. . . . . . . . , , che qualcosa allora è «classico», significa semplicem.entemisurare la propria distanza verso modi di ragione che sono alle nostre spalle (pensate a espressioni come: la logica classica, la fisica classica, l'economia classica, ecc.). Vuol dire che, per parafrasare Joan Robinson, 1101è1classico cio che è classico, ma ciò che, via via e per differenti motivi, così chiamiamo. Proviamo a discutere di queste diverse cose o di questi differenti aggregatidi problemi, lei/era/mente e 1101m1etaforicamente; o meglio: il meno metaforicamente possibile. Chiamiamoli, se possiamo, per nome e cognome. Allora, vengono fuori i problemi reali. E su quelli è utile misurarsi. Per esempio: passiamo dai pretesti ai testi (se lo riteniamo utile, discutiamo i contributi, differenti, plurali e tentativi, raccolti in un volume di complessive pagine 366 che si intitola Crisi della ragione curato da..., ecc., ecc.). Naturalmente, ciascuno facendo bene il suo mestiere: per dirla con Gargani, non c'è bisogno di sapere tutto per sapere qualcosa. Ma, per favore, cominciamo a discutere, criticare, demolire, difendere, almeno qualcosa. O la pretesa è troppo vorace e perversa? O, peggio ancora, classica? Oppure: vi sembra un trucco «neoclassico»? A me sembra solo ragionevole. Per il resto, Lewis Carro/i e la sua metafisica Alice ci hanno da tempo insegnato cose importanti sull'uso delle parole. 7 Giulio Giorello: Il giglio, Milady e la dialettica Alcuni anni fa lo slogan di una certa forza politica fu «progresso senza avventure». Una locuzione senza dubbio interessante. Uno slogan del genere, infaui, vale, per esempio, anche per se- _zioniabbastanza rilevanti della impresa scientifica. È progresso senza avventure tu/la la «ricercanormale» -analizzata da Thomas Kuhn ne La struttura delle rivoluzioni scientifiche-in cui la gabbia intellettuale entro cui il ricercatore opera 1101v1iene mai messa in discussione. Ma oltre alla ricercanorma- ·/e ci sono fasi, come Kuhn stesso dice, di ricerca «straordinaria» in cui persino la scienza può incorrere in una rivoluzione ... Secondo altri, poi, come per esempio Paul Feyerabend, più che fasi «normali» e «straordinarie», l'impresa scientifica conosce un conflitto tra componenti stabilizzanti e componenti rivoluzionarie: una sorta di partita tra coloro che sono per la Legge & Ordine e coloro che sono, invece, per la violazione sistematica delle regole. Probabilmente, l'impresa scientifica è più di tu/lo questo: ci sono più cose in terra che nelle filosofie di Popper, Kuhn, Feyerabend, ecc. Ma questefilosofie hanno avuto se 1101a1ltro il merito di dare un'immagine della scienza diversa da quella di una «matrona arcigna e severa» che ci è stata fornita sui banchi di scuola e che ancora ritroviamo in certe filosofie nostrane. Ma 1101s1i corre il rischio di esagerare?Recentemente, in un convegno sulla cultura scientifica auuale, un relatore osservavaspiritosamente che ormai è di • moda presentare la scienza 1101c1ome una irreprensibile matrona ma come una sorta di «traviata». Molto bene. Poiché siamo in contesto operistico, ci sia consentito di risalire da Verdi a Mozart e di ricordare come nelle transizioni sia sociali che intelleuuali, è solito insinuarsi «il libertino». A questi, a tempo debito, il sistema delle credenze stabilitepresenta il conto (La statua del Commendatore: « Don Giovanni, a cenar teco Imi invitasti, e son venuto») e all'intel/euuale libertino resta che prenderne a/lo (Don Giovanni: «Non lo avrei giammai creduto: I ma farò quel che potrò»), cercando di differire il più possibile il momento del pentimento (Don Giovanni: «No, no ch'io non mi pento; I vanne lontan da me»). Naturalmente è una storia ideale, nei casireali lo scienziatospesso si è pentito (vedasi Galileo...). «Crisi» è termine carico di significati, aspeuative, emozioni: se già i processi studiati dalla fisica o dalla chimica conoscono «punti critici», in cui si avvertono mutamenti qualitativi, nelle crisi vi è qualcosa di più, una forte componente di soggeuività. Un sistema «in crisi» peréepisce certi aspe/li del rapporto con il suo ambiente come pericolosi per la propria regolazione. Perché si parli di crisi, quindi, ci deve essere nel sistema qualcosa che simuli una sorta di soggeuività. Crisi si dà, dunque, per organismi viventi - piante, animali, uomini, organismi sociali, ecc. Ma la crisi non è un semplice mutamento di forma, è piuttosto lo stato del sistema che tale cambiamento prepara e/o annuncia. Da questo annuncio alla realizzazione del mutamento 1101c1'è, in genere, passaggio necessario. C'è, invece, una gamma di possibilità compatibili con i vincoli imposti al sistema. Saranno le scelte operate via via dal sistema a realizzare una possibilità rispetto alle altre. « Vi è più di un architetto per questa ciuà», per dirla con Salvatore Veca («Modi della Ragione», in Crisi della Ragione, Mario Sironi, L'allieva, JY23 (Biennale di Venezia, 1924). Torino 1979, p. 283). Di più: le crisi possono rivelarsi benefiche. Essepossono indurre, infatti, a cambiare quello che non funziona, a rinnovare una serie di apparati, a potenziare glob(Jlmente, infine, il sistema in questione. L'asino di Buridano, «in crisi» perché incapace di decidersi fra due equidistanti cespugli d'erba, avrà forse rischiato di morir di fame: la comunità scientifica, «in bilico» tradue programmi di ricerca rivali, ha saputo invece far tesoro anche 'di «perturbazioni infinitesime», per decidersi infine da una parte o da~'altra. Dunque, la crisi nella scienza è più familiare di quanto non sembri: e non è «crisi della ragione» senza qualificazioni, ma crisi di particolari realizzazioni della ragione, cioè di particolari programmi di ricerèa che possono superare le loro crisi e venire rimodellati, o anche venir abbandonati per altri. Ma c'è di più: per usare una bella immagine di Quine, lo scienziato intelligente si comporta diversamente dall'asino di Buridano anche in quanto, di fronte a due programmi alternativi, a prima vista egualmente promettenti, ma complementari, spregiudicatamente li adopera tu/li e due, sviluppando l'uno con la mano destra e l'altro, per così dire, con la sinistra. È capitato più volte: nella astronomia, come nella termodinamica, come nella meccanica quantistica, ecc. Significa forse questo abbanqualche mitico paese, in qualche filosofia consolatoria: vanno invece trovate là dove esse sono: negli articoli, nei trauati, nelle leuere, nei diari degli scienziati ... È sufficiente leggerli! Si traila allora di 11011enfatizzare troppo. Certo, uno può restare ancorato a vecchi modelli e piangere, insieme col loro fallimento, anche la fine della razionalità. Ma se vogliamo sourarci al facile gioco delle etiche/le (tipo « razionalismo» I «irrazionalismo» ecc.) dobbiamo qualche volta essere infedeli ai nostri modelli (e ai nostri «maestri»): del resto, chi ha mai dimostrato che la fedeltà sia una virtù ne/-dibauito razionale oltre che nelle relazioni coniugali (e anche in questo ultimo campo la questione è opinabile.. .)? Ma - qualcuno potrebbe obieuare - questa teorizzazione dell'infedeltà, questo modo «a due mani» di affrontare le crisi sarà magari adeguato per la scienza (magari per le sole scienze della natura), ma certo non paga quando la posta in gioco è il progello politico, la questione sociale, ecc. ecc. li nostro paese, in particolare, èpieno di «pensatori» (si fa per dire) che hanno fauo di questo argomento un vero e proprio baluardo per sourarre i loro dogmi più cari a ogni forma di critica razionale. La cosa migliore mi sembra, in questa questione specifica, contrapporre a questa tradizione una diversa concezione della razionalità scientifica epolitica, che coniughi in modo differente dissenso e crescita. In un breve scriuo, ma carico di forte tensione intelleuua/e, The Tacit Dimension ( 1966, ma apparso solo di recente in traduzione italiana, La Conoscenza inespressa, Roma 1979), Michael Polanyi, fisico e chimico, ma anche storico e sociologo, richiamava I' auenzione su quelle «solitarie intuizioni del problema» - una sorta di «spigolatura» - che guidano l'impresa scientifica «verso qualcosa di nascosto». Sono queste regioni «nascoste», «celate», «sommerse» che lo scienziato, vero e proprio «esploratore intellettuale» porta infine alla luce, sostituendo a ciò che è inarticolato e inespresso ciò che man mano egli strullura utilizzando nuovi metodi, linguaggi, strumenti conceuuali. Le sue acquisizioni sono davvero «scoperte» proprio perché esse non potevano venir conseguite restando nella costellazione delle idee dominati, degli schemi rigidamente stabiliti, dei pregiudizi consacraci a dogmi. Lo scopritore è chi, allora, «ha valicato distese abissali 11011segnate dalle carte» (Polanyi, tr. cit., p. 92). Così la scoperta di qualcosa è, in molti casi, anche scoperta contro qualcosa (come vari casi storici, da Galileo ad Einstein o a Bohr, da Darwin alla genetica, ecc. ormai insegnano). Ma 1101c1'è, del resto, solo la dimensione Mario Tozzi, La toelettadel mattino (Esposizione d'arte italiana in Olanda, IY27). donare ogni pretesa alla verità elo alla coerenza? Niente affauo. Questo sviluppo «a due mani» comporta in 1101p1ochi casi la costruzione pezzo a pezzo di un manuale di traduzione dall'uno schema ali'altro. Questo non vuol dire che • siamo sempre, a prior~ certi che le cose andranno bene. È questo, forse, quel che distingue questa concezione «matura» della razionalità scientifica da altre immagini. Queste «traduzioni» 11011 sono per altro nemmeno sovraimposte allascienza da una qualche filosofia ad essa estranea;sono anzi momenti dello sviluppo scientifico e, come altre sue componenti, sono anch'esse fallibili e congeuurali. Non vanno cercate in «tacita» della scoperta. Vista a posteriori lacrescitadella scienza «può venir interpretata come una forma di rappresentazione di possibilità precedentemente celate» (Polanyi, tr. cit. p. 92). Com'è ancora in molti dialelli italiani, ragionare vuol dire tanto pensare quanto parlare, discorrere. Nelle modalità che le sono via via proprie, la comunità scientifica realizza le «possibilità celate»mediante il libero conflitto delle opinioni. In questo senso non c'è «crescitadella conoscenza» senza critica L'aveva colto bene, a suo tempo, John Mili in On Liberty: «l'uniformità delle opinioni, a meno che non risulti dal più ampio e libero confronto, non è affauo desiderabile. La diversità non è un male ma un bene». Ma il pluralismo, inteso come compresenza e rispeuo di differenti tradizioni di ricercanon è qualcosa di naturale, ma piuuosto un artefai/o, un prodouo della ricercae della educazione ... C'è quindi da aspeuarsi, in tempi di nostalgie per ciò che è immediato (cioè non mediato), che a qualcuno appaia troppo scomodo. Così pare, per esempio, in certe osservazioni che frequentemente appaiono su Rinascita a firma di Carlo Bernardini che, evidentemente troppo teso a studiare i meccanismi del consenso, è solo capace di liquidare coloro che dissentono, in scienza come Giuseppe Carosi, Ritratto (prima mostra del Novecento italiano, 1926). in politica, come quelli «che fanno il massimo casino» (cfr. per esempio Rinascita, 1979 n. 26 e anche n. 40). Quando si risponde allaproposta di souoporre qualsiasi quadro conceuua- /e al fuoco della criticadicendo che tale proposta è solo «cannibalismo» (Bernardini in Rinascita 1979, n. 42), emerge palesemente una non-educazione al diba11i10civile e al/'aueggiamento critico che, almeno per alcuni, sono invece componenti ineliminabili della ricerca sciemifica e della argomemaz_ionerazionale. Chequesto tipo di non-educazione si colga anche in operatori scientifici è indice del fai/o che le crisi - o, se si vuole, l'emergenza del nuovo -se pure si rivelano benefiche sul lungo periodo, restano qualcosa di drammatico. La stessa tensione tra tradizione e innovazione che auraversa tamo il pensiero sciemifico che quello politico, richiede di prendere sul serio leparti in conffiuo, senza affidarsi alla speranza che prima o poi una «simesi superiore» presemi i differenti pumi di vistacome facce della medesima medaglia. Qualche volta questo è pure capitato: in tali casi la crescitaha seguito uno schema per dissenso-e-inclusione, ma, ancora una volta, queste «inclusioni» si possono realiuare in più modi, secondo uno schema 11011lineare, ma ramificato. Qualcuno, per esempio Thomas Kuhn, vede in questa trama un progresso da certeacquisizioni a certealtre:ma trova difficile convertire questo tipo di crescita in un progresso verso uno stato ouimale. È curioso che la nostalgia per il «progresso verso» affiori qua e là in alcuni dei saggi di Crisi della Ragione, ove pure, programmaticamente, si canta il tramomo della « razionalità classica» e dei suoi miti. Neanche questo fatto, però, deve troppo stupire: al comrario di quanto crede ancora qualcuno, evidemememe poco informato, la filosofia della scienza stessa ha smesso da quel dì di proporre il metodo con cui «meuere la scienza in gabbia». Non ha rinunciato, però alla valutazione razionalemediante dei metodi circarilevami sezioni dell'impresa sciemifica. Nel suo Contro il metodo (tr. it. Milano 1979) Paul Feyerabend ha sostenuto la tesi che, per ogni regola, possiamo trovare un'eccezione. Qualcuno, poco pratico di logica, ne ha trailo la conclusione che esistono eccezioni a tulle le regole. Le cose, ovviarne/I/e, non stanno così: dal fauo che per ogni numero esista un numero maggiore non scende che esiste un numero che è maggiore di tulti i numeri. Le eccezioni, dunque, infrangono certe regole, ci inducono a rimodellare i nostri schemi conceuuali o a trovarne di nuovi: ma non rinunciamo a cercare altre regole, anzi!, non foss'altro per non privarci del piacere di violare anche queste. Prendendo a prestito una espressione di Luhmann, potremmo descrivere questa tensione tra scienza e metodologia come «un numero maggiore di possibilità souoponibili a un numero maggiore di vincoli». Naturalmeme una situazione del generepuò anche, come si dice usualmente, «meuere in crisi» qualcuno. Constata per esempio Polanyi che questo tipo di progresso con avventura può dare l'impressione di '<IIOnfar altro che ammucchiare opere destinate ad essere dimenticate» (tr. it. cit. p. 107). Qualche scienziato può trovare sconcertante un esito del genere; qualche altro studioso, più interessato alla tecnologia o allapolitica, ammonirà a non trasferire questa dinamica dal pensiero sciemifico a quello politico. Aueggiamenti del genere souendo110,a mio avviso, una sorta di insofferenza verso una concezione della ragione di tipo, per così dire, «politeista». È imeressante quindi ritrovare anche nei saggi del citato volume qualche traccia di una difesa della vecchia ragione «monoteistica» (sia che il dio invocato sia quello della tradizione religiosa o invece qualche suo surrogato come «la Ragione» con iniziale maiuscola o la «classeoperaia», ecc.). Prendiamo, per esempio, il saggio di Nicola Badaloni, dal significativo e ambizioso titolo Ragione e mutamento: tra una citazione di Gramsci e una di von Neumann, fa capolino la solita «dialettica» come «unità del molteplice» e nel mutarne/I/oscientifico e nel mutamento sociale. Così della «razionalità» va delineata una strada da cui «derivare la possibilità e la necessità... del socialismo» (p. 270, il corsivo è mio). Ancora una volta vale lapena di ripetere, con lmre Lakatos, che la dia/euica sembra spiegare il mutamemo, ma è incapace di spiegare la critica. Non dobbiamo dunque farci troppo affascinare da quanto la dialeuica promeue sùlla prima questione: è il fallimento sulla seconda la «spia» (per dirla con Carlo Ginzburg) della sua compone/I/e autoritaria. È un po' come per Milady nel romanzo di Dumas: a prima vista è una nobildonna, ma il giglio impresso sulla sua spallafa riconoscere in lei una avvelenatrice. Mi sembra così che, di frome alla crescita ramificata della scienza e della società, più che di crisi della ragione tout court sia meglio parlare di crisi dellecapacità intelleuuali di certi operatori scientifici e culturali. Certo, l'eclisse dei sistemi centrati e la stanchezza generata dalle filosofie della storia sovraimposte allastoria (magari allastessa storia della scienza) non necessariameme spingono chi è spaventato (o compiaciuto: ma tra paura e compiacimemo c'è talvolta un souile legame) dalla «crisi della ragione» verso i paradisi (ma sono davvero tali?) della dialeuica o verso le consolazioni offerte a buon mercato da qualche «criterio della prassi». C'è, forse, qualche altra soluzione, come lavorare entro una nozione davvero laica di progresso scientifico e di crescita civile. Ciò non implica, a mio avviso, nessuna rinuncia a «patrimoni storici» del movimento operaio, ecc. ecc. se talipatrimoni forniscono ancora oggi adeguati modelli di comprensione dei processi reali. È comunque salutare rendersi conto che i modelli sono semplificazioni del reale e non il reale stesso. Se si dimentica questo, si finisce col viverenon più nel mondo ma encro il modello. Ebbene, penso che il lavorare con più modelli - cioè il «politeismo» cui prima accennavo -sia un'apprezzabile medicina prevemiva per questa strana ma/auia. Crisi della ragione? (II) co/1/inuaa pag. 15
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