Alfabeta - anno V - n. 47 - aprile 1983

Ho superato un altro cadavere, e un altro. Nella polvere tra un morto e l'altro, spiccava un oggetto intatto in quel carnaio, di un rosa traslucido, che poteva ancora servire: una gamba artificiale, a quanto sembrava di plastica, e portava ancora una scarpa nera, e un calzino grigio. Ho guardato meglio, era chiaro che l'avevano strappata brutalmente alla gamba amputata, perché le cinghie che normalmente l'avevano trattenuta alla coscia, erano tutte strappate. La gamba artificialeapparteneva al secondo morto. Quello di cui non ho visto altro che una gamba e un piede calzalo da una scarpa nera e un calzino grigio. Nella viaperpendicolare a quella dove lasciavo i tremorii, ce n'era un altro. Non ostruiva per intero il passaggio, ma era steso all'inizio della strada, sicché ho dovuto passare oltre e voltarmi per vedere la seguente scena: seduta su una sedia, circondata da donne e uomini ancora giovani che stavano silenziosi, singhiozzava una donna - vesti da donna araba - che ai miei occhi poteva avere sedici o sessant'anni. Piangeva ilfratello, il suo corpo che sbarrava quasi del tutto la strada. Le sono andato vicino. Ho guardato meglio. Portava una sciarpa annodata sollo il collo. Piangeva, e lamentava la morte del fratello, al suo fianco. Aveva un volto rosa, un rosa infanJile, quasi uniforme, oolcissimo, tenero - ma senza cigliané sopracciglia, e quello che io credevo rosa non era l'epidermide ma il derma con ai bordi un po' di pelle grigia. Il volto era bruciato per intero. Non ho potuto sapere da che cosa, ma ho capito da chi. I primi morti, avevo cercalo di tenere il conto. Arrivato a dodici-quindici, avvolto dall'odore, dal sole, inciampando in ogni rovina, non ce la facevo più, tutto si confondeva. ., Di case sventrate da cui uscivano trapunte, di palazzi sfondati, ne ho visti molti, restando indifferente; quando guardavo quelli di Beirut ovest, quelli di Shatila vedevo l'orrore. Mentre i morii di solito mi sono presto familiari, persino amici, quando ho visto quelli del campo non ho distinto che l'odio e /a.gioia di coloro che li avevano uccisi. Era una festa barbara quella che s'era tenuta qui: rabbia, ebbrezza, danze, canti, bestemmie, lamenti, gemiti, in onore degli spettatori che se la ridevano all'ultimo piano dell'ospedale di Acca. Prima della .guerra d'Algeria, in Francia, gli Arabi non erano belli, il loro aspetto era cupo, trasandato, una faccia di traverso, e quasi di colpo la villoria li ha resi belli, ma già, poco prima che essa li abbagliasse, quando mezzo milione di Francesisi sfiancava e crepava nelle Aurès è in tutta l'Algeria, si poteva avvertire un curioso fenomeno sui volti e il corpo degli operai arabi: qualcosa di simile alt'appressamento, al presentimento di una bellezza ancora fragile, ma che stava per sommergerci, quando le scagliesarebbero cadute infine, dai loro corpi e dai nostri occhi. Bisognava accettarel'evidenza: si erano liberatipoliticamente per apparire infine come bisognava vederli, bellissimi. Allo stesso modo, scampati ai campi profughi, scampati alla morale e all'ordine dei campi, a una morale imposta dalle necessità della sopravvivenza, scampati insieme anche alla vergogna, i fedayn_erano bellissimi: e poiché quella bellezza era novella, cioè nuova, cioè spontanea, erafresca, così viva da scoprire immediatamente ciò che poteva accordarla con tutte le bellezze del mondo, strappandosi alla vergogna. Molti macrò algerini, che animavano le notti di Pigalle, giocavano le proprie carte afavore della Rivoluzione algerina. Anche qui c'era virtù. Hannah Arendt, credo, ha distinto le rivoluzioni secondo che tendano alla libertà o alla virtù - dunque al lavoro. Forse è necessario ammettere che le rivoluzioni o le liberazioni si danno - oscuramente - come fme il trovare o ritrovare la bellezza, cioè l'impalpabile, altrimenti innominabile che con questaparola. O meglio, no: per bellezza intendiamo una allegra insolenza che sfida la passata miseria, i sistemi e gli uomini responsabili della miseria e della vergogna, ma insolenza allegra che ha capito quanto l'esplodere, fuori della vergogna, sia facile. Ma, in questa pagina, si doveva parlare soprattutto di questo: una rivoluzione non è tale quando non ha fallo cadere dai volti e dai corpi la pelle morta che li avviliva. Non sto parlando di una bellezza accademica, ma dell'impalpabile - innomi81bi1otecagniobianco nobile - gioia dei corpi, dei volti, dei gridi, delle parole che non sono più stentate, voglio dire una gioia sensuale e così forte da cacciare ogni erotismo. Sono tornato aAjlun, in Giordania, poi a lrbid. Raccolgo quello chepare essereun mio capello bianco caduto sul golf, e lo poso su un ginocchio di Hamza, seduto accanto a me. Lo prende tra il pollice e il medio, lo guarda so"idendo, lo intasca nel suo giubbotto nero, vi mette sopra la mano e dice: - Un pelo della barba del Profeta vale meno di esso. Tira un sospiro più prof onda e aggiunge: - Un pelo della barba del profeta non vale più di esso. Aveva solo ventidue anni, il suo pensiero era molto superiore a quello di un palestinese di quarant'anni, ma portava già su di sé i segni - su di sé: sul proprio corpo, nei gesti - che lo avvicinavano agli anziani. Un tempo i contadini si pulivano il naso con le dita. Uno schiocco scagliava il moccio tra i rovi. Si strofinavano il naso sulla manica di velluto a coste che, in capo a un mese, era incrostata di un velo madreperlaceo. Lo stesso i fedayn. Si pulivano il naso come i marchesi, i prelati tirav= una presa: un po' curvi. Ho fatto anch'io la stessa cosa, me l'hanno insegnata loro senza accorgersene. E le donne? Giorno e notte a ricamare le sette vesti (una per ogni giorno della settimana) del co"edo di fidanzamento offerto da uno sposo quasi sempre anziano, scelto dai parenti, triste risveglio. Le giovani palestinesi diventarono bellissime quando si ribellarono al padre e rifiutarono l'ago e la forbice da ricamo. È sopra le montagne di Ajlun, di Es-Salt e di lrbid, sulle foreste, che si era posata tutta la sensualità liberata dalla rivolta e dai fucili, non dimentichiamo i fucili: bastava questo, ognuno erapago. I fedayn senza rendersene conto - ma davvero? - realizzavano una bellezza nuova: i gesti vivaci e visibilmente spossati, lo sguardo rapido e brillante, il timbro della più limpida voce si accompagnavano allaprontezza della replica e allasua concisione ed esattezza. Le lunghe frasi, la retorica accorta e volubile, le avevano bandite. A Shatila, molti sono morti e il mio affetto, il mio amore per i loro cadaveri putrescenti, era grande anche perché io li avevo conosciuti. Neri e gonfi, putrefatti dal sole e dalla morte, erano ancora fedayn. Verso le due del pomeriggio di domenica, tre soldati dell'esercito libanese, col fucile puntato, mi hanno condotto a una jeep dove sonnecchiava un ufficiale. Ho chiesto: - Parlate francese? - English. Era secca la voce, forse perché l'avevo destato di soprassalto. Ha preso in mano il mio passaporto. Poi, in francese: - Venite di là? (con la mano indicava Shatila). - SI.· - E avete visto? - Sì. - Lo scriverete? - SI. Mi ha reso ilpassaporto. Mi hafatto segno di andare. I tre fucili si sono abbassati. Avevo passato quattro ore a Shatila. Ne avevo per ricordo circaquaranta cadaveri. Tutti - e dico: tutti - erano stati torturati, probabilmente da ubriachi che cantavano, ridevano, tra l'odore di polvere e già di carogna. Indubbiamente ero solo, intendo dire il solo europeo (con poche vecchie palestinesi, ancora aggrappate a un cencio bianco strappato; con pochi giovani fedayn disarmati) ma se cinque o sei esseri umani non f assero stati là, se avessi scoperla io quella città abbattuta, i Palestinesi atte"ati, neri e gonfi, io sarei impazzito. Dove ero.stato? Quella città in briciole e a te"a che ho visto o creduto di vedere, percorsa, sollevata, trasportata dall'odore possente della morte, c'era stato davvero tutto ciò? Non avevo esplorato, e male, che un ventesimo di Sabra e Shatila, non ero stato a Bir Hassan, né a Burj el Barajné. Non dipende dalle mie inclinazioni il fatto di avere io vissuto il periodo giordano come una magia. Alcuni Europei e Arabi del Nordafrica mi avevano parlato del sortilegio che li aveva incatenati laggiù. Vivendo quella lunga ondata di sei mai appena tinJa di scuro per dodici o tredici ore, ho conosciuto la lievità dell'evento, la straordinaria tempra dei fedayn, ma presentivo la fragilità dell'edificio. Dovunque v'erano gruppi dell'esercitopalestinese - lungo il Giordanoc'er= posti di controllo dove i fedayn er= tanto sicuri del proprio diritto e potenza che l'arrivo di un visitatore, di giorno o di notte, a uno dei posti di controllo, era occasione per un buon tè, per parlare e scoppiare a ridere e darsi baci fraterni (chi si stringeva alpetto, partiva quella notte e avrebbe attraversalo il Giordano per collocare delle bombe in Palestina e spesso non avrebbe fatto ritorno). Le uniche isole di silenzio erano i villaggigiordani: quelli tenev= la bocca chiusa. Tutti i fedayn sembrav= camminare leggermente su da te"a come per una sorsata di vino forte o una boccata di hashish. Che cos'era? La gioventù incurante della morte, che per sparare in alto, aveva armi cecoslovacche e cinesi. Protetti da armi che tirav= così alto, i fedayn non avevano paura di niente. Se qualcuno tra i lettori ha visto una carta geografica della Palestina e della Giordania, sa che il territorio non è un pezzo di carta. La zona sulle rive del Giordano è piuttosto montagnosa. Questaspavalderia avrebbe dovuto portare come sottotitolo «Sogno di una notte d'estate»malgrado le urla dei responsabili di quarant'anni. E tutto poteva avvenire grazie allagioventù, al piacere di starsene sotto gli alberi, di giocare con le armi, all'essere wntani dalle donne, cioè allo scansare un difficile problema, ali'essere il punto più luminoso, perché il più avanzato, della rivoluzione, all'avere l'appoggio dellapopolazione dei campi, all'esserefotogenici senza rimedio, e forse al presentire che quell'incanto dal contenuto rivoluzionario di lì a poco sarebbe andato distrutto: i fedayn non volevano il potere, avevano la libertà. Tornando da Beirut, all'aeroporto di Damasco, ho incrociato dei giovani fedayn, sfuggiti all'inferno israeliano. Avevano sedici, diciassetteanni: ridev=, er= come quelli di Ajlun. Come essi moriranno. La lotta per una te"a può riempire una vita intensa, e breve. È la scelta - ci si ricorda - di Achille nell'Iliade. Note (1) Di questo incontro, Gene! ha saitto in «Commento alle fotografie di Bruno Barbcy,,, in Zoom n. 4, 1972, pp. 32-52 (il testo solo poi raccolto in Autori vari, La ragione thgli ailri, Pavia, Moncalvo, 1979, pp. 40-46). Ricordo qui altri due interventi di Gcnet sulla questione palestinese: «Les femmes de Djebcl-Hussein•, in u Monde diplomalique, luglio 1974, p. 44, e il fondamentale «Tbc Palestiniaos,. in Jou.ma/of PalesaneStwlies, m, 1, 1973,pp. 3-34. (SuSabra e Shatila si veda inoltre Amnoni Kabcliouk, Enquiu sur un massacre, Paris, Scuil, 1982). (2) Sono le iniziali in ebraico di «Esercito di difesa israeliano». (3) Quartiere di Beirut, come poi Bir Assan e Burj cl Barai~- (4) Organizzazione della sinistra libanese: sono anche detti «nas.scriani indipendenti•. Nota mlazionale (14 marzo '83). Questo saitto-reportage di Gcnet è apparso sul n. 6 (inverno 1983) della R~ue d' tnulLs pa/Dtinimnes, Paris, Minuit, pp. 3-19. Abbiamo chiesto e avuto dalla redazione palestinese il diritto di tradurre il testo di Gcnet, importante per noi e per i nostri lettori (mentre è possibileche in parte o interamente, o per frammenti, esso sia dato in altre pubblicazioni). (Traduzione di Marco Leva)

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