donne chiesa mondo - n. 19 - gennaio 2014

donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne La forza del punto di partenza di R OBERTO V OLPI L a forza della famiglia in Italia nel quarto di secolo che va dal secondo dopoguerra alla fine degli anni Sessanta del Novecento è testimoniata da una serie formidabile di indi- catori, che riguardano il matrimonio e i figli. Tutti si sposano. I tassi annui di nuzialità sono sistematicamente compresi tra il 7 e l’8 per mille, con punte di oltre otto matrimoni l’anno ogni mille abitanti, più di due volte-due volte e mezzo il tasso attuale (3,4 per mille). L’età media delle donne al matrimonio è la più bassa di sempre, attorno ai 24 anni, contro i quasi 31 di oggi. Non solo i vincoli di coppia sono istituzionalizzati nel o col matrimonio, ma il matrimonio è nel 97-98 per cento dei casi celebrato in chie- sa. Il vincolo prescelto dalla quasi totalità delle coppie è dunque quello a più alto tasso di responsabilità. L’obiettivo, infine, è in- discutibilmente quello dei figli. Si registrano in quel periodo li- velli di nascite che diventeranno ben presto inconsueti, con pun- te di oltre un milione di nascite annue (attorno alla metà degli anni Sessanta) in una popolazione di sette milioni inferiore a quella attuale, nella quale si registrano invece assai meno di 550 mila nascite annue. Alla luce di questi dati non si fatica a capire come il duro do- poguerra, la ricostruzione difficile, la trasformazione dell’econo- mia italiana da agricola a industriale, il miracolo economico sia- no altrettante fasi, che rappresentano al tempo stesso decisive sfi- de per il futuro del Paese, che l’Italia affronta servendosi di uno strumento, o meglio ancora facendo leva su uno strumento, che potrebbe apparire assai improprio, e che si rivela invece la sua vera arma vincente, in un certo senso la sua anima profonda: quella che oggi definiamo come famiglia tradizionale, la famiglia formata dalla coppia eterosessuale più i figli. Ben più del ventennio fascista, quando l’imparità della donna, oltretutto, era così marcata da rendere la famiglia costituzional- mente inadeguata alla crescita e al progresso, è quel quarto di se- colo così particolare e con tratti perfino di straordinarietà a rap- presentare il trionfo della famiglia. Un trionfo che non sembra conoscere ostacoli, se è vero, com’è vero, che non verrà scalfito neppure dai rivoluzionari — e proprio sul piano del costume, de- gli stili di vita — anni Sessanta. Nel corso di quel decennio si raggiungono i livelli più alti di nuzialità, natalità e di matrimoni celebrati col rito religioso che l’Italia abbia mai conosciuto. La peculiarità più marcata, e al tempo stesso il tratto divari- cante più netto con l’oggi, di quella famiglia sta nella concezione ch’essa, e quanti la costituiscono, ha di se stessa. Quella famiglia non è né si considera il punto di arrivo. Chi si sposa sa e ovvia- mente accetta — felicemente accetta, vien da dire, proprio alla lu- ce dei dati — che essa non sia che un punto di partenza, un sal- do, solido, affidabile punto di partenza. Si parte dalla famiglia per costruire il proprio posto nel mondo. Non si attende pervica- cemente, fin quasi allo sfinimento, di avere quel posto per poi, solo una volta conquistato, passare a costituire una famiglia. È una famiglia — quella di quel quarto di secolo — che non aspetta che i singoli componenti la coppia abbiano già compiuto le con- quiste necessarie a darle solide fondamenta e prospettive. Solidi- tà e prospettive le costruisce e realizza cammin facendo in quan- to famiglia. È una famiglia che ha il suo senso, il suo sentimento, proprio nel punto di partenza. È dalla partenza che misura il progredire suo e dei suoi membri, del loro impegno, del loro la- voro nel tempo. E poiché misura se stessa a cominciare dalla par- tenza non ha paura del domani, che non può che seguire. Ha lo sguardo lungo sul futuro, non si nutre semplicemente dell’oggi, anche se sa benissimo che occorre darsi da fare nell’oggi, per sca- lare il domani. La famiglia di oggi è una famiglia che pretende di realizzarsi dalla fine. Dai traguardi già conseguiti, gli obiettivi già raggiunti, le tappe già superate dai singoli: le esperienze sentimentali già inanellate, la conoscenza sessuale maturata, gli studi conclusi, il lavoro sicuro, la casa adeguata. È una famiglia che chiede a se stessa il mantenimento di premesse già date, portate in dote dall’uomo e dalla donna. E che si batte per consolidare quel che ha già, che i singoli hanno già conquistato “prima” di fare fami- glia. La famiglia, così, si abbarbica al passato e teme del domani, si forma con grande difficoltà, non ha più — o ha molto meno — il cemento delle conquiste da fare in quanto famiglia, e più esige di avere tutte le condizioni giuste per non correre rischi nel tem- po che verrà, più ne corre e si sfalda. È esattamente su questo confine tra due modi di pensare e realizzare la famiglia che si situa il passaggio da una famiglia vo- tata, come una squadra di calcio, al gioco offensivo, aperto, crea- tivo, coraggioso a una famiglia che, sempre come una squadra di calcio, si chiude nella propria metà campo e non riesce a svilup- pare che una strategia di stampo difensivo. Poche aperture, tra- me risicate, rapporti convenzionali con gli altri. Del resto, la grande penuria di bambini, ragazzi e adolescenti fino al compi- mento della maggiore età nell’Italia di oggi (10 su 60 milioni, uno ogni sei abitanti, molti meno dei 12,4 milioni di abitanti di 65 e più anni) limita tutte le occasioni e le possibilità di incontro tra gli adulti e tra le stesse famiglie. La famiglia finisce così per smarrire la sua socialità, il suo “essere” società, che non a caso sente sempre più estranea, lontana, ostile. Più vuol mettere in cassaforte il risultato del suo domani, que- sta è la conclusione, più quel risultato diventa per essa problema- tico, si allontana da lei. La giovane e lo Straniero La santa del mese raccontata da Dario Fertilio A ppena fu buio, la giovane Agnese s’alzò dal letto e sedet- te al tavolo, inquieta dinnanzi allo schermo acceso, nell’attesa che vi comparisse lo Straniero. Egli infatti era là. Nel rettangolo azzurro stazionava la rossa icona taurina ch’era sua: con essa dall’inizio l’aveva attratta. «Allora ci sei», egli le s’indirizzò pronta- mente, com’ebbe indovinato la presenza di lei. Il lampeggiare del messaggio destò nella fanciulla un fremito di piacere. Ella si trovava infatti alla vigilia del convegno più volte in progetto con lo Straniero; lungamente l’aveva carezzato come l’inizio di un destino felice. E tuttavia qualcosa, un timore dal sem- biante d’un indice candido puntato contro il suo petto, fermò per un attimo la mano sul punto di premere i tasti; ma già era so- pravvenuto intanto l’ammonimento dello Straniero: «domani sera!». Ella contemplandolo ne fu piena d’esul- tanza; giacché il timore di prima s’era dis- solto. «Dove?». «Monte Sacro, Casale Giuliani 66, terzo piano, ricordati di suo- nare da basso». «Come ci arrivo?», volle sapere la fanciulla. «Prendi un taxì, dai l’indirizzo all’autista e poi suona. Pago tutto io», la rassicurò lampeggiante colui che parlava dietro alla figura di toro. «A che ora?», s’informò Agnese. «Io sarò là alle sei e mezzo. Tu non tardare troppo». Ma proprio nel consegnargli il definiti- vo sì, quel dito invisibile tornò ad affisarsi sul suo cuore. Ella attese un minuto, due e poi tre, respirando con forza, incapace di vincere un tremito che d’improvviso l’aveva colta. E in guisa della bambina ch’era stata avanti d’incontrare lo Stranie- ro, infine scrisse: «Domani no, devo stu- diare». Il «come?» ch’ebbe in risposta la schiaffeggiò, sembrandole quasi che l’ico- na taurina, ingrandita, si facesse rosso san- gue. «Non fare la sant’Agnese, adesso», le ingiunse rapido lo Straniero. Allora per la prima volta la colpì il fatto di non conoscere il vero nome di lui. E un umore curioso la prese, di sapere almeno chi fosse la sant’Agnese che poteva somi- gliarle. Confinò la forma di toro nella cor- nice più bassa dello schermo, e cercò rapi- da tra i mille contatti dell’etere, sinché comparve un’icona preceduta dalle parole: «Il miracolo di sant’Agnesa». E qui lesse: «El terzo decimo anno della sua età perdé la morte e trovò la vita, della quale dilesse il fattore… Tornando Agnesa dalla scuola, el figliolo del prefetto della città di Roma s’innamorò di lei». Inutilmente — proseguì, meravigliandosi per la corrispondenza del nome e dell’età con i suoi — il figlio del prefetto l’aveva ricoperta d’ogni genere di sempre più pre- ziosi regali, purché ella consentisse al ma- trimonio; sempre e invariabilmente ella aveva risposto d’essere amante ed amata da un altro, intendendo il Signore Gesù senza nominarlo, come un fidanzato terre- no. Però il figlio del prefetto, ferito e fu- rioso per la ripulsa, si era rivolto al padre, e costui fece cercare «chi fusse quello spo- so el quale Agnesa tanto amava, e uno de’ parasiti di lui disse come Agnesa era cri- stiana infine dalla puerizia e in arte magi- ca tanto amaestrata che dice che Cristo si è ’l suo sposo». Dunque — lesse avanti Agnese — venne chiamata dal prefetto in tribunale, e costui le rivolse promesse, poi minacce terribili pur di smuoverla dalla sua fede: eppure costei «di tutto si rideva»… Finché quello volle avvertirla: «de’ due partiti eleggi quale tu vuoli; o colle vergini della dea Vesta sacrifica, o veramente tu colle mere- trici andarai al luogo pubblico». E così fu, giacché la vergine non cedette, afferman- do che «la divinità non consiste nelle pie- tre, ma in cielo». Sicché «fu menata al luogo pubblico e spogliata, però di subito e’ suoi capigli crescerono, e in tanta quan- tità che pareva fusse coperta insino a ter- ra, e melio stessero che una vesta». (Qui Agnese non poté trattenersi dal toccare i suoi stessi capelli, tenuti avvinti in treccine afro) e apprese avanti come tutta la cella della beata risplendesse allora di luce «per mano d’angeli fatta e apparecchiata», così forte da spaventare i vogliosi del suo cor- po; non però il figlio del prefetto, che in- curante s’avvicinò per prenderla, ma subi- to «cadde a terra colle mani al volto, e co- sì spirò». Come si sparse la notizia, prose- guì ancora Agnese, il prefetto fu colto da un dubbio ch’era disperazione, e le ordinò — meglio: impetrò — di far resuscitare il suo figlio perché dimostrasse che non di arti magiche disponeva, ma di fede certa e vera. Allora, alle preghiere di lei, il figlio del prefetto tornò a vivere e se ne andò lo- dando quel Dio facitore di miracoli. E pe- rò il vicario di quel prefetto, richiamato in sua vece dalla folla, ne volle accogliere le invocazioni e ordinò che la strega, come si risolse a chiamarla, venisse bruciata. «E le fiamme allora si divisero in due parti, di qua e di là, e beata Agnesa istava nel mez- zo e non sentiva nessuno incendio né cal- do di fuoco, né nessuno male le fece el fuoco. Allora il vicario, vedendo che ‘l po- polo non si fermava né rifrenava, coman- dò che a beata Agnesa fusse dato d’uno coltello nella gola. E subito uscì el sangue suo come rose vermiglie». «In questo modo — terminò il racconto — consacrò Cristo la sposa sua Agnesa, vergine e martire». Qui, sentendosi muta- ta, Agnese fu posseduta da un dubbio: che il dito candido prima affiso su di lei potesse precisamente rivelarsi per quello della santa. E al semplice pensarlo s’avvi- de degli occhi che aveva umidi di lagrime. Risolse allora di tornare al luogo di prima, e schiuse il rettangolo azzurro da cui la forma di toro le aveva parlato. Ma lo Straniero non c’era più. Giornalista e scrittore italiano di origine dalmata, Dario Fertilio (1949) lavora nella redazione culturale del «Corriere della Sera». Con lo scrittore russo Vladimir Bukovskij, ha fondato i Comitati per le Libertà ed è stato l’ideatore dell’iniziativa Memento Gulag, ossia la celebrazione, ogni 7 novembre, della giornata in memoria delle vittime del comunismo. Tra le sue pubblicazioni, Teste a pera e teste a mela (2001), La morte rossa. Storie di italiani vittime del comunismo (2004), La via del Che (2007), Musica per lupi (2010), L’ultima notte dei fratelli Cervi (2012). Vetro dorato incastonato nell’intonaco di una parete con sant’Agnese orante (Roma, catacombe di Panfilo, IV secolo) Qui sentendosi mutata Agnese fu posseduta da un dubbio E al semplice pensarlo s’avvide degli occhi che aveva umidi di lagrime Georgia O’Keeffe, «Winter Cottonwoods East V » (1954)

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==