Alfabeta - anno IV - n. 36 - maggio 1982

Yourcenar, la Y,cediAdriano Marguerite Yourcenar Memorie di Adriano Torino, Einaudi, 1981 pp. 317, lire 12.000 Care memorie Torino, Einaudi, 1981 pp. 298, lire 14.000 Les yeux ouverts Paris, Le Centurion, I980 <Non sono nata per l'inquietudine. Per il dolore, piuttosto, per l'infinito dolore della perdila... » Cf è un modo deUacreazione letteraria che accade in grazia della abnegazione. È quando lo scrittore si lascia - come dice la Yourcenar - <impregnare completamente• dal suo soggetto: finché esso «esce dalla terra, come una pianta accuratamente innaffiata». Dimentico di sé, cosi lo scrittore - nel silenzio dell'io a cui s'è pazientemente, con esercizio, portato -si fa luogo vuoto in cui un altro corpo prende vita. Dal centro di questo silenzio, come di una casa svuotata, si leva una voce. «È la voce di Adriano che cerco ... Se ho voluto scrivere queste memorie di Adriano in prima persona è per fare a meno il più possibile di qualsiasi intermediario compreso me stessa•. Operazione «quasi negromantica», o di «magia simpatica», «che consiste nel trasferirsi con il pensiero nell'interiorità di un altro•, la Yourcenar chiamerà questo suo «fare il vuoto di sé per considerare solamente l'oggetto», un «metodo di delirio», o una capacità di evocare fantasmi: «da tutto ciò ecco venir fuori il fantasma». Da questo annullamento di sé deriva la difficoltà di trovare la voce di Marguerite Yourcenar, per me che, presa nel suo gioco, vorrei proprio la sua voce afferrare. Perché la voce - come la immagino - è materia che un corpo sostiene; emissione che riporta ad un corpo, il quale appunto parlando si svela - nel senso almeno che lascia una apertura di sé mostrarsi. Ma la Y. contraddice tutto questo; impedisce che si trovi la sua voce, e non solo nei romanzi. Anche nella lunga intervista a Matthieu Galey, neppure lì la sua voce dialogante mi offre il dono dell'intimità. C'è un pensiero certamente Il che si svela. La Y. non è reticente. Se non v'è intimità - questo lo si avverte - non è per riservatezza. Non c'è niente che la Y. nasconda. E tuttavia c'è molto che non dice. Tra il riserbo e l'apertura-in quel tratto che unisce e disgiunge al tempo stesso la parola (la radura che illumina), e il silenzio (il riserbo, l'oscurità) che pure essa non toglie - Il forse dobbiamo collocarci per ascoltare la sua voce -o meglio, per cogliere il suo stile. Se lo stile è questione di tono, e di timbro della voce - quando non è la ..., voce stessa; la pacatezza, la pazienza, sono i ritmi secondo cui la Y. modula i grandi temi verbali della sua esistenza. La sua voce ha la lontananza e il mistero di una voce fuori campo; il suo stile è, come nel caso di Adriano, «quasi impersonale• - il che significa che prendendo l'andatura capitonné, o impuntita della scrittura, punto su punto la Y. intesse un arazzo che al centro, in abisso, non porta lo sguardo sull'io, ma sulla figura che gli innumerevoli fili tessono. E la figura che cosi si rileva non è mai «biografica»; nell'arazzo v'è piunosto un exemplum, che non vale in sé, ma come illustrazione - tratto in cui, nel particolare, si illumina l'anonimo ordito di trame di cui si compone la storia del mondo. Figura, arazzo, illustrazione, sono parole che accuratamente scelgo per restituire la qualità antica del narrare della Y. L'antico è uno dei toni propri della sua voce; antico il sentimento secondo cui la sua parola dispone della vita che accade; antica quella pietas che appare in Carememorie (o meglio, Souvenirs Pieux), e in Adriano. Antica la disposizione che ella prende di fronte all'evento. Messo di fronte all'evento l'uomo «moderno• conosce la reazione che ordina ciò che accade in base ad una comprensione dei motivi - ovvero delle cause e degli effetti. L'evento egli lo spiega entro la rete di queste rispondenze. Non è cosi per la Y. - e per questo la definisco «antica•. La Y., di fronte all'evento, semplicemente lo attende: ha cura del suo dispiegarsi. La modalità propria della Y. non è quella della risposta: alla vita che accade non si può - per lei - dar risposta. Rispondere è il modo di una comprensione che chiude il tragitto che ha portato la cosa a manifestarsi, mentre: «lo non chiudo mai niente, neppure la porta di casa», dice la Y. Più che un tragitto la Y. vede una «parabola», o «un'iperbole fiammeggiante•; la cui traiettoria è significativa, nel senso in cui dei propri famigliari ella dice: «La traiettoria delle loro vite mi ha insegnato qualcosa». L a parabola disegnata dall'evento vale dunque perché porta allo scoperto, «illumina», una domanda: lasciando aperta l'infinità di quella interrogazione, la Y. semplicemente - ma è una semplicità che ha la qualità di un esercizio spirituale - apre a quella domanda uno spazio nella propria esistenza. Anche quando quella domanda propriamente non le appartenga, nel senso che non sia lei ad averla iniziata, ella la salvaguarda e la raccoglie: perché «ogni creatura che ha vissuto l'avventura umana sono io•. In questo, la Y. ama l'avventura: ciò che ad - viene, la Y. lo colloca nella propria esistenza attraverso l'allenzione - in quanto ne constata la venuta. Ciò che viene a noi, pare dire la Y., ci è destinato. «Ho l'impressione di aver giocato al mio meglio il ruolo che il caso, o il destino, o il Karma, o Dio avevano scelto di affidarmi. Anche se direi che la vita non mi pare avere un disegno (o un progetto) definito•. L'attenzione e l'ascolto alla trama dell'ad-venire sono le modalità attraverso cui, per la Y. si dà comprendere. Comprendere è raddoppiare: «Ogni viaggio, ogni avventura (nel senso vero della parola: ciò che viene) si raddoppia di una esperienza interiore». Rispondere è dunque fare eco: lasciare che la voce si raddoppi, e il corpo dell'uomo sia semplicemente «cassa di risonanza». L'organismo vivente si fa allora «apparecchio che la vita attraversa•. on v'è tra il vivente e la vita antagonismo. Della vita non si può essere protagonisti: solo medium. «Ho l'impressione di essere uno strumento attraverso il quale delle correnti, delle vibrazioni sono passate. E questo vale per tutti i miei libri, direi per la mia vita stessa». Fra libro e vita non v'è per la viaggiatrice, l'avventuro~a Yourcenar, distanza. cl miei libri sono stati una serie di cammini paralleli ai miei cammini veri e propri. Si ha la tendenza a domandare consiglio a chi si incontra per strada, a informarsi da dove uno viene e crede di andare•. Consiglio è un'altra parola dal sapore antico che torna. Torna con essa come un orientamento pratico che cuce nel racconto vita e parola, e fa della parola la portatrice più propria del senso della vita. È perché vuole che la propria parola attinga all'esperienza che la Y. fa della storia il deposito da cui trarre quell'esperienza che poi tramanda in racconto, e affida come luogo di esperienza, e di consiglio, a chi la voglia ascoltare. Per questo le sue storie si collocano in rapporto alla Storia: e il documento diviene l'elemento musale del suonarrare. È perché la riporta al suo peso di vita che qualcuno ha vissuto che la parola della Y. è parola umana: parola appunto pesante della carne della creatura che l'ha proferita. È questo peso di vita che conferisce autorità al racconto: ne fa l'exemplum che ritaglia un luogo suo proprio nel corso del tempo. Se la vita è avventura, è anche viaggio ed esperienza; chi la vive dunque porta con sè la virtualità del consiglio. La parola di chi ha fatto della vita un viaggio, o nella vita ha compiuto il suo viaggio, è fonte di saggezza: essa risulta da una prova affrontata, e comporta per chi l'ascolta un insegnamento. L'avventuroso, il viaggiatore, è «maestro di vita»; avendola la vita conosciuta per averla viaggiata, a chi gli domandi egli avrà non una risposta da dare, ma un consiglio-cioè una dilatazione di esperienza, e potrà suggerire un orientamento pratico, una conoscenza, la cui misura è l'esperienza, e la prova. Non a caso è del moribondo Adriano la voce che racconta la storia della vita del grande imperatore. Adriano moribondo è colui che è giunto alla fine del viaggio della vita: egli sa, dunque - ha consiglio. Conosce un sapere che la vita ha forgiato; è saggezza la sua, non ragione, ma passione. Avendo patito la vita, ora in prossimità di quella vertigine assoluta che è la morte, egli porta nel proprio sguardo la lontananza che sola è garanzia di saggezza. Libero dall'egoismo delle immagini, Adriano morente è il narratore assoluto: sciolto dal profondo disorientamento che accompagna il vivente mentre vive, Adriano parla una parola autentica, disinteressata. La parola non del particolare, ma dell'assoluto: parola significativa, che apre sulle «fragili e complesse strutture che posano come palafitte sopra l'abisso»; ognuna delle quali è di assoluta importanza («immensa per chi l'ha vissuta•) perché «unica». «Ciò che rimane a galla è l'infinita pietà per la nostra pochezza». Gli eventi si ordinano al suo sguardo, che è sguardo della fine, non secondo nessi psicologici - trame illusorie del testo che il vivente intesse per comprendere l'incomprensibile accadere che la vita gli consegna, e di fronte al quale egli non può che mettere come misura il proprio io, e fare della vita una biografia; ma, rinunciando al chiaroscuro psicologico, Adriano racconta la sua vita semplicemente dispiegandola. Non la interpreta: la offre. Come di fronte a un paesaggio - «il paesaggio dei miei giorni sembra comporsi, come le regioni di montagna di materiali diversi messi insieme alla rinfusa»; il lettore rimarrà libero di interpretare come vuole. Ll sono i fili delle trame; incompiuti - perché la morte non compie, ma semplicemente tronca - questi orditi non compongono UR testo: se non nel senso che un tessuto di continuità è dato dal continuo della voce che narra, fino a cullare l'ascoltatore (o il lettore) in una sorta di dormiveglia. Se Adriano è il moribondo, e l'atto del narrare si configura come il frattempo dell'attesa della morte; il lettore non può che essere colui che veglia. Il racconto si fa cosi winter's tale, favola che intorno al camino recita la vecchietta; e la veglia il luogo proprio del racconto, in quanto pausa, intrattenimento che trattiene la morte sulla soglia - e alla vita e alla morte sottrae un tempo che il Tempo non può contare, né fare suo. 11racconto di Adriano- «questo studio sul destino di un uomo», che «nel seicento sarebbe stato una tragedia; all'epoca del Rinascimento, un saggio» - non potrebbe mai, potremmo aggiungere, essere un romanzo. E il suo non poter essere un romanzo è legato in profondità a tutto ciò che sono venuta dicendo: un'altra prova ,-~~~ -~ N~,:.~~ . . , ' (!;}~·... ancora, per me, della qualità antica della narrazione della Y. li romanzo è difatti il racconto non «del moribondo», ma «del sopravvissuto» -e ne fa fede in modo esemplare quell'archetipo romanzesco che è Robinson. È trama che mostra una energia vitale volta all'impiego della vita stessa; la cui figura centrale, ricorda Lukllcs, è la biografia. Esso si nutre non di ricordi, ma di azioni, e in modo radicalmente diverso in esso la vita profila il suo disegno. Nel racconto di Adriano tutto ciò che affiora è per definizione «indimenticabile». Assoluto. Decisivo. Simbolico. Tutto di fronte alla voragine che sta per aprirsi-quel buio in cui Adriano sta per cadere - diventa significativo. Ma non di un senso che sia l'uomo vivo a garantire: quanto la sua morte. Il senso invece che l'uomo vivo può dare alla vita è la costruzione precaria del profilo psicologico. Senso è, per il vivente, tutto ciò che ha le cadenze della Bildung. Ha senso cioè il costruttivo; il progresso, più o meno lineare, tuttavia progressivo, di una trama di incidenti volti a formare la persona. È il romanzo che narra questa trama; che offre alla vita questa forma. In esso significato e vita si disgiungono, proprio sul crinale di quella fallacia che fonda il romanzo come quel genere che della ricerca del senso fa il suo problema. Ma se il senso il personaggio lo cerca è perché l'ha perduto: esso non si dà più per lui nell'esperienza. In questo il romanzo è il genere del moderno: che pensa il significato non come inerente alla vita stessa. L'india/fabeta n. 36 maggio 1982 pagina 27

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