Alfabeta - anno IV - n. 40 - settembre 1982

«Acentrato» è bello ' stato osservato, ed è vero, che a E parlare di etica e di giustizia nell'ambito della nostra cultura europea continentale si può rischiare il ridicolo. CYedo che questo segni un grave limite della nostra cultura, ma non mi soffermerò qui sulle ragioni di tale situazione (suppongo che vi abbia una parte importante la tradizione del machiavellismo e cosi pure Hegel e Marx col loro disprezzo del moralismo, poi tradottosi di fallo in un disinteresse per l'etica. Ma è probabile che a queste ragioni si accompagni anche l'eredità di un certo modello di spiegazione: quello per cui si ritiene spiegata un'azione umana, individuale o sociale, quando se ne siano dati gli antecedenti fattuali, politici, economici, sociologici, e si sia individuata qualche regolarità nomologica, senza considerare le valutazioni dell'agente e in particolare quello che egli riteneva opportuno, razionale o giusto in quelle circostanze) 1. Ma si osservi che la rinuncia a costruire una teoria della giustizia, e cioè a mettere ordine nei nostri giudizi intuitivi su che cosa sia giusto e ingiusto in circostanze specifiche, a renderli coerenti e sufficientemente generali. questa rinuncia equivale a privare per certi versi la nostra azione pratica di una guida - a meno che non si ritenga che l'azione non sia affatto guidata dai giudizi in materia di giustizia, bensi da giudizi d'altro tipo (di interesse ad es.) o non sia guidata affatto dai giudizi. Questa ipotesi è quasi certamente falsa, tuttavia: molte contese tra due parti vengono risolte mediante l'arbitrato di una terza (ad esempio l'opinionl' pubblica) la quale, non avendo nul!.1 né da perdere né da guadagnare, può intervenire sostanzialmente solo sulla base di considerazioni di giustizia In alcuni filosofi invece, che sono in parte responsabili di questo disinteresse se non ostilità per l'etica, c'è l'idea che ogni morale sia comunque illusoria, che dietro ad essa si nasconda invariabilmente un interesse di parte (fosse anche solo l'istinto del gregge dei più deboli) e che perciò i nostri giudizi morali siano tutti o sbagliati o irrilevanti. Spesso gli argomenti di questo tipo sono fallaci: commellono lo stesso errore di quei genitori che al saggio di fine d'anno della scuola di musica del loro figliolo, si dicono tulli soddisfatti: «Senti? Sono tulli fuori tempo tranne il noSlro Giovannino!•. (Ma è possibile che ci sbagliamo tutti, chiamando ad esempio cmare• quella cosa che cin realtà• si chiamerebbe altrimenti?) Non credo quindi che ci siano delle buone ragioni per evitare di parlare di giustizia e di etica in sede teorica. Bisognerebbe dare invece delle ragioni per non parlarne. Ma perché dovrebbe occuparsene - e sembra che cominci a farlo-il politico? Anche qui, direi che è retorica la domanda di Carlo Rosselli: e Ma è possibile qualificare una politica come razionale, se non si tiene conto in primissimo luogo dell'idea di giustizia?», direi che esprime semplicemente una verità autoevidente, se non rappresentasse invece una tendenza che è del tulio anomala nella nostra cultura, la quale ha sempre insistito su una netta distinzione tra etica e politica. Credo che questa netta distinzione semplicemente oggi non si dia: sempre più spesso non solo il comportamento (che funzionano quindi come loro potenziali falsificatori). Ad esempio, se si pretendesse di giustificare sulla base di qualche variante della teoria marxista uaa possibile invasione sovietica della Polonia, credo che oggi l'evidente ingiusrizia di questo potrebbe giustificare per molti il rifiuto della teoria. (E invece in qualche modo l'ingiustizia dei processi staliniani non fu111innòcome un fal,ificature Odia tcona. ~e non per poch1. Credo che sia più semplice cercare una spiegazione di questo e prendere come normale la situazione odierna - possibilità di rifiutare una politica sulla base di considerazioni di giustizia - piullosto che l'inverso. Ma naturalmente dipende da quali categorie concelluali si impiegano.) Tradizionalmente, prendere sul serio i nostri giudizi intuitivi, o preteorici o, che è lo stesso, i giudizi «dell'uomo della strada» e allribuire ad essi un potere di controllo sulle nostre ipotesi teoriche. anche quelle più esoteriche, è stata prerogativa di culture diverse dalla nostra, ad esempio di quella anglosassone la quale forse proprio per questo ha sempre tenuto in gran conto la teoria della giustizia. In quel contesto una talè teoria; intesa come una rielaborazione dei nostri giudizi etici intuitivi, che è acce11abile solo se ,i trova con questi in un ragionevok equilibrio, può facilmente diventar,· uno strumento di critica della politica. tanto corrosivo quanto lo è il buon senso. Dello tulio ciò, non mi porrò affatto la domanda: «Quali sono le ragioni profonde o come anche si usa dire, eh<.' cosa c'è dietro questa discussione sui temi della libertà e della giustizia e la ripresa del contrattualismo o dell'utilitarismo?» Un'eccessiva curiosità per quello che cc'è dietro• i giudizi morali sembra che abbia reso un'intera tradìzione cieca nei confronti dei titoli di ·validità di quei giudizi. Ci si è chiesto spesso quali fossero le ragioni, «profonde• e «nascoste•, di qualcosa, ma raramente chi avesse ragione e perché. dei partiti politici su questioni se11oria- M i chiedo dunque: «Tra le vark li, ma intere teorie politiche nella loro teorie della giustizia oggi diglobalità vengono messe a confronto sponibili, qual è la migliore?». con giudizi singolari di giustizia e pos- Di fallo in Italia ne sono state discuss,· sono venir rifiutate sulla base di guesti recentemente solo due: l'utilitarismo '1 b1a 1 ..., Marco Sanrambrogio di Bentham e Stuart Mili, che continua a fornire un quadro conce11uale a molte discussioni sull'etica nella cultura anglosassone, e che Giorello e Mondadori hanno ora riproposto qui come «un proge110 promettente»; e il con1ra11ualismo, a cui nell'ultimo decennio le difficoltà dell'utilitarismo hanno dato nuovo interesse, e che nella versione di Rawls è noto da noi per merito di Yeca'. Cercherò di ,pie~are perché li :-.ccrnu.hm, , :,.cmhra 111:1tan11:n1c '-IUperiore al primo. Molto brevemente, l'idea centrale dell'utilitarismo è che una società è bene ordinata ed è quindi giusta se è tale da produrre la massima somma possibile (o, in una versione leggermente diversa, la più alta media possibile) di felicità o di soddisfazione in tutti gli individui che la compongono. Una teoria matematica relativamente recente si è incaricata di mostrare che ha senso parlare di una misurazione della soddisfazione o dell'utilità che un bene ha per un individuo, e anche- ma questo solleva problemi più delicati su cui non mi soffermo- di una somma o di una media dei valori di utilità tra individui diversi. È assolutamente indubbio che que- ,ta idea a prima vi,ta è naturale l' plausibile: ciascuno di noi nel realizzare i propri interessi può bilanciare le perdite con i guadagni e imporsi dei sacrifici per ottenere dei vantaggi futuri, o anche solo la speranza di un vantaggio, purché complessivamente il bilancio sia positivo. Un tale comportamento è del tulio razionale per un individuo: perché non dovrebbe agire nello stesso modo anche la società presa come un tulloryCome il hencssere cli una rcrsona :-.cmbra l.'.O:-.lllUlhl dalla ..,UCl'C~:-.lllllC delle soddisfazioni sperimentate nei diversi momenti, nel corso della sua vita, così il benessere di una società sembra costituito dall'adempimento dei desideri dei molti individui che le appartengono. Ma naturalmente nei duecentocinquant'anni circa trascorsi dalla prima apparizione in Hutcheson del principio di utilità, sono emerse molte obiezioni ormai classiche a questa concezione. È chiaro tullavia che queste non devono aver convinto chi ripropone oggi, in una versione leggermente riveduta, l'utilitarismo o il neo-utilitarismo. Le teorie non vengono tullavia proposte e valutate nel vuoto: esistono circostanze di contorno mutevoli che fanno sì che quello che prima era considerato un pregio della teoria si trasformi in un difetto e viceversa. Ho accennato più sopra alla possibilità che una teoria politica acquisti col tempo nuovi falsificatori; voglio accennare ora a un altro esempio dello stesso tipo di fenomeno. Sia ai fondatori dell'utilitarismo, sia ai sostenitori anglosassoni del neoutilitarismo tulla la problematica riguardante le nozioni di centrato eacenrraro è completamente estranea. Ma per qualche ragione oggi Ira noi è invalsa l"opinione, che non discuterò, che i si- ,1emi acentrati siano migliori cli quelli centrati: sicuramente lo pensano ad <.'SCmpioGiorello e Mondadori i quali, nel riproporre alla nostra attenzione l"utilitarismo, hanno considerato in un loro scritto recente 3 , di tutte le accuse possibili, solo quella che fa carico all'utilitarismo di implicare una strullura centrata della società e hanno cercato di rovesciarla, mostrando che al contrario esso sarebbe compatibile solo con una strullura acentrata. Per diver- ,c ragioni i loro argomenti non mi hanno convinto. I n primo luogo, è dello stesso John Harsanyi (uno degli esponenti più autorevoli del neoutilitarismo) un'osservazione che mi pare pertinente al nostro problema. Dopo aver mostrato che è possibile costruire una funzione di utilità colle11iva o etica, che dà luogo a un metodo di scelta per l'intera società (nel senso in cui Arrow ad esempio ha impiegato il termine), sotto le ipotesi che le preferenze degli, individui si possano misurare e paragonare tra loro, Harsanyi commenta: • Di fatto, anche se le implicazioni del teorema [che dimostra appunto l'esistenza cliquesto metodo giusto di scelta] sono importanti, esse hanno una portata piullosto limitata. Ciò che il teorema ... dimostra in primo luogo è che la massimizzazione di una funzione utilitarista di benessere sociale è un'ottima regola di decisione per le decisioni morali personali. Indubbiamente è una regola altre11anto buona rer alcuni processi decisionali sociali ma solo per quelli che strutturalmente ,ono adatti all'uso della massimizzazione di una funzione matematica come criterio di decisione - e questo ,ignifica essenzialmente decisioni sociali delegate a un solo funzionario amministrativo (o forse a un piccolo gruppo di funzionari) ...••. Se il •piccolo gruppo di funzionari» fa pensare all'Ufficio Centrale del Piano, il funzionario unico ricorda il Grande Fratello. Naturalmente Harsanyi non raccomanda affallo questo non lieve accentramento dei poteri' - decisionali, ma - e questo è il punto - le sue ragioni non stanno in una presunta incompatibilità tra utilitarismo e centralismo, bensì nella previsione che una simile strullura sarebbe con ogni probabilità inefficiellle. Ora, è vero che per l'utilitarista l'efficienza e l'inefficienza non sono criteri puramente «esterni• per scegliere o non scegliere qualcosa: l'inefficienza, gli sprechi e il malessere che potrebbero conseguire dalla centralizzazione sono intrinsecamente contrastanti col principio di utilità. È tuttavia un po''' seccante essere salvati dal centralismo unicamente dall'inefficienza. (Personalmente,. ho sempre trovato poco conforto nell'idea che solo la grande inefficienza degli Italiani ha risparmiato all'Italia le atrocità che il fascismo ha prodo110 in Germania). È d'altra parte un'obiezione classica all'utilitarismo quella di essere perfettamente compatibile con un'autocrazia illuminata (purché efficiente)•. A questo si può naturalmente rispondere che una soluzione teorica al,, problema della giustizia sociale non necessariamente deve essere anche una soluzione pratica e tradursi in precisi suggerimenti sul tipo di organizzazione sociale che è ottimale in circostanze date. Questo tuttavia è un argomento debole: naturalmente è già un buon risultato quello che dimostra che esiste un concetto obiettivo di giustizia, che esiste uno stato della società che è più giusto di ogni altro, anche se non sappiamo come produrlo e anche se non sapremmo riconoscerlo quando di fatto si verificasse; ma è un risultato • insufficiente. Quello che vorremmo è un concello di giustizia sociale che contenga delle indicazioni o dei criteri per riconoscere quando uno stato sociale è più giusto di un altro. Tornerò più oltre su questo punto. Una ragione di principio dell'incompatibilità tra utilitarismo e centralismo si troverebbe invece, secondo Giorello e Mondadori, nell'insolubilità del problema dei rapporti di co11versio11e. Si traila brevemente di questo.

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