Alfabeta - anno V - n. 47 - aprile 1983

tare. La ricerca delle ràdici, a cui riallacciare l'arte dell'Italia postresistenziale, porta il regista e i suoi collaboratori a valorizzare il Verga cantore della sua terra e del suo tragico destino, a vedere in Verga l'artista esemplare per il loro progetto di recupero e di esaltazione di un'arte di verità quotidiana, aprendo cosi la via a quel fenomeno, il «neorealismo», che interessò vitalmente gran parte della cultura del dopoguerra. Verga si trova dunque a essere, negli anni del dopoguerra, al centro di un dibattito e di una sperimentazione che sono tutt'uno con l'evolversi di un gusto nuovo, in sintonia con quella battaglia delle idee di cui si sostanziò la cultura di questo periodo, diviso fra guerra fredda e zdanovismo incombente; e fu elemento non secondario per orientare lo sviluppo autonomo di una cultura di sinistra in anticipo e poi in linea con la strategia nazional-popolare di Gramsci. È il momento più alto della fortuna verghiana ed è anche l'esempio di come un autore, prima di diventare un classico, possa assumere un ruolo di rinnovamento, fungere da punto di orientamento e di ancoraggio per una cultura nazionale in trasformazione, tesa a trovare punti di riferimento e modelli alternativi nei confronti della vecchia cultura (in via di esaurimento e comunque incapace di indicare nuovi sbocchi all'altezza di un progetto portatore di una politica progressiva). Forse ;pà su questo terreno di intervento critico e artistico fece le prime prove quella tendenza che diverrà poi la «via italiana al socialismo», teorema e slogan politici degli anni successivi di non limpida definizione e praticabilità. Insomma, Verga ebbe l'imprevista funzione, sul piano più latamente culturale, di accompagnare i difficili esordi di un tormentato rinnovamento del gusto e del metodo in Italia - e fu un esordio tutt'altro che facile, irto di difficoltà esterne e interne, sia per quanto riguardava una critica militante di nuova impostazione sia per quello che era il terreno filosofico. Basti pensare al quadro culturale dell'Italia di questi anni cruciali di ricostruzione e di opposizione, gravidi di speranze e di progetti confusi e contraddittori, sui quali pesava non poco la vecchia egemonia culturale che aveva contagiato perfino la ripresa degli studi marxisti in Italia. ' In effetti, rivalutare Verga come un maestro significò allora sottrarsi al ricatto idealistico e alla dittatura della critica crociana. Il nome di Verga comportava, di fatto. un F uror è un trimestrale in lingua francese che si pubblica a Ginevra attraverso gli sforzi (non piccoli per la Svizzera, dove è abbastanza difficile mantenere in piedi un'impresa culturale) di Geneviève Roulin, Daniel Wilhelm (l'ispiratore del gruppo, autore di saggi su Klossowki e Blanchot) e Anne Sauser-Hall, che ne costituiscono la redazione, e di Sabine Kaufmann, Nadine Amrein, Yves Laplace, Raffi Salibian, lsabelle Mili, Vivianne von Singer, PierreAlain Croset, che ne costituiscono il gruppo di supporto. Non si tratta, come si vede, di nomi notissimi in Italia (PierreAlain Croset può essere il solo, dato che è redattoredella Casabella di Gregotti). li gruppo è infatti costi- ~ tuito da giovani intellettuali («gio- .c ;!!_ vani» almeno nello spirito e nell'eritorpo a una concezione materialistica dell'uomo e della società, che era stata cancellata, sotto l'accusa ignominiosa di positivismo, dal patrimonio filosofico italiano, da più di cinquant'anni. E tuttavia il Verga materialista e positivista continuò a incontrare sempre molte resistenze, e furono ben pochi i lettori che vollero prendere in considerazione quella sua qualifica, se non come un residuo da espungere criticamente e espuntg provvidenzialmente dall'arte stessa dell'autore (secondo la formula correttoria e castratoria di Croce). Quella che fu una delle più avvincenti imprese politico-filosofiche del marxismo del dopoguerra, la rivalutazione della filosofia di Leopardi (da parte di Luporini e di Timpanaro), non si ripeté per l'opera di Verga, sul quale si esercitarono invece con crescente penetrazione i critici neomarxisti di quegli anni, con le loro interpretazioni politiche non prive di qualche ingenuità, sulla spinta di un «impegno» che riusciva a mostrare l'utilità di questa riattualizzazione dell'opera verghiana. Eppure una non colmata distanza da Verga operava ancora, non solo al livello filosofico, ma anche a quello dello specifico letterario. L'impiego del termine «verismo» (utile per molti versi) ebbe anche la funzione neutralizzante di tener lontano quello di «naturalismo» di positivistica memoria (non a caso il positivista De Roberto dovrà aspettare un bel po' prima di trovare estimatori, o solo lettori). Parlare di naturalismo avrebbe comportato citare un autore risperienza culturale). Furor è ormai giunta a/l'ottavo numero, e dunque al terzo anno di vita. E la sua formula sembra stabilizzarsi, e costituire ormai un esempio di rivista culturale di tendenza. Innanzi tutto la sua formula e il suo aspe/lo. Si tratta di un quaderno, dal candido aspe/lo dovuto al bianco di copertina, che contiene assommati saggi di studiosi «indisciplinati» (cioè alla ricerca del superamento di rigidi confini del sa: pere), testi letterari, saggi visivi, poesie, lavori di artisti intesi non come illustrazioni ma come testi alla pari di quelli letterari. Se volete, un po' laformula del nostro Cavallo di Troia, se non fosse per un differente orientamento culturale e per una tradizione lontana da quella del gruppo che pubblica la rivista italiana. "ij 1bllotecag1noo,anco mosso, e non solo per motivi letterari, e cioè Zola, non a caso ammirato e idoleggiato, al di sopra di ogni altro, dal Verga e con lui da tanti (troppi, a volerli contare) altri. E così questa narrativa, lontana dalla prosa manzoniana e aliena da trattamenti novecenteschi, non ebbe mai in Italia l'onore degli studi che pure meritava. Fu ammirata e additata in Verga come un apax di eccezionale levatura, solo dopo averla estraniata da ogni ·discorso sul romanzo e sulla sua morfologia fineottocentesca, facendone oggetto di analisi stilistiche disattente a ogni preoccupazione storico-formale. e ol procedere degli anni, Verga continua a rimanere uno degli autori tipici della critica di sinistra, in tutte le sue articolazioni, anche quando si impone la necessità di recuperi e di aggiornamenti per una cultura che vuole scrollarsi di dosso il gioco dell'impegno e dell'utilizzazione ideologica. Fra il '60 e il '70 il Verga neorealista si tramuta nel «caso Verga», ed è il «caso» di una critica che si confronta e dibatte con se stessa puntando a nuovi, più ardui sbocchi. A più riprese ci si arrovella interrogandosi sull'atteggiamento progressista o reazionario dello scrittore, sul punto di vista del narratore, sul suo rapporto con la materia sociale della rappresentazione (Verga rimane l'autore d'obbligo, prima ancora di Villari e di Fortunato, come fonte letteraria della questione meridionale), sulla · Furor. Omar Calabrese La cultura .di Furor, infatti, è di tipo prevalentemente francese. Basterà dare un'occ~iataai saggifinora usciti, e troveremo Jacques Derrida (con un testo sulla telepatia), Jean-François Lyotard, Gerard Genette (con uno splendido pezzo sulla letteratura patafisica, Jeux oulipiques). E poi ancora Julia Kristeva con un brano «amoroso», Miche/ De Certeau con un testo sul discorso mistico, Lucien Diillenbach (autore di notevoli studi sulla letteraturadi citazione e di secondo grado) che si cimenta col problema· della rima, Jean-Louis Schefer, e così via. Persino i testi inediti talora pubblicati dalla rivista sono vagamente orientati: è uscito ad esempio un pezzo di Walter Benjamin sul Trauerspiel e la tragedia. Cultura francese, dicevamo, ma cultura francese di un certo tipo: sua utilizzazione «corretta» in vista di una critica di classe, passata intanto dall'immediatezza dell'impegno alle mediazioni dell'interpretazione negativa. Ma è sempre a Verga che si deve far ritorno, come a una controprova di sicura efficacia. A questo punto non poteva mancare il confronto con l'emergente critica del profondo, che lavorasse sotto la crosta dell'impersonalità dello scrittore, al di sotto di quel mondo sociale e umano fissato sulla pagina con tanta complessa e sconcertante estraneità. Andando bltre la decifrazione di quel mondo socio-economico e delle sue determinazioni si tentò di cogliere, al di sotto della crudeltà dello struggle for the /ife positivistico, il battito di un'altra lotta, alla radice di quel primitivo rapporto di forze. E Rosso Malpelo si offri come il testo-chiave per tentare il salto in questo sottosuolo ancora inesplorato, permettendo un naturale passaggio '1all'analisi delle strutture primitive della società ricreata da Verga a quelle di un'economia primigenia, dove l'economia dei rapporti ha i connotati di un latente conflitto libidinico. È un viaggio interpretativo appena cominciato, fra mille rischi di arbitrarietà storico-esegetiche, ma tale da invogliare ogni studioso vecchio o nuovo, il quale - scegliendo questa strada della perlustrazione del Verga segreto o misconosciuto - si ponga il problema sempre trascurato della dualità dell'opera verghiana. Poiché la critica ha sempre voluto dimenticare che Verga è un tipico scrittore quella di più recente tradizione che aneli.ein Italiaha avuto forte presa, come la semiologia di indirizzo barthesiano, la psicanalisi portata al decostruttivismo ne~'ambito delle scienze umane e letterarie, la critica letterariaraffinata ed essa stessa portata a livello di produzione estetica, e così via. Una cultura che ha saputo affermarsi perché orientata (sia pure talora con molti birignao e molti narcisismi) ali'analisi non dei semplici effe/li di superficie di un testo, ma alla ricerca della struttura di profondità (la matrice culturale) di un'opera come di un comportamento. In questo senso, quella cultura francese ha operato, e a fondo, un rivolgimento negli statuti epistemologici delle discipline, proiettandosi non solo alla ormai conclamata «interdisciplinarità»del sapere moparallelo, che sembra inseguire con la sua opera due mete del tutto separate, come se coltivasse due incomunicabili ambizioni all'interno di una oscura strategia di romanziere totale. La critica militante e accademica ha sancito unanime l'ufficialità del Verga «rusticano», ma tuttora non sa dove collocare l'«altro» Verga, se non in·un sottoscala, fuori dagli interessi vitali dei .lettori. Eppure, chi voglia seguire le tracce del materialismo dello scrittore non può accontentarsi solo della facile via delle rappresentazioni socio-economiche, ma prendere atto di questa ulteriore difficoltà, di questa non-linearità di un processo artistico in continuo superamento. Bisogna indagare il perché di questo alternarsi, o meglio di questo appaiarsi, per cui ùn Verga borghese si affianca a un Verga rusticano, sempre gomito a gomito, sempre in un'inquietante forma di convivenza. Forse il materialismo e il pessimismo biologico e storico dello scrittore, il suo zolismo, il suo positivismo psicologico, riceveranno nuova luce dalla presa di coscienza di tale dualità; forse lo stesso progetto dei Vinti nel suo movimento a climax verrà attraversato da nuove ipotesi interpretative, meno legate alla teoria unitaria finora trionfante, e magari invece più pronte a cogliere una funzionalità più articolata e meno pacifica. Nei tempi correnti di preoccupate certezze ed emergenti inquietudini, mentre dilagano un gusto letterario di permissiva sperimentalità e una spossatezza filosofica che si conciliano sotto la compiacente egemonia di un diffuso verbo narcisista, si può forse ancora guardare con diverso e rinnovato interesse a questo scrittore cosl emblematicamente scisso, co~ì arduamente veritiero nella sua resa di totale antisoggettività. E non dovrà stupirci troppo se poi ci accorgeremo, quasi d'improvviso, che il fantasma del galantuomo Verga si aggira ancora fra di noi, con quella sua impassibile eleganza di disilluso, che sembra volere scoraggiare ogni curiosità, ogni morbidezza, in forza di una sua tetragona solidità. Ma «l'uno può essere diviso in due», dicono i saggi cinesi. E Verga, prima di diventare un classico e offrire materiale per lezioni accademiche e /ecturae di dantesca memoria, può risultare nuovamente lo stimolo ideale per una diversa militanza interpretativa, capace di coinvolgerci e di costringerci a un confronto, proprio come se fosse, ancora una volta (l'ultima?), nostro contemporaneo. demo, ma addirittura alla distruzione della sua sistematicità, nella convinzione che la cultura è sovrapposizione, percorso, intreccio, conflillo di saperi. E non ordine determinato causa/mente o temporalmente (storicamente). La rivista mostra questo suo orientamento non solo per gli autori prescelti, ma anche per la disposizione tattica di verbale, visivo, descrittivo, poetico al proprio interno. È una plurivocità non di voci ma di discorsi, che si sommano polifonicamente. ùn solo difetto, se mi si concede segnalarlo: un'impostazione grafica un po' troppo ordinata, e un aspetto troppo razionalmente povero ma dignitoso. Furor n. 8, gennaio 1983 1 rue du Purgatoire, 1204Genève pp. 100, fs. 20

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