Con questo articolo di Mario Spinella la redazione di Alfabeta intende promuovere un'ampia discussione critica tra i comunisti e in generale nella sinistra. e he il tei:rorism~ !t~an~, nelle sue vane matriCI, sia giunto a un punto di crisi sembra indubitabile. E non vi è, come cittadini, che da rallegrarsene. In un Paese che ha già tanti - e gravissimi - problemi, il terrorismo ha infatti implicato - e implica ancora, nelle frange che ne sopravvivono, - uno storno pesante di energie e di attenzione, un aggravio patologico su un corpo collettivo già segnato da malattia. Perciò la lotta a fondo al terrorismo non è solo necessaria ma sacrosanta; e sembrano, per fortuna, ben lontani i tempi in cui qualcuno poteva pensare - e affermare - di non voler essere né con il terrorismo né con questo Stato. Discutibile, opinabile è invece la scelta dei modi di questa lotta; né sono mancati, anche se insufficienti, i rilievi critici da varie parti mossi a una serie di misure «antiterroristiche». Prima fra tutte il ricorso a una legislazione che ha tutti i crismi della «eccezionalità», ma che ha finito col ledere alcuni principi da cui uno Stato maturo e civile non dovrebbe mai derogare: la presunzione di innocenza, arizitutto, che certo non si accorda con il prolungamento, per lo meno abnorme, della detenzione preventiva, con l'ampliamento delle conseguenze del fermo di polizia, con la totale incertezza del diritto che si è dimostrata conseguenza inevitabile della legislazione sui cosiddetti «pentiti», già di per sé, del resto, di dubbia legalità (non so se da un punto di vista formale, giuridico; certo da un punto di vista etico). Si è cosi verificato che cittadini imprigionati sotto varie accuse, e in attesa di processo, siano ormai detenuti da quasi quattro anni (e potrebbero risultare del tutto innocenti, o comunque punibili con pene detentive anche assai minori di tale lunghissimo termine di tempo); mentre rei colpevoli di feroci omicidi o di altri gravi atti di illegalità sono stati già da tempo scarcerati. Se quindi il modo con cui lo Stato ha affrontato il drammatico impatto del terrorismo suscita già di per sé seri dubbi, e se ha certo creato talune non secondarie turbative dei diritti del cittadino, di portata assai più vasta sono stati gli effetti esercitati dall'azione terroristica sulla società civile. Già con la strage di piazza Fontana, o con l'attentato all'ltalicus, era evidente il fine, da parte dei terroristi, di scompaginare la società civile italiana, faticosamente impegnata a ricostituirsi - dopo ij fascismo e la guerra - come società ~ democratica fondata sul libero -~ consenso dei cittadini e sulle scelte ~ dell'elettorato. Ma l'estendersi di e:.. atti terroristici, dichiaratamente ~ denotati con etichette e marchi «di ...... sinistra» (Brigate rosse, Nuclei -~ combattenti comunisti, e via di- 5 cendo), finiva col porre in modo "" rinnovato innarizi a un'opinione ~ pubblica, sollecitata per di più da .: una parte della stampa, l'equa- ~ zione comunismo=violenza, co- ~ munisrno=illegalità criminosa. Il !$ . . . ' B belOsmectag In ob ia santemente a frenare (a bloccare) un orientamento - fattosi palese negli anni settanta - dell'elettorato a votare comunista, per un partito, cioè, che poneva se stesso come garante non solo di una migliore gestione della cosa pubblica, ma di un cambiamento nei rapporti tra le classi e di una maggiore giustizia sociale nell'àmbito delle istituzioni di democrazia parlamentare sancite dalla costituzione italiana. A tale orientamento dell'elettorato aveva contribuito in larga misura il possente moto giovanile e operaio che va sotto il nome di «'68», ma che copre un più largo spazio di tempo. Tale moto, infatti, con le sue richieste di eguaglianza, di democrazia «diretta», con le sue critiche alle modalità autoritarie e bur9<=ratichedi gestione dello Stato e di tanta parte delle istituzioni pubbliche, aveva indicato, se non altro, l'esigenza di un rinnovamento profondo dell'intero tessuto della società nazionale, dei rapporti di classe, delle forme di gestione della cosa pubblica. Negli stessi anni era sorto un attivo movimento femminile, volto a modificare sostanzialmente la condizione subalterna della donna nella società italiana - e nella stessa legislazione - e ad affermare nuovi e propri valori, tutti sostanzialmente riconducibili ai diritti della parità, e, più oltre, ai valori della soggettività: femminile, ma, per estensione, del soggetto in genere. Il moto congiunto - giovanile, femminile, operaio - aveva inoltre iniziato una critica radicale alle modalità capitalistiche di controllo e di uso della forza-lavoro individuale e collettiva, toccando alcuni grossi nodi dell'elaborazione marxiana, quali l'organizzazione del lavoro sociale, il rapporto lavoro/ tempo libero, l'ampliamento delle possibilità di scelta nei confronti del lavoro stesso. Un insieme di posizioni, quindi, che - depurate da non certo assenti confusioni e scarti teorici - riprendevano terni e istanze proprie della critica di Marx al «capitale». E ra ovvio che il moto del '68 suscitasse l'opposizione delle sfere conservatrici e reazionarie - per diretti interessi di classe o per «cultura» - della società italiana. Più complesso, invece, il processo di acquisizione e le controspinte da parte del Partito comunista italiano. Qui non mancò certo il dibattito, e anche la contrapposizione, o almeno una accentuazione assai marcata di divergenze, all'interno dello stesso massimo gruppo dirigente. È tuttavia mio fermo giudizio che, sia pure con ritardi e lentezze, il nocciolo di «idee del '68» - e in particolare le posizioni dei movimenti femminili - sia stato, in una certa misura, recepito; dando inizio a un faticoso e lento processo di sviluppo e rinnovamento interno di questo partito che è tuttora in corso, ed è ulteriormente sancito dalla recente piattaforma per il vicino congresso. Sigrùficativo fu a questo proposito il voto giovanile del '76; come significativa la scelta di iscrizione al Pci di una parte non secondaria dei partecipanti attivi al '68, non esclusi alcuni quadri di rilievo. Una scelta, elettorale e di rnilitanCQ za, motivata dalla realtà, oggettiva e soggettiva, della posizione di classe di questo partito. Non mancò tuttavia, tra i partecipanti al '68 e tra le nuove leve giovanili, chi ebbe a ritenere come sostanzialmente opportunistica e «socialdemocratica» (in senso deteriore) la linea politica e l'azione stessa del Pci. Come già altre volte è avvenuto nella storia del movimento operaio e socialista - ed è cosa che non dovrebbe né stupire né scandalizzare ogni comunista al corrente di tale storia - la punta dell'attacco di coloro che partecipavano di tale posizione finì per essere rivolta, in prima istanza, più verso il Pci che verso i partiti e gli organismi che, più o meno direttamente, esprimevano un tutt'altro rapporto con i centri del potere capitalistico in Italia. E qui, probabilmente,. vi sono aspetti di incertezza e anche errori nelle forme di reazione di questo partito (che è quello - per chiarezza - in cui l'autore di questo articolo militava allora da tempo e tuttora milita). Un comportamento sul quale - ritengo - il terrorismo ha avuto decisiva influenza. Sono infatti da tener presenti la tradizione storica riassumibile, per brevità, in un rimando alle tesi esposte da Lenin in L'estremismo, malattia infantile del comunismo; come pure talune dirette e recenti esperienze di «estremismo» nel corso della Resistenza e immediatamente dopo, contro cui il Partito comunista, nella propria difficile opera di autoricostruzione dopo un trentennio di clandestinità e di messa al bando, aveva assunto - a mio parere - giuste posizioni di critica radicale e di rigetto. Ma questa tradizione non è tutto: garante di fronte a se stesso, di fronte ai cittadini italiani, e persino di fronte a uno schieramento internazionale, della propria ferma adesione ai metodi democratico-parlamentari di lotta politica, il Pci non poteva - lo si è già accennato - non reagire con estrema fermezza a una immagine di «comunismo»violento sino all'omicidio, «al di fuori e contro lo Stato», che la violenza armata dei gruppi e dei singoli terroristi andava proiettando. Un atteggiamento che personalmente considero del tutto giustificato e corretto sia sul piano «difensivo» che su quello offensivo. e he ciò abbia reso il Pci meno sensibile a talune istanze di quanto è stato chiamato - per svalutarlo e isolarlo - «garantismo», e che era ed è invece giusta preoccupazione per i diritti del cittadino nei confronti dello Stato, mi sembra indubbio, malgrado talune prese di posizione in controtendenza, quale, per citarne una, quella assunta sulla proroga delle misure di polizia. Si tratta tuttavia di una scelta che non lascia per nulla presupporre - una volta eliminato o ridotto ai margini ogni fenomeno terroristico - debba es- .sere ribadita. ' Più complessi sono invece gli interrogativi che nascono dalla necessità di sapere attentamente discernere e discriminare tra terrorismo e ipotesi - anche teoriche - di modalità e forme della lotta politica e di classe. Che il Pci non si riconosca - poniamo - nelle tesi di Toni Negri o, più in generale, dell'area che si è definita dell'«autonomia operaia», è del tutto corrispondente alla propria linea e ai propri postulati. Suscita perplessità e dubbi - anche in un militante - la sua adesione alla ipotesi criminalizzante tutto un movimento di opposizione - e soprattutto alla tesi (e alla pratica poliziesca e giudiziaria) che finisce tout court per identificare «autonomia» e terrorismo. Una tesi che, malgrado gli sforzi (quanto autodifensivi?) dei vari «pentiti» e quelli di taluni magistrati inquirenti, va dimostrandosi sempre più labile. L'accettazione di questa tesi ha certo arrecato un prezzo non indifferente al Pci. Ha probabilmente contribuito a bloccare parte del voto giovanile nei suoi confronti - e comunque indebolito gravemente la sua influenza diretta e la sua presa sui giovani. Ha contribuito a rendere più difficile l'impedire la vergognosa «dietrologia» animata da conservatori e reazionari per incriminare il '68 come tale. Ha infine creato uno iato politico e culturale con tutta una esperienza politica, e un personale politico, criticabile quanto si voglia, ma espressione di spinte reali della soèietà italiana (e forse più generali: si vedano i «verdi» della Repubblica federale tedesca). Mentre le «nebbie del 7 aprile» sono comunque - malgrado i rinvii processuali - sul punto di sciogliersi (e in parte già si sono sciolte: nqn dimentichiamo, ad esempio, il crollo dell'accusa a Toni Negri di avere «direttamente» partecipato all'assassuuo dell'onorevole Moro); mentre cioè un minimo di chiarezza differenziatrice si va costituendo, anche in un'opinione pubblica non certo aiutata a capire dalla stampa e dai media, è probabilmente tempo che una più ampia discussionecritica sul «7 aprile» e sulle sue conseguenze politiche e socialisi apra tra i comunisti italiani. Se l'alternativa democratica di cui parla il documento congressuale «comporta una mobilitazione di forze sociali e di movimenti, uno spostamento di correnti culturali e di consensi, scelte politiche e programmatiche che mirino fin da oggi a modifiche sostanziali dell'economia, della società, dello Stato», se la prospettiva del socialismo, lungi dall'essere rinnegata e attenuata, costituisce parte essenziale di tale documento, occorre riflettere ulteriormente sull'intreccio obiettivo di nessi che è un dato ineludibile - da una parte come dall'altra - tra queste opzioni e scelte di cambiamento, nel quadro di una tattica e di una strategia specifiche, e le spinte e sollecitazioni che, a suo modo, molti aspetti di «autonomia operaia» accoglievano; né certo si sono spente all'interno della società nazionale. Si può forse aggiungere che tale nuova discussione risponderebbe a una fase estremamente delicata di ripensamento e di obiettive prese di posizione (si veda il documento dal carcere di Rebibbia) dei detenuti per gli arresti del 7 aprile e per quelli successivamente operati nello stesso quadro. Una fase delicata, da non risolversi certo con strizzatine d'occhio e tatticismi, come è costume di altre forze politiche, ma con un approfondimento critico, analitico, se si vuole «storico», di quanto abbiano significato e significhino nella dinamica politica (e in quella stessa culturale, dell'opinione) la generalizzazione dell'etichetta di «terrorismo» e i conseguenti comportamenti delle istituzioni statali. Direi di più: si può nutrire il massimo di fiducia nella magistratura; ma il «giudizio» di un partito rivoluzionario è altra cosa, in linea di principio, e persino - mi si consenta di affermarlo - in linea di etica politica, se questa esiste.
RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==