22 LA CRITICA POLITICA letto a studi sereni e di sacrificare qualche volta la vita per un nobilissimo ideale. Cosl non può essere taciuto dalla storia l'oscµro lavoro con cui si rafforzò la proprietà perfetta, il semplice allodio durante i secoli, e di cui sono innumerevole prova gli atti privati, le chartule venditionis, (il cui formulario rivela, come è ben naturale, il solo proposito della difesa di un personale o famigliare interesse, che è la stessa cosa) resistendo da prima alle insidie e alle prepotenze baronali, e poi muovendo all'assalto della stessa feudalità per annientarla e privarla d'ogni suo privilegio. Lotta che nella capitale per opera di economisti, di giuristi, di rivoluzionari, di ministri ebbe motivi etici, ma che fra gli interessati ebbe come costante tradizione un carattere utilitario, tant'è vero che quella stessa categoria da cui uscivano gli amministratori di università, c~e avevano con tanta tenacia difeso gli usi civici ed i demani comunali dalle usurpazioni baronali, non esitò a sopprimere i primi a tutto danno del popolo minuto, ed a impadronirsi spesso con illecite chiusure dei secondi, quando il potere politico baronale fu schiacciato dalla rivoluzione. Ma anche questa è storia, storia importantissima perchè serve ad esempio a darci un criterio per intendere il differente processo dell'operare in Sicilia e nel Mezzogiorno. Mentre la legge del 1806 nel regno di Napoli che abon la feudalità, por lasciando il feudo vero e proprio in piena e libera proprietà del signore, stabi.lì la quotizzazione dei demani feudali fra i comunisti, quella del 1812 in Sicilia soppresse i diritti feudali, permise il libero commercio dei beni, ma non diede adito ad· alcuna ripartizione di terre. Il differente disposto , delle due leggi trova spiegazione nell'esistenza nel Napoletano, di una cospicua classe terriera, in feroce lotta con i baroni, e disposta attraverso le quotizzazioni ad impadronirsi per via di successivi arrotondamenti degli intieri demanii feudali, spogliando i ceti più poveri; nel deficiente sviluppo in Sicilia, di una classe media, per cui il plesso economico locale era costituito dal semplice schema medioevale: vassalli, feudatari ed alti ecclesiastici; e nelle città, nobiltà, plebe, preti e curiali. I baroni abbandonando i diritti giurisdizionali e immunitari, conservarono integro il potere economico e continuarono ad esigere le loro prestazioni per contratto invece che in forza di un loro dominio eminente. E così s'intende anche il diverso processo di sviluppo dei moti insurrezionali quarantotteschi nel Mezzogiorno e in Sicilia. I primi furono opera della classe media, (che doveva un'altra volta insorgere dodici anni dopo all'arrivo di Garibaldi), fra l'ostilità del popolo e dei signori legittimisti. I secondi furono guidati dai Pari del Regno, che secondarono gli avvocati, e promossero la costituzione di squadre di straccioni rurali ribelli da inviare in soccorso della mafia cittadina; poichè, secondo l'acuta osservazione del De Cesare (1), in un paese come la Sicilia, ove l'ordinamento sociale è a base di gerarchia, occorreva anche nella cospirazione una gerarchia. I moti denominati dal Monastero della Gancia, nel 1860, ebbero lo stesso processo di sviluppo. . (Osservazioni che servono forse ancor oggi a spiegare la curiosa circostanza che l'isola abbondi di uomini politici dai sonanti nomi principeschi, ducali o marchionali : principe T~sca di Cutò, duca di Cesarò, ecc. ecc.). (1) RAFFAELEDE' CESARE: La Jtne dt un regno. Città di Castello, Lapi, 1908. Biblioteca Gino Bianco
RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==