Relazionedi EnzoMano, pèr il Comitato di Redazione del Corriere della Sera. D opo le «minacce>di Citaticontro i sesquipedali interventi in convegni e in congressi, in nome della tacitianaconcisione e chiarezza, e dopo l'esempio di Leonardo Sciascia che in Parlamento vaa leggerenon più di due, tre capoversi micidiali, che fanno giustizia delle centinaia di cartelle allestite dagli uffici studi degli altri partiti, è diventato pericoloso dilungarsi troppo. li Comitato di Redazione, in questo convegno da noi organizzato, è favorito, perché il nostro contributo può dirsi esaurito con la convocazione stessa del dibattito e con la promozione dello sforzo di tutta la redazione per /'elaborazione dei materiali stampati. Non abbiamo quindi dei messaggi politici particolari da lanciare, semmai ci sono delle spiegazioni che abbiamo dato qui all'inizio con l'intervento letto da Andriolo e daremo in conclusione del dibattito. Osservazioni che confermano l'unità del Comitatodi Redazione su un documento che un anno fa pubblicammo sul Corriere e di cui questo convegno non è che il logico proseguimento. Le ricerche della lndex e delle redazioni del Corriere, secondo noi, hanno aggiunto molti dati alle nostre tesi. Non ci resta che riassumerle. Prima di tutto, gli editori. La crisi delle imprese editoriali si è tradotta ormai da tempo in una grave crisi dell'informazione. I problemi strutturali che hanno condotto progressivamente a questa situazione hanno origine nelle imprevidenze e nelle manovre dei due trascorsi decenni, e oggi ce li troviamo ancora davanti: irrisolti, magari aggravati, anzi molto incattiviti, ma in forme diverse. La tentazione di imboccare, in modo occulto o palese, con rozza determinazione o con più sofisticati artifici, la via di una editoria assistita, pigra produttrice di iniziative solo apparentemente ardite, ma nella reallà «garantite>, è assai forte e combacia con le vedute di un potere pavido, incapace di comprendere che una editoria gracile e priva di autonomia aggrava la crisi stessa del Paese e indebolisce il tessuto della nostra democrazia. Gli editori, invece di seguire una politica di sana e corretta gestione delle imprese, salvaguardando tutte le componenti dell'informazione, sono solo attenti ai bilanci delle loro imprese e non si accorgono di provocare il crollo del bilancio informativo dei lettori e professionale dei giornalisti. Noi del Corriere della Sera, in quanto redanori de/l'organo di informazione di gran lunga più diffuso in Italia, avvertiamo d'essere i più esposti alla crisi, ma abbiamo anche il vantaggio di poterci richiamare ad una tradizione di autorevolezza che tutti riconoscono degna di essere continuata. E del tutto ovvio che l'inadeguatezza dei giornali, e del nostro, rispetto al loro compito essenziale (che resta pur sempre quello di descrivere la realtà) è una conseguenza della crisi editoriale, ed è altrettanto ovvio che questa si intreccia con la crisi del potere, la aggrava, e a sua volta ne è aggravata. Le proposte degli editori non sempre sono dettate dalla consapevolezza di ciò che è veramente in gioco: si introducono o si progettano rinnovamenti tecnologici senza valutarne le possibili conseguenze per la qualità del prodotto o, peggio, si medita di utilizzare le tecnologie per ridurre l'autonomia professionale dei giornalisti, si oscilla tra l'ambizione della libertà d'impresa e la tendenza a considerare la stessa legge di riforma non uno strumento eccezionale di intervento pubblico teso a riequilibrare le aziende, ma uno strumento permanente di sostegno e quindi di commistione col medesima categoria i servizi di inviati in occasione quali convegni, mostre, manifestazioni culturali, celebrazioni, fiere ed esposizioni. Non si tratta certo di una categoria omogenea, ma è ugualmente indicativa del vincolo posto al lavoro degli inviati da occasioni predeterminate. È appena il caso di aggiungereche l'interessegeneraledi queste occasioni è diseguale, come peraltro risulta in modo dettagliato dall'analisi tematica. È interessante notare che nell'insieme delle testate si è passati dai 138 pezzi del settembre '76 ai 176 del settembre '79: la tendenza all'aumento si osserva in quasi tutte le testate e supera notevolmente la curva degli inviati nel loro complesso. Nel '76 era la Stampa ad ospitare il maggior numero di pezzi di questo tipo, seguita dal Corriere. Nel '79 il potere politico. Così abbiamo visto i giornali stare zitti o addirittura sollecitare decreti legge sulla complessa riforma dell'editoria, e mettere da parte con brutalità la linea che - forse per conformismo, forse per impegno civile - avevano adottato nei mesi precedenti deprecando un illegittimo uso della decretazione, sulla scia delle proteste sia di lngrao sia di !yilde lotti sia dello stesso Andreotti. È questo dunque il tempo della riflessione e della denuncia. I giornalisti devono esprimere la propria volontà di non essere spettatori di traffici e manovre, dove è illusorio distinguere tra editori buoni e cattivi, specialmente quando ipresunti buoni e ipretesi cattivi non esiterebbero, se non incontrassero opposizioni, a saldare i loro interessi per cercare scorciatoie politiche e finanziarie di fronte alla crisi. Due esempi: il recente, e non sappiamo se è fallito del tutto, tentativo di concentrazione editoriale tra Rizzo/i, Caracciolo, e Mondadori, ela disinvoltura con cui un presunto editore «buono» utilizza in modo distorto sia le nuove tecnologie sia il lavoro nero. Unanno fa scrivemmo che era nostra intenzione di «contrastare con tutte le forze operazioni che dovessero avere solo natura politico-finanziaria». «Si ha -aggiungemmo -la sensazione che nel nostro gruppo nuove iniziative editoriali sorgano al solo scopo di giustificarefinanziamenti o di pagare cambiali politiche. che esse nascano con la riserva mentale di sottrarre copie ad una testataper darle a un'altra, senza cercare nuovi lettori». Un anno dopo confermiamo questi giudizi e in più non possiamo non constatare che forse dopo le esperienze dell'Eco di Padova, dell'Europeo e dopo la formazione di inestricabili giungle normative e retributive un ancor maggiore rigore del sindacato sarebbe stato più utile. Né qui ci inoltriamo nel mistero del- /' assetto proprietario della Rizzo/i, che proprio perché è un mistero richiederebbe per dissiparlo o investigatori o conoscitori delle manovre finanziarie europee. Non siamo né gli uni né gli altri. Riteniamo però che la chiarezza sull'assetto proprietario sia un'esigenza non solo nostra, di noi giornalisti che lavoriamo in questo gruppo, ma di tutta la comunità nazionale. Ma la trasparenza della proprietà sia realmente tale e non si costruiscano invece normative facilmente raggirabilio in ogni caso che non risolvono il problema. Credo che tutti possano riconoscere legiuima la richiesta dei giornalisti di conoscere sotto quale bandiera scrivono. Nel momento in cui sembrano raf forzarsi le gestioni veramente managerialidobbiamo stare attentiallapossibile insorgenza di un'ideologia manageriale che potrebbe risultare alla lunga micidiale per il lavoro giornalistico. Il materiale su cui lavora il giornalista è o può essere pericolosissimo. La libertà di stampa è madre efiglia di tutte le altre libertà. L'informazione è il primo stadio della conoscenza. L'impresa editoriale non può essere né lo potrà diventare mai un'impresa esclusivamente industriale. La produttività stessa del giornale non potrà esseremai misurata col numero delle copie vendute. La produttività del giornalista, di conseguenza, non potrà essere misurata sul numero delle righe scritte. C'è da arrossire nel ripeterequeste ovvietà, ma purtroppo siamo andati così indietro nella conoscenza dell'effettivo meccanismo del lavoro giornalistico che non è inutile ribadire le differenze tra un giornale e una qualunque altra impresa industriale. Secondo punto: i giornali. I giornali italianisono sciatti e grigi. È vero che la crisi politica e intellettuale del nostro Corriere ha scavalcato la Stampa con un forte incremento rispetto al '76. Ma anche l'incremento della Stampa, considerando la tendenza recessiva degli inviati in questa testata, appare un dato significativo. Del resto la tendenza a collegare maggiormente i servizi di inviati a occasioni di questo genere appareanchenel Giornale e nellastessa Repubblica, che pure presenta i livelli più bassi nel '79. Sarebbe troppo facile ironizzare su alcuni servizi che compaiono nell'analisi dei temi esclusivi inserita nei materiali di ricerca pubblicati. Un inviato del Corriere per l'inaugurazione della stele ad Hemingway sul Piave, o un inviato della Stampa per l'inaugurazione del monumento al tifoso o alla mostra internazionale di coniglicultura, non esauriscono certo la casistica, paese è grave, è vero che tutti hanno la sensazione di vivere un momento segnato fortissimameme da dubbi e da incertezze senza precedenti. È vero che in questi inizi degli anni '80 la stessa idea della irreversibilitàdel progresso è in discussione (e in Italia più che mai) per il venire meno di condizioni giudic cale indispensabili allosviluppo eper la confusione e la contraddittorietà con la quale se ne cercano di nuove. È vero che né ci sono presentate maggioranze politiche realmente stabili, nonostante le votazioni parlamentari quasi plebiscitarie, né si scorge un'opposizione consistente. È vero che gli intelleuuali italiani paradossalmente si sono ridoui a parlare del loro auua/e silenzio. È vero che e'è - come ha detto Pintor - «una opacità della coscienza pubblica». È vero - come bisogna dire con sempre maggiore chiarezza - che sta montando un'intolleranza, contro tulli coloro che in un campo o in un altro dissentono, talmente grave da non poter non essere spia preoccupante di dubbi consistenti sulle legittimità delle proprie tesi, dubbi da soffocare prima tfi tutto in se stessi facendosi crescere dentro l'insofferenza e la violenza. Ma se tu/lo questo è vero è anche vero che non possono essere i soli giornali a sfuggire a questo vortice di conformismo e di prudenza, un certo sforzo per conservare o dare dignità al proprio lavoro è necessario. Credo che l'unica reazione giusta sia quella di compiere fino in fondo, con modestia, il proprio dovere e il proprio mestiere. I dati forniti dalla lndex sono preoccupanti. Emergono due dati. Nei giornali, nel nostro in particolare, e'è un aumento dellaprodullività e un aumento de/l'estraneamento dalla realtà. C'è da compiacersi dell'incremento della MassimoCampigli Donna con le braccia conserte (prima mostradel Novecentoitaliano,1926). capacità produuiva, ma dobbiamo preoccuparci sopra/lutto di come questa venga usata. Basti citare C/aude Ju- /ien, secondo il quale «è ormai dimostrato chiaramente che l'abbondanza delle informazioni e la rapidità con cui esse sono trasmesse non hanno sortito l'effetto di garantire al pubblico una migliore informazione». Oppure, più subdolamente, il Musi/ ricordato da Maria Corti: «c'è un aumento di potenza che sbocca in un progressivo aumento di impotenza». Passiamo al/'estraneamento. Mentre il sistema economico, sociale e politico è comunque indotto o costretto ad una trasformazione, i giornali si limitano sempre più a trasmettere ai lettori am·- pie cronache del palazzo, oppure in altri casi inseguono effimere mode, ingigantiscono miti incerti o improbabili, e spesso trascurano di descrivere la realtà e di sollevare i problemi veri della gente e del potere. È questo un fenomeno ben visibile in tu/li i giornali. né è facile misurare il grado di interesse maggiore o minore che rivestono i convegni frequentati nel '76 rispetto a quelli del '79. Rimane come indicazione di ricerca il fatto che una grossa porzione degli inviati risulta impiegata in servizi su occasioni relativamente marginali, di interesse puramente locale, quando non folkloristico, o di sospetta intelligenza aziendale (cfr. intervento di Chierici nel dossier del convegno). A quest'ultima categoria appartengono tre servizi di inviati del Giornale e del Giorno negli Stati Uniti per l'apertura di un impianto Montedison nel Kentucky, oppure i tre inviati del Giorno, della Repubblica e della Stampa per una fornitura Olivetti a una banca di Karlsruhe. Bisogna sottolineare che non appare tanto interessante stigmaL'anno scorso, riferendoci 'al Corriere,scrivemmo che «non vogliamo essere una fotocopia dell'asse/lo dominante, ma uno specchio della società civile e politica in movimento». I dati lndexsottolineano come siamo andati pericolosamente indietro in quella che era e - crediamo - rimane la funzione del giornalista, di essere un testimone soggeuivo della realtà. Sempre meno però i giornalisti vanno a vedere come stiano effeuivamente le cose. Rimane loro la funzione di aggiustare e manipolare quelle schegge di realtà che arrivano direttamente sui tavoli delle nostre redazioni. Certo, in tal modo, il rischio è ridouo a zero. Però forse rendiamo un cauivo servizio non solo ai le/lori, ma anche ai potenti che hanno perduto così uno strumento di conoscenza della realtà su cui devono operare. Oggi più che mai appare azzeccato lo sceuicismo di Kraus quando scriveva che «i giornali hanno con la vitaall'incirca lo stesso rapporto che hanno le cartomanti con la metafisica». Forsesaràconsiderato passatista,ma quando abbiamo visto riprodoua sul Settecento riformatore di Venturi una stampa raffigurante la redazione della seuecentesca gazzetta fiorentina Notizie dal mondo, abbiamo riconosciuto - come peraltro è stato seri/lo sul nostro giornale -che ciò che è rimasto di buono nei giornali è già tutto n.-in una stessa stanza, in comunione d'intenti, alcuni scrivono, altri leggono (due allività sempre più inconciliabili), due tipografi manovrano il torchio, sono a contatto di gomito e hanno l'aria di conoscere ciò che stampano. Un cane sonnecchia: ci possiamo leggere un segno dei te(Tlpi,di quando non si era consumato il divorzio con la natura? Il Corriere della Sera, proprio per la sua lunga storia, ha la possibilità «di incidere sul tessuto sociale ed essere, come si dice, contemporaneamente di qualità e popolare». Non è intenzione di questo convegno, né nostra del Comitato <!:!_Redazionceompiere un processo al Corriere. Abbiamo pubblicato tu/li i dati perché pensiamo che il problema Corriere sia non solo nostro, di chi ci lavora dentro, ma dei le/lori, dei politici, degli studiosi. Abbiamo voluto spostare l'a//enzione dal mondo dei giornalisti al prodotto «giornale». Cavai/ariha compreso benissimo quale sia in fondo la nostra intenzione futura che è già presente in questo convegno: fare il nostro dovere professionale e sindacale anche e soprauuuo tenendo presente il prodouo che esce ogni mattina in edicola. Che il Corriere sia cambiato è innegabile, abbiamo assistito a un mutamento che è stato di molti giornali, ma che nel nostro-proprio perché è il Corriere - è stato più visibile. li Corriere di Ottone dopotutto, e con contraddizioni, si poneva sul versante non antagonista ma «altro» rispeuo al Palazzo. Era più portavoce di interessi sociali, in quel tempo ancora vivi, di certa borghesia produuiva. In questi ultimi anni la nostra società è cambiata radicalmente: quegli interessi sembrano volatilizzati. È rimasto il Palazzo e la sua articolazione nella società mediante la louizzazione. Il Corriere ne ha preso a/lo e rappresenta più il politico che il sociale. Non capisce del tutto che la frattura esistente trapolitico e sociale ora è talmente grave, i due momenti sono così radicalmente separati e in contrapposizione, che si è perduta anche la possibilità di rappresentare quella parte di sociale che è il riverbero del politico. Oggi il nostro intervento sulla realtà è un po' prevaricatore. Non andiamo a constatare certimutamenti, ma li sollecitiamo. Cosi corriamo il rischio -con ilsegno opposto-di certa intellettualità italiana che per dieci anni ha digerito acriticamente tutto il ciarpame tizzare episodi di malcostume e di leggerezza giornalistica, quanto tentare una classificazione delle direttrici sociali verso cui sono destinate le risorse pur sempre limitate dei giornali per quanto riguarda le forme produttive di informazione aggiunta, quali gli inviati. La sintesidiquestafasedellaricerca deve mettere nel giusto rilievo la novità metodologica costituita da una ricerca sulla stampa promossa non da gruppi editoriali, come accade di norma, ma da giornalisti, da lavoratori dell'informazione. Non si tratta soltanto di una diversa finalità o di un diverso uso dell'indagine. Si tratta soprattutto di una diversa prospettiva nei metodi e nel processo stesso della ricerca. È soprattutto la possibilità di chi partecipa direttamente al processo ideologico e le cianfrusagliedi pensiero di certa sinistra avida di maestri e di mode. Non vorremmo, dopo il sinistrese, dover subire anche il destrese,per di_ più ammannito dagli stessipersonaggi. Nel documento del C.d.R. del marzo· scorso denunciammo che il Corriere subiva due opposte pressioni. Di chi lo voleva di élite e di chi lo preferiva - scrivemmo - «meno rigoroso, sempre più facile, se non addirittura popolaresco». In quest'anno si è rafforzata la seconda pressione. L'incertezza politica rende il Corriere obbieuivo (tra virgoleue). Accontenta tu/li. li giorno delle elezioni fa parlare tuui, da Almirante a Pannella. Noi abbiamo ben chiaro nelle nostre testeun altro tipo di obiettività. Inoltre un colpo micidiale al giornalismo è stato dato dallapolemica contro il linguaggio«difficile». Su tutti i giornali, e anche sul nostro, è passato uno schiacciasassi che ha demolito tulle le asperità.A due livelli. Nei fondi e nelle analisi è in voga lafalsa obieuività faua di parole e categorie neutrali, mascherate di scientificità. Si descrive e si pone come inevitabile o il solo realistico ciò che invece spesso è parzialità nascosta. Nelle cronache il discorso tende a ridursi alle ouocento parole conosciute da tu/li. Veramente si confonde il popolare con la dimezzata cultura di massa. Alcuni anni fa Giorgio Manganelli ricordò la complessità e la difficoltà, anche sul piano linguistico, di Shakespeare o dei tragiciclassici. Tutti autori compresi molto bene dal pubblico del- /' epoca, popolari. Adesso la nostra società e i giornali gareggiano - ad un tempo causa ed effetto - a chi adopera «il linguaggio più misero, affranto, falso, ripetitivo, morto, neghittoso che si sia mai parlato». Sta prevalendo l'uguaglianza in basso e la semplificazione forzosa di una realtà sempre più ricca e frammentaria. Ultimo punto: il sindacato. Alcuni mesi fa i direuori dei maggiori quotidiani italiani si sono riuniti per protestare, sommessamente, contro l'invadenza dei Comitatidi Redazione. Anche il nostro direttore, che a dir la verità è tra i più tolleranti, lamenta una «ingessatura» del giornale per colpa del comitato di redazione. Non crediamo di meritarci questa accusa. La prova più evidente che possiamo portare a disca- • rico è il giornale stesso. li Corriere di Di Bella è di Di Bella come il Corriere di Ottone era di Ottone. La differenza, nel bene come nel male, è evidente. Ed è più profonda della - pur innegabile - banalizzazione del «siamo passati da Calvino e Pasolini a Testori e Fallaci». li Comitatodi Redazione ha sempre respinto in pratica e in teoria la cogestione e vuole essere custode e difensore de/l'articolo 6 del nostro contrai/o di lavoro che delinea i poteri dei direttori. Semmai diciamo: se questi poteri sono stati lesi, i responsabili vanno cercati altrove, e non lontano. Alla cogestione preferiamo la contrai/azione con una chiara identità dei ruoli, preferiamo il controllo. Ne è prova anche questo convegno. Nelle antichissime tesi de/l'allora socialista Panzieri sul «controllo» la conferenza di produzione è presentata come «una forma concreta dalla quale può iniziarsi il movimento per il controllo». E questa nostrapuò essere vista come una minuscola, modesta, conferenza sulla produzione giornalistica. Noi abbiamo forniti i dati, ne indichiamo i limiti e le contraddizioni, adesso speua ai nostri interlocutori analizzarli, dare lapropria interpretazione. Ci auguriamo anche che questa iniziativa sia ripresae faua propria dagli altri giornali, in modo da avere una mappa più esaua dell~ stampa italiana. produttivo dell'informazione di intervenire nello svolgimento con un conributo altrimenti irrecuperabile di indicazioni e di esperienze. Già questa fase ha visto un primo livello di integrazione del lavoro di chi fa ricerche sui giornali e dei giornalisti che fanno ricerca; è inutile nascondersi che tale integrazione è stata ancora inferiore alle potenzialità e ai possibili risultati. Ma la mole stessa e la capillarità del materiale raccolto gettano una base su cui si può lavorare. Crediamo che, proprio per il suo carattere aperto, la ricerca possa progredire se andrà oltre l'ambito dei giornalisti del Corriere della Sera». Per la rilevazione dei dati quantitativi ha collaborato con /'Index Giovanni Cappè.
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