teologi- ca allo stupro (col trucco del “ma- trimonio temporaneo” in zona di guerra). In particolare, le donne apparte- nenti a minoranze religiose come gli yazidi o i cristiani assiri vengo- no rapite dai villaggi, rinchiuse in prigioni e messe davanti a una tre- menda scelta. Quelle che decidono di convertirsi all’islam sono vendu- te ai combattenti dell’Is come spo- se, per un prezzo che varia dai 25 ai 150 dollari. Le prigioniere che ri- fiutano la conversione sono quoti- dianamente stuprate e condannate a una morte lenta e straziante. Murales per le vie di Francoforte (Germania) realizzato dal duo Herakut, composto dagli artisti tedeschi Hera e Akut che opera dal 2004 Una notte venne attaccata la zona in cui ero reclusa tra stupri e torture e scappai nel buio Correvo e piangevo Correvo e pregavo Sempre più forte senza mai voltarmi indietro bambine orfane nella stessa casa dove ero io. Le bimbe spesso avevano parenti vicini o lontani che il sabato andavano a tro- varle. Una di queste bambine, Cesarina, veniva dalla Calabria: il papà vedovo, dopo un’alluvione, era rimasto senza tro personale per raccogliere dati. Si trova così di fronte a un uomo un po’ robusto, alto, ancora molto sporco, con il volto triste. L’uomo non ha voglia di parla- re. Non si fida, tutte le volte che lo ha fatto è stato ingannato. Ma poi si fida della giovane suora e comincia a parlare: ha perduto tutto quello che aveva recuperato con la vendita della sua casa, delle sue cose, del suo piccolo pezzo di terra. Ha dovuto lasciare la famiglia, poi è caduto nella so-
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