donne chiesa mondo - n. 14 - luglio 2013

L’OSSERVATORE ROMANO luglio 2013 numero 14 Sua madre confrontava tutte queste cose nel suo cuore donne chiesa mondo L’eroismo quotidiano L’eroismo quotidiano è una virtù quasi esclusivamente femminile ed è la virtù di cui sono più ricche le religiose. Leggete l’intervista a suor Alessandra Fumagalli che dirige l’ospedale italiano di Karak, a centosessanta chilometri da Amman, nell’area più povera del Paese. Un ospedale che è lì da settanta anni grazie all’impegno dei comboniani, in cui si curano i malati, ma si fa ancora di più: si proteggono le donne particolarmente fragili in una cultura arcaica come quella beduina, si coltiva il dialogo con i musulmani, si testimonia la fede nella quotidiana relazione con l’altro. Ci siamo chieste spesso, nel corso del nostro lavoro, come raggiungere queste protagoniste dell’eroismo quotidiano, queste donne che non hanno altro obiettivo che donare e testimoniare. Suor Alessandra Fumagalli è sicuramente una di loro. Sappiamo che ce ne sono molte altre in terre lontane, negli ospedali, nelle scuole, fra gli anziani, fra le donne maltrattate dove il lavoro è duro, la loro fede non è facilmente accettata. Vorremmo sentire molte altre voci perché siamo sicure che hanno molto da insegnare ai credenti e ai non credenti. Oggi è forte la speranza che Papa Francesco sappia riconoscerle e riconoscere il loro dono più di quanto la Chiesa abbia fatto in passato. Lui che viene da un Paese «alla fine del mondo» forse più di altri può comprendere chi ai confini di quel mondo è rimasto per continuare nel dono. Sono soprattutto donne, lavoratrici infaticabili, organizzatrici perfette, missionarie resistenti alle difficoltà, testimoni della fede e protagoniste del dialogo. Sono loro che testimoniano nel quotidiano, spesso senza riconoscimenti, quel Dio «che ama come una madre» che Papa Francesco ha voluto ricordare nell’Angelus dell’11 giugno scorso. Loro sono madri non solo di chi è in difficoltà, di chi è malato e di chi soffre, ma anche di chi è “altro” da loro. È l’infinitezza dell’amore la loro testimonianza di fede. ( r.a. ) Quando il dialogo sfida le differenze Colloquio con Alessandra Fumagalli, suora comboniana direttrice dell’ospedale di Karak in Giordania di M ANUELA B ORRACCINO Da Busto Arsizio a un passo dai mausolei di Petra. Per servire una categoria due vol- te svantaggiata, quella delle donne bedui- ne, e realizzare il dialogo tra le religioni con i gesti più che con le parole. Suor Alessandra Fumagalli, cinquantuno anni, descrive così dal deserto giordano il per- corso che nel 2008 l’ha portata a dirigere l’ospedale italiano di Karak, aperto nel 1939 dai comboniani a centocinquanta chi- lometri da Amman, nell’area più povera del Paese. Ha scelto di vivere il dialogo con l’islam: co- me avviene la sua missione nel quotidiano? È un intreccio tra vita consacrata e dia- logo di vita: privilegiamo la testimonianza cristiana nella relazione, cercando di vive- re con sobrietà e umiltà il lavoro ospeda- liero. Viviamo gomito a gomito con la po- polazione, cercando di purificare il lin- guaggio, le percezioni, i giudizi nel rispet- to delle diverse sensibilità culturali e reli- giose. Con le pazienti c’è un dialogo silen- zioso fatto di sorrisi e ascolto: a tutti dia- mo la stessa attenzione senza lasciarci con- dizionare da nulla. È un modo notato so- prattutto dai musulmani. A chi si rivolge il vostro ospedale? In primo luogo alla donna, e alle cate- gorie più fragili e discriminate come i bambini, le minoranze etniche locali, gli immigrati, ieri i rifugiati iracheni e oggi quelli siriani. Cerchiamo di lavorare per la giustizia, la pace, la riconciliazione: in un’area travagliata come il Medio Oriente consideriamo prioritario creare uno spazio di dialogo nel lavoro comune. I nostri col- laboratori condividono la nostra vita, il nostro carisma, il nostro fine. Del resto so- steniamo anche i cristiani rimasti qui: stare con loro significa condividerne precarietà, difficoltà e incertezze. Come vi guardano le pazienti? Il nostro ospedale è qui dal 1939. La gente ci conosce, sa che siamo donne con- sacrate a Dio e che svolgiamo un servizio volontario proprio perché abbiamo scelto di vivere al servizio di Dio e della gente. Certo, capita che ci chiedano perché non siamo sposate, non abbiamo figli e vivia- mo lontane dalle nostre famiglie. La no- stra “indipendenza” da uomini è accettata perché siamo straniere. Per chi non cono- sce la vita religiosa è difficile comprendere questa rinuncia alla vita familiare. Cosa la colpisce nelle amicizie con le musul- mane? Siamo immerse in una cultura tribale, tradizionalista e maschilista, spesso incom- prensibile per noi donne occidentali. L’aspetto che più ammiro in loro è la ca- pacità di vivere in modo positivo le situa- zioni negative: stanno nelle situazioni sen- za scappare. Si affidano a Dio e cercano il modo di far funzionare le cose nelle loro famiglie. Ai nostri occhi può sembrare ras- segnazione: in realtà a volte siamo più ras- segnate noi, quando rompiamo relazioni o abbandoniamo il campo per le difficoltà. Quali limiti avvertite nei rapporti con le per- sone? Credo che la difficoltà maggiore sia quella di gestire la nostra identità di don- ne occidentali in una cultura maschilista: è una realtà che ci chiede di essere vigili e sensibili nel comportamento, nel linguag- gio, nel modo di rapportarci. È stato fati- e poi il marito regolano il loro futuro. In città le cose sono diverse, ma qui al sud — a parte lo studio non c’è nulla — le regole culturali sono molto pesanti. Il mio di- spiacere più grande è vedere che sono po- che le donne che hanno prospettive diver- se per le loro figlie. Si è mai imbattuta in delitti d’onore? Il delitto d’onore è ancora in uso in Giordania, praticato da musulmani e cri- stiani, e condiziona pesantemente la vita delle donne. In questi cinque anni al Ka- rak siamo state avvicinate da tre giovani incinte non sposate: la leg- ge giordana prevede che in questi casi ci si metta diret- tamente in contatto con la Jordanian Association for Family Planning and Pro- tection (Jafpp), che assiste queste donne. Il che però non impedisce il delitto d’onore, che può avvenire anche dopo molto tempo. Quali sono le difficoltà maggiori che incon- trate nel vostro lavoro? Qui al sud la disoccupazione è alta, il tribalismo ancora regola la vita sociale e il fondamentalismo religioso trova un buon terreno. Le difficoltà maggiori, però, sono legate alla gestione dell’ospedale che per sua natura e nostra scelta vuole restare no profit: viviamo nella continua tensione tra garantire l’efficienza secondo i parametri del ministero della Sanità e dover fare i conti con le nostre possibilità finanziarie, che non ci consentono di acquistare le ap- parecchiature che migliorerebbero la quali- tà della nostra risposta ai bisogni della gente. Affrontiamo i problemi con poco calcolo e grande fiducia nel fatto che Qualcuno ci darà una mano nel gestire il tutto. Ci sono, ad esempio, specialisti af- fermati che vengono al Karak una o due volte alla settimana. Così possiamo con- tinuare a lanciare progetti e a curare la gente. Che percezione avete di quanto sta accadendo in Siria? La Giordania ospita mezzo milione di rifugiati, ma le autorità temono che au- mentino. La gente che vive nei campi pro- fughi dell’Onu vive nell’emergenza e nella precarietà: molti rifugiati siriani preferisco- no lasciare i campi o dirigersi verso il sud del Paese. Qui a Karak sono arrivate mol- te famiglie da Homs: abbiamo subito aperto le porte dell’ospedale, specie a donne e bambini. La gente è molto prova- ta, i piccoli sono quelli che soffrono mag- giormente. Quello che trapela è che in Si- ria la situazione è volutamente caotica e la soluzione non è vicina: ci sono potenze straniere che fanno prevalere i propri inte- ressi economici, se ne parla sempre meno e temiamo che cali il silenzio. Di cosa avete bisogno? Il nostro ospedale resta il punto di rife- rimento per il sud: abbiamo stabilito un programma di assistenza sanitaria con la Caritas giordana e con l’Alto commissaria- to delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), ma i bisogni sono in continuo aumento. Speriamo nel sostegno dei bene- fattori, soprattutto per l’assistenza chirur- gica ai rifugiati. Come sono state accolte le dimissioni di Be- nedetto e l’elezione di Papa Francesco? Ci ha impressionato l’attenzione che la gente ha riservato a questi eventi. La ri- nuncia di Benedetto XVI hanno suscitato grande interesse. E anche fra il personale medico musulmano c’è stato un unanime senso di ammirazione per il coraggio avu- to da Papa Ratzinger. Uno di loro che era stato in piazza San Pietro anni fa era pro- fondamente colpito da questo gesto, forse perché in qualche modo lo aveva “cono- sciuto”. Il giorno dopo l’elezione di Papa Francesco abbiamo ricevuto i mabruk , ov- vero le felicitazioni per la scelta del nuovo Pontefice. Anche qui i suoi gesti parlano più delle parole, del dialogo teologico: la croce semplice, la capacità relazionale e l’umanità sono stati apprezzate anche dal- le persone di fede islamica che, come noi, hanno seguito l’evento in televisione. E che, come noi, hanno sentito che era Dio a indicarci la strada. La difficoltà maggiore è quella di gestire la nostra identità di donne occidentali in una cultura maschilista Il che ci obbliga a essere costantemente vigili Vedo con dolore che sono poche le madri che hanno prospettive diverse per le loro figlie Aspettiamo ancora i frutti delle politiche educative della regina Rania Nata a Busto Arsizio nel 1962, Alessandra Fumagalli ha lavorato per otto anni in una nota casa di moda prima di entrare tra le comboniane (1990). Dopo laurea e master a Roma alla Pontificia Facoltà di Scienze dell’educazione Auxilium, nel 2000 si è trasferita negli Emirati Arabi, dove ha insegnato in un liceo femminile cattolico. Laureatasi in arabistica al Cairo, dal 2008 dirige l’ospedale di Karak (Giordania). donne chiesa mondo Donne raccolgono plastica da riciclare nella discarica di Guwahati, nell’India del nord (Utpla Baruah/Reuters) coso per me arrivare al Karak a riorganiz- zare l’ospedale: ho dovuto imparare a co- municare secondo i loro schemi, a eserci- tare il comando senza ferire l’orgoglio ma- schile, ad accettare a volte la mediazione di un uomo per comuni- care con alcuni musulma- ni: ho imparato a mie spese che bisogna cono- scere la cultura prima di agire. Siamo comunque in una posizione privile- giata: sanno che l’ospe- dale è «dei cristiani» e che ci sono le suore, ma chi viene da noi si trova nel bisogno e questo fa superare le diffidenze. In settantaquattro anni ab- biamo lasciato un segno positivo; ci rispettano. Cosa la fa soffrire nel non riuscire a cambiare certe si- tuazioni? La vita delle donne è molto faticosa qui. Gra- zie alla politiche educati- ve della regina Rania le ragazze hanno ottenuto facile accesso all’universi- tà, ma poi la cultura le riporta alle tradizioni, se- condo cui prima il padre Isabella Ducrot, «L’incontro» (2013)

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