donne chiesa mondo - n. 19 - gennaio 2014

L’OSSERVATORE ROMANO gennaio 2014 numero 19 Sua madre confrontava tutte queste cose nel suo cuore donne chiesa mondo Famiglia e teologia Il nuovo anno si apre con un numero monotematico del nostro mensile dedicato alla famiglia, che sarà oggetto centrale di riflessioni e analisi nel mondo cattolico in preparazione al sinodo convocato per l’ottobre 2014 su questo tema. Le donne infatti — al centro delle relazioni che tengono insieme la famiglia e la animano, sia per quanto riguarda gli aspetti quotidiani concreti che per quelli relazionali e affettivi — sono anche centrali nel fare della famiglia il luogo della trasmissione dell’esperienza di fede. Ma quest’anno porta anche una novità: per rispondere alla richiesta, più volte ripetuta, di Papa Francesco di approfondire una teologia della donna, in modo da definire meglio il suo posto nella vita della Chiesa, aggiungiamo una pagina al nostro mensile dedicata esclusivamente a questo argomento. Ogni mese un teologo o una teologa svilupperà in questo spazio le sue considerazioni su questa questione aperta e centrale nella Chiesa di oggi, arricchendo così di nuovo alimento la discussione in corso. Abbiamo deciso di chiedere la collaborazione anche — se non soprattutto — a non specialisti del tema. Pensiamo infatti che gli specialisti in genere già hanno scritto, e le loro riflessioni quindi sono disponibili anche senza il nostro intervento, e poi soprattutto che questo tema è così centrale nella vita cristiana contemporanea da essere necessariamente oggetto di pensiero e di proposte da parte di tutti, soprattutto di tutti coloro che nella loro vita hanno fatto della riflessione sulla Chiesa un momento centrale. La serie delle riflessioni teologiche è aperta da Pierangelo Sequeri, teologo molto ammirato e amato, che non si è mai dedicato alla questione femminile in particolare, e proprio per questo offre un’analisi fresca, nuova, molto stimolante per tutti. Egli ci dimostra ancora una volta come la teologia possa diventare pensiero vitale e utile per affrontare i problemi della vita della Chiesa. Continueremo per alcuni mesi con queste nuove pagine, per proporre, alla fine di questa esperienza, una tavola rotonda di discussione delle proposte fatte, che sarà pubblicata. Il nostro intento è dare il via ai lavori, offrendo le fatiche raccolte, per le conclusioni, a Papa Francesco. ( l.s. ) L’unica casa della via Una storia di conversione familiare nel Giappone del secondo dopo guerra di C RISTIAN M ARTINI G RIMALDI Figlia di un importante diplomatico giap- ponese, Misako, che vive a Tokyo, è oggi una vivace pensionata che parla un ottimo inglese e si sposta in autobus per le traffi- cate strade della grande metropoli. Con ammirevole puntualità mi viene incontro in un caffè nei pressi della metro di Kou- rakuen. Essendo domenica mi dà appun- tamento il primo pomeriggio: la mattina deve recarsi a messa, nella chiesa che fre- quenta ormai da sessant’anni. Misako pe- rò non nasce cattolica, ma buddista: la sua è una storia di conversione particolare, frutto di una scelta che sa di destino, co- me ci tiene a sottolineare. Un destino che ha le sembianze di tre personaggi: una suora, un soldato e un santo. Lei è nata nel 1935... Esatto, qui a Tokyo. Mio padre era un diplomatico. Prima della seconda guerra mondiale, il Giappone non aveva molti ambasciatori nel mondo, ma ne aveva a Singapore, dove sono cresciuta. Poi nel 1943 tornammo a Tokyo, dove studiai in una scuola presso un convento cattolico. Scelsi quindi un’università cattolica, dove fui molto influenzata dalla personalità e il carisma di una inglese straordinaria, ma- dre Elisabeth Britt. Perché straordinaria? Era una donna piena di carità, che per me è il vero segno della speranza. Viveva- mo in tempi difficili, subito dopo la guer- ra, era facile essere colti dalla disperazio- ne; lei invece riusciva a trasmetterci una grande positività. Era una donna animata da una grande fede con un alto senso eti- co: credeva ciecamente nella possibilità di realizzare una pace duratura fra le nazio- ni, sebbene fossimo in piena guerra fred- da. Certo il conflitto era finito, ma a To- kyo c’erano ancora distruzione e miseria. La Tokyo che conosciamo oggi ha preso vita solo dopo le olimpiadi del 1964. Si trovava a Tokyo durante la guerra? Durante la guerra mio padre mi portò ad Hakone, una cittadina sulle montagne vicino il Monte Fuji. Ho visto gli aerei vo- lare proprio sopra di noi quando quel giorno bombardarono la capitale. Dopo i bombardamenti siamo stati a visitare la nostra casa, completamente rasa al suolo. La cosa orrenda di questi raid aerei era che, pur essendo concentrati in alcune zo- ne della città, restavano colpite anche aree che non erano i diretti obiettivi. E la no- stra fu l’unica casa del quartiere a essere centrata in pieno da una bomba. Ero pic- cola e la cosa mi impressionò molto. Tutte le altre case erano in piedi eccetto la no- stra. Ho avuto immediatamente la sensa- zione di essere una sopravvissuta. È in quel periodo che fece il secondo incontro determinante per la sua scelta di diventare cattolica. Ogni tanto con mia madre tornavamo a visitare i resti della nostra casa distrutta. Un giorno abbiamo trovato un soldato americano che se ne stava seduto proprio davanti quelli che erano i resti della nostra casa. Si era perso. Noi allora lo abbiamo avvicinato e gli abbiamo chiesto se voleva prendere un tè con noi. Mia madre parla- va inglese, ed era molto felice di scambia- re due chiacchiere con un soldato america- no. Alla fine abbiamo scoperto che era uno studente di Yale ed era cattolico. Por- tava una collanina con una croce al collo. Io a quel tempo non ero ancora battezza- ta, ma il fatto di frequentare una scuola cattolica, e di riconoscere in quel segno qualcosa di comune me lo fece sentire vi- cino. Quella piccola croce era in realtà un grande ponte simbolico che univa due po- poli distanti, separati dagli oceani e della guerra, ma uniti nella ricerca di una verità più profonda sul senso dell’esistenza. Era insomma un’immagine di speranza. Ricor- do che mia madre ebbe un’ottima impres- sione di quel soldato. Un ragazzo sempli- ce e modesto. Passarono l’intero pomerig- gio a chiacchierare. Un’altra cosa che ci sorprese, e ci rallegrò al tempo stesso, era che fosse uno studente. Noi eravamo con- vinti infatti che solo il Giappone mandas- se in guerra gli studenti universitari, pen- savamo di essere gli unici disposti, per il bene della causa nazionale, a sacrificare le giovani menti del Paese. Per cui la cosa ci rincuorò molto. Pensammo che in fondo viamente non ha potuto recepirne il mes- saggio autentico. Questo mi fa pensare ai molti giovani di oggi che vivono la fede con pesantezza. Quasi fosse un compito appunto. Credo che il problema oggi non sia una flessione nel numero di fedeli ma la mancanza di persone capaci di trasmet- tere la novità del messaggio del Vangelo con un linguaggio che sia vicino all’espe- rienza di tutti i giorni. Per questo provo un’infinita ammirazione per questo nuovo Papa: sa parlare in modo spontaneo e di- retto, e quando parla alle folle riesce a toccare le singole coscienze, come se chia- masse in causa ognuno di noi in prima persona. Ha mai incontrato i Kakure Kirishitan, i cristiani eredi dei devoti che durante le perse- cuzioni dovevano vivere nascosti? So che esistono ancora alcune comunità nel Kyushu, nel sud del Giappone, specie nelle isole più piccole. Con la fine delle persecuzioni molti hanno ripreso a praticare il culto aperta- mente, altri sono rimasti nascosti. Ma è difficile dire se questi siano riu- sciti a trasmettere la fede ai loro figli per- ché nel frattempo, dopo la guerra, la ri- presa economica e l’immigrazione verso i centri urbani ha spopolato quelle isole. Le comunità di Kakure Kirishitan proveniva- no, per la maggior parte, da una classe so- ciale di contadini e pescatori economica- mente e socialmente svantaggiate, un po’ come i primi cristiani. So però che per le cerimonie usavano riso e sake al posto dell’ostia e del vino. Nel corso dei secoli questa religione ha subito un processo di indigenizzazione, diventando una fusione di cristianesimo, buddismo, scintoismo e, soprattutto, di molte credenze popolari. Ma forse, anche grazie alla modernizza- zione, hanno potuto aprirsi alla società e, chissà, magari seguire anche loro le elezio- ni del nuovo Papa in televisione. L’ultimo conclave era su tutti i canali, molti talk show ne hanno parlato. Hanno fatto delle lunghe dirette con studiosi della materia che spiegavano cosa fosse un conclave. Per molti giapponesi è una materia scono- sciuta. Ma nonostante tutto è stato un evento che ha ottenuto un notevole ri- scontro di pubblico. Tra l’altro, a proposi- to dei Kakure Kirishitan, nel 2014 ricorro- no i quattrocento anni dall’espulsione dei missionari dal Giappone e dal divieto di professare la fede cristiana: noi preghiamo perché il Pontefice in quell’occasione pos- sa visitare la nostra terra così ricca di sto- ria e di martiri. Anche se sappiamo che sarà ben difficile visti i numerosi impegni del Santo Padre. Mi parli del terzo incontro che l’ha portata alla fede cattolica. Quando ero ancora al primo anno di li- ceo, una suora ci disse che avremmo potu- to vedere con i nostri occhi la reliquia del santo più importante del Giappone. Io avevo conosciuto Francesco Saverio sui li- bri di scuola. Era il 1949: erano passati quattrocento anni da quando per la prima volta nel lontano 1549 il grande gesuita mise piede in Giappone. Non mi aspetta- vo dunque di trovare una reliquia così ben conservata. Avevo letto delle storie sul corpo di Francesco Saverio, dicevano che anni dopo la sua morte, quando il corpo venne sottoposto a una visita per verificar- ne lo stato di decomposizione, se punto sull’addome, rilasciava ancora del sangue proprio come fosse vivo. Ma pensavo fos- sero solo storie. Quando il braccio di Francesco Saverio arrivò nella chiesa di Kōjimachi andammo a vederlo. Ricordo che era il suo braccio destro, lo stesso braccio che utilizzò per battezzare mi- gliaia di persone. Ebbi uno shock molto forte. Pensai a tutti quei cristiani che co- noscevo: erano tutti eredi delle gesta com- piute con quel braccio. Le dita erano così ben conservate che sembravano quelle di un anziano, non certo quelle di una mum- mia di quattro secoli. A che età si è poi battezzata? A ventidue anni, ero all’ultimo anno di università. Anche mia madre si battezzò seguendo il mio esempio quando ormai aveva settant’anni. Perfino mio padre, no- nostante tutto, alla fine decise di battez- zarsi, ma solo in punto di morte. Era il 1994. Diceva che aveva paura di non tro- vare nessuno nell’al di là, perché ormai tutti nella famiglia eravamo diventati cat- tolici. ( ride ). La famiglia americana che ospitava mio padre per insegnargli l’inglese lo portava in chiesa E quando tornavano a casa come esercizio doveva riassumere l’omelia Quando il braccio di Francesco Saverio arrivò nella chiesa di Kōjimachi ebbi uno shock molto forte I cristiani che conoscevo erano tutti eredi delle gesta di quel braccio Con la fine della seconda guerra mondiale e il declino del culto dell’imperatore, in Giappone si è prodotto un vuoto spirituale enorme. E così, grazie anche all’arrivo di tanti missionari, il cristianesimo ha conosciuto una delle stagioni più feconde da quando sbarcò, quattro secoli prima, in queste terre. Misako (ritratta in foto con la nipote) è figlia di quest’epoca. donne chiesa mondo Lee Jeffries, «Homeless» (2013) non eravamo così diversi come invece cre- devamo di essere. Cosa successe dopo la guerra? Mio padre era a Shanghai e non aveva- mo avuto più notizie da lui da almeno sei mesi. Poi un giorno lo vediamo apparire davanti casa con un sacco sulle spalle. Avevamo quasi perso ogni speranza. Fu una tale gioia riabbracciarlo. Mio padre era una persona culturalmente aperta: era buddista, ma aveva avuto un’esperienza diretta del cristianesimo quando era in America. Aveva studiato per un periodo alla Clark University nel Massachusetts. Era un exchange student e viveva presso una fami- glia protestante, e così cominciò ad andare a messa. Ma lui non aveva alcun interesse per il cri- stianesimo, la famiglia che lo ospitava, per me- glio insegnargli la lingua, lo portava in chiesa la domenica e quando tor- navano a casa, come esercizio, mio padre do- veva fare il sunto dell’omelia del giorno. Lui mi disse che quello era il primo contatto che aveva avuto con la reli- gione cristiana, per cui essendo una sorta di compito a casa non ne serbava un ottimo ricor- do. Anzi, il cristianesimo lo associava a una grossa scocciatura ( ride ). Chi può dargli torto in fon- do? Il Vangelo lo ha vis- suto come un obbligo scolastico, una sorta di esercizio mnemonico, ov- Isabella Ducrot, «La strada di casa» (2014)

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