stessa consunzione». L'ebraismo della diaspora, quell'Ostjudentum tanto caro a Roth e a Singer, vive di questa speranza e di questa consunzione, perché la coscienza del proprio sradicamento e l'impossibilità del ritorno vanno di pari passo con l'attesa della redenzione, di quell'«ultimo giorno» che, solo, può inverare una storia di vagabondaggio e di sofferenza altrimenti priva di senso. Per l'ebreo, ha scritto Franz Rosenzweig, «la storia non è ancora compiuta». Proprio l'antistoricismo radicale, la circolarità degli avvenimenti che si ripetono e si tramandano in una sostanziale inconcludenza, il senso di distacco che l'ebreo mantiene sempre di fronte agli eventi mondani, anche ai più atroci, proprio questi tratti di assenza e di perenne «altrove» sono emblematici di una gran parte della letteratura mitteleuropea. 11problema della lingua è a questo proposito decisivo. Se l'ebraico, la lingua di Dio e dei patriarchi, propone nella sua stessa trasparenza e cristallinità l'impossibile sogno di una lingua edenica, riposante in se stessa, in cui parola e cosa sono indissolubilmente unite, la lingua dell'esilio e del Nome perduto, del cammino e dell'attesa, è lo jiddisch. In ebraico davàr significa tanto 'parola' quanto 'cosa': la pienezza del linguaggio (che vive in ogni sua particola, tanto che ogni lettera dell'alfabeto è un frammento del Signore di Israele) scaturisce dallo stesso atto creatore: come ha notato Benjamin, l'atto di creazione «ha inizio con l'onnipotenza creatrice della lingua, e alla fine la lingua si incorpora, per così dire. l'oggetto creato, lo nomina». La totalità del mondo è garantita dalla parola che è sacra in un duplice senso: da un lato è l'oggetto, la cosa stessa; dall'altro è la lingua madre di Dio. La distruzione del Tempio segna la definitiva impossibilità di cogliere il mondo con il linguaggio. L'ebraico resta la lingua della Legge (che è necessariamente intraducibile), e nella sua purezza fa balenare il giorno della redenzione, ma la lingua della diaspora è lo jiddisch. Sia Elèna Mortara Di Veroli sia Claudio Magris hanno posto l'accento sull'ambiguità dello jiddisch, che è la lingua quotidiana. familiare, la lingua che scandisce la vita dell'ebreo orientale, e insieme è la lingua dell'esilio e del ricordo. Lo jiddisch trasmette un intero mondo di valori, coglie nella sua stessa natura, per così dire, l'essenza dell'ebraismo mitteleuropeo, e contemporaneamente rimanda, proprio nel suo essere la lingua di tutti i giorni, alla purezza dell'ebraico, che trasfigura ogni avvenimento e quasi lo neutralizza. L'ebreo orientale che, come ha scritto Roth, «non ha una patria, ma morti in ogni cimitero», incarna più di ogni altro lo specifico ebraico, perché il suo vagabondare senza méta, che è il «non poter concludere» di un racconto jiddisch, testimonia la perdita irreparabile del Nome. Il Talmud si spinge a dire che «il Santo, benedetto sia, si è mostrato benevolo verso Israele disperdendolo fra le genti». In questa figura ambigua e sofferente, che vive lontano dalla casa cui forse non potrà più tornare. che osserva il mondo con la precisione e la puntigliosità di un mercante o di un dottore della Bibbia -9 ~ e insieme con il supremo distacco ~ ironico di chi non può mai ricono- ;:: scersi nei fatti che accadono, molti .,.. scrittori di questo secolo hanno vii:: sto un'immagine e un simbolo del- ~ l'uomo contemporaneo. tori, la tolleranza e l'ironia, il disordine e la pacata saggezza, sono elementi in qualche modo ebraici, o meglio, anche ebraici. Gli Ostjuden, componente decisiva dell'Impero, vengono affrancati dal ghetto e parificati agli altri sudditi da Giuseppe II: il processo di integrazione e assimilazione che ha così inizio porta a quella koiné ebraicomitteleuropea che non produce soltanto grandi scrittori ebrei (da Kafka a Schnitzler, da Roth a Zweig, da Rezzori a Canetti), ma influisce in modo massiccio su tutta la letteratura e la cultura di quel periodo. Molti temi di carattere ebraico, a cominciare dalla stessa condizione di sradicamento, diventano metafore della condizione più generale dell'uomo tardo-moderno, che si aggira fra le rovine dell'Impero come tra i frammenti di una totalità perduta, che è senza patria e senza qualità, in precario equilibrio fra la nostalgia di un mondo che non si dà più e la coscienza ironica del definitivo distacco. l Quei caratteri della monarchia BÌbabo ~cagiriò°r.>1anco S imile al conte Morstin di un bellissimo racconto di Roth, che vaga per l'Europa privo . di una patria, l'uomo contemporaneo non può più riconoscersi nel «grande stile» dei classici, ha perso fiducia nella ragione ordinatrice e chiarificatrice, il suo vagabondare senza scopo rimanda a un «altrove» che la parola non può dire, ma soltanto accennare. Se è vero che l'influsso ebraico è molto forte in tutta la cultura danubiana, e se pure è vero - come si è accennato - che è tipico dell'ebraismo (di quello chassidico almeno) il raccontare, tuttavia non è facile isolare gli elementi specificamente ebraici che operano nella letteratura austro-ungarica. I tre giorni del convegno di Gorizia, fitti di relazioni e di interventi, hanno fornito spunti, hanno pr~enuito_ ricerche particolari, hanno posto domande. Piuttosto che tentare un'impossibile definizione onnicomprensiva della letteratura ebraico-mitteleuropea, definizione che cozzerebbe contro lo spirito stesso di quella cultura, è forse più produttivo accennare a tre scrittori, ebrei e mitteleuropei, che in modi diversi e da diverse direzioni ci avvicinano al problema. Essi sono Friedrich Torberg, Joseph Roth e Franz Kafka. Torberg (ne ha parlato Otto Beer, critico e scrittore), cresciuto nell'ambiente viennese e praghese fra le due guerre, è un personaggio minore dello sterminato catalogo mitteleuropeo. La sua opera di saggista, polemista (fondò e diresse una rivista, Forum, di stampo krausiano), romanziere e poeta, non è di altissimo livello ma si inserisce. in modo marginale e forse proprio per questo emblematico, nel panorama letterario di origine ebraica. Dopo una serie di opere che, in modi diversi, hanno a che vedere con l'ebraismo, nel 1975 Torberg pubblicò il romanzo Zia Jolesch ovvero il tramonto dell'Occidente in aneddoti (seguirà, nel '77, L'eredità di zia Jolesch), una serie di quadri brillanti della vita viennese fra le due guerre che ruotano intorno al personaggio di Jolesch, un'ebrea che unisce l'abilità nel preparare torte e dolciumi a una saggezza spicciola, leggermente ironica e così tipicamente ebraica, che dà il senso di un'eredità da tramandare. Torberg disse di sé di sentirsi «il testimone oculare di una Waterloo»: la scomparsa di quel mondo composito e ricco, popolato da scrittori geniali e signore affascinanti, da impiegati e da nullate' nenti, è osservata e analizzata con il distacco che gli anni hanno recato e con la compartecipazione di un protagonista. La figura di Tante Jolesch, come quella di Torberg stesso, riassume nel suo profilo «minore» i tratti di una civiltà al tramonto. Joseph Roth, cui il convegno goriziano non ha purtroppo dedicato una relazione specifica, incarna invece un altro tipo di scrittore ebraico: l'ebraismo est-europeo, !"ebraismo dello Shtetl e della lingua jiddish (così splendidamente dipinto nel quasi dimenticato Juden auf Wanderschaft), diviene metafora e immagine dell'intera monarchia austro-ungarica e dell'Europa stessa. Pressoché ogni romanzo vede tra j protagonisti un ebreo: dall'incantevole Mendel Singer, pio e bestemmiatore, che soffre il doppio esilio della diaspora e dell'emigrazione in America, all'emblematica figura di Schemarjah, dalla barba rossiccia, il cui sacrificio segna la crisi dello spavaldo Tarabas. Il mondo perduto dell'Ostjudentum, di quei villaggi ai confini dell'Impero che ne incarnavano la vera essenza, è descritto nei libri di Roth con la pietas, tipicamente ostjudisch, dello sradicato e del senzapatria che vede nella patria fittizia dello Shtetl il luogo impossibile della riconciliazione, la difesa orgogliosa dell'insignificanza della. vita quotidiana contro gli avvenimenti grandiosi della storia mondiale. E come un apologo chassidico può leggersi La leggenda del santo bevitore, dove la chiamata, la voce dell'Altro, si disperde nella confusione del mondo. Diverso ancora è l'atteggiamento di Kafka nei confronti dell'ebraismo: né ebreo, né cèco, né tedesco, e le tre cose insieme, Kafka soffre di uno spaesamento esistenziale che di volta in volta si carica di sensi di colpa o di eccessi mistici. Come ha notato Zimmermann, proprio la mistica ebraica dell'Università di Francoforte è un mezzo insostituibile per comprendere la sua opera, a sua volta interpretabile come introduzione alla mistica stessa. La struttura gerarchica della verità e della sua interpretazione, che percorre il Talmud e la Cabbalà, diviene nei racconti e nei romanzi di Kafka immagine stessa del mondo: la colpa, incancellabile e incomprensibile, è la solitudine del singolo, che proprio in quanto singolo non potrà mai mutare in modo decisivo la propria condizione. Immagine della vita è la prigione, e il morire non è che il trasferimento a un'altra cella, da cui soltanto la mano del Signore potrà liberarci. L'impenetrabilità della legge si fonda sul carattere creaturale delruomo, e questo è il suo delitto. Non la gioia chassidica, ma il nichilismo di certe correnti mistiche è una almeno delle chiavi per la lettura di Kafka. Quella «sottigliezza appassionata e cavillosa» (Mittner) che, per esempio, esaspera alcune lettere a Felice, deriva direttamente dal Talmud e, insieme, lo supera: nel deserto del mondo non ci è più permesso sperare il dono del cielo. •
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