Divisione dei Poteri. L'espressione «divisione dei poteri» rimanda a una pratica istituzionale che, nel mondo moderno di cui siamo ancora parte, comincia con la rivoluzione inglese del 1688-89 e si generalizza con le rivoluzioni americana e francese, e rimanda ad una teorizzazione di tale pratica che, non per caso, inizia in consapevole corrispondenza con la rivoluzione inglese, con l'opera di Locke. Come è noto Montesquieu offrirà una ricostruzione leggermente diversa da quella di Locke: in particolare Locke fa distinzione tra potere legislativo, potere esecutivo e potere federativo (= potere verso l'esterno), e tace dunque del potere giudiziario come potere indipendente, Montesquieu invece distingue tra potere legislativo, potere esecutivo e potere giudiziario. È però significativo che Montesquieu ritiene di teorizzare la stessa esperienza inglese su cui aveva riflettuto Locke. E bisogna dire «ritiene» perché già Montesquieu, e con lui quasi tutti i teorici della divisione dei poteri, idealizzano una situazione più complicata di fatto, e proprio per questo non conoscono e non intendono la funzione dei ministri: le prime teorizzazioni adeguate del governo parlamentare (cioè del governo mediante ministri responsabili davanti al parlamento) verranno addirittura intorno alla metà dell'800. La tripartizione di Montesquieu diverrà quella canonica e si imporrà come principio direttivo sia nella pratica costituzionale sia nella riflessione teorica, fino al punto che la più borghese delle costituzioni, quella degli Stati Uniti d'America, fu (e resta) scritta in tre articles ( = titoli, o parti) intitolati rispettivamente the Legislative, the Executive, the Judiciary. Sia in Locke che in Montesquieu la preoccupazione assolutamente dominante è quella di individuare e separare, idealmente e operativamente, tre funzioni dello Stato, da assegnare poi, variamente combinate, agli esistenti o auspicati centri di potere: Corona e Parlamento in Locke, e Corona, assemblea legislativa - da costituirsi sul modello inglese- e Parlements ( organi giudiziari francesi) in Montesquieu. La divisione dei poteri come esatta divisione tra tre centri di potere distinti e tre funzioni distinte, con l'attribuzione a ciascun potere di una sola funzione sarà il frutto di teorizzazioni successive,.del tutto scollegate dalla effettiva pratica costituzionale, ma significativa per l'ideologia che le sottende e che esse esprimono. E di ciò diremo. Come spesso accade, una pratica nuova, e una nuova teoria conseguente spingono a ricercare fenomeni analoghi o equivalenti nel passato. Cosi ancor oggi come ieri molti si affannano a ricercare pratiche precorritrici della moderna divisione dei poteri (magari nell'antichità classica greco-romana) e teorici anticipatori (per esempio Marsilio da Padova). È chiaro che noi intendiamo sottolineare di essere contro tali tentativi. Della divisione dei poteri conviene parlare come di un principio teorico pratico della moderna società borghese: come cioè una categoria storicamente determinata. Qui' si sostiene: a) che il principio di divisione dei poteri non è·un concetto da dedurre logicamente e da scindere nei suoi presunti elementi costitutivi, presunti come logicamente necessari, ma è un istituto nato storicamente a caratterizzare una determinata forma di organizzazione politica; b) che tale principio di organizzazione politica non è sempre rinvenibile e quand'anche si ritrovi qualcosa di somigliante ad esso in altre formazioni economico-sociali diverse dal capitalismo, è tutto da dimostrare se e fino a che punto questo qualcosa sia parente o identico al moderno principio di divisione dei poteri. In particolare è del tutto scorretto unificare in un solo principio costitutivo divisione dei poteri propria dello Stato moderno (e cioè di una formazione politica nella quale un apparato monopolizza totalmente la forza armata) con fenomeni solo superficialmente analoghi rinvenibili in società nelle quali il monopolio della forza posseduto da un apparato burocratico impersonale non esiste. E evidente che la sola e assorbente presenza di tale monopolio della forza determina un funzionamento pratico della divisione dei poteri del tutto diverso da quello eventualmente rinvenibile in società prive di tale monopolio accentrato, cosicché la pretesa uguaglianza o .somiglianza si riduce alla identità del nome. Cominceremo dunque dalla divisione dei poteri quale si costruisce e viene teorizzato in esplicita e consapevole opposizione alla monarchia assoluta; cominceremo cioè in sostanza dalla pratica inglese successiva alla «gloriosa rivoluzione» (1688-89) e dal suo teorico massimo, Locke. Nella divisione dei poteri, sia quando viene vista come pratica istituzionale, sia quando viene studiata come teoria di tale pratica, sono compresenti fin dall'inizio due esigenze che in pratica convergono ma che restano distinte. La prima esigenza, più immediatamente legata alla realtà empirica, si preoccupa anzitutto, mediante la divisione dei poteri di individuare i centri decisionali massimi dello Stato, e quindi quei centri che sono indipendenti l'uno rispetto all'altro. In questa direzione è chiaro che il potere va diviso tra più di un centro, contro la precedente esperienza della monarchia assoluta; dall'altro che tali centri, per essere. realmente indipendenti, debbono fondarsi su realtà sociali e istituzionali che diano loro forza bastevole per non essere sopraffatti da altri; infine tali centri debbono però in qualche modo coordinarsi (sono centri di potere entro e per lo Stato nel suo insieme) in modo che non vi siano né sovrapposizioni né vuoti di potere. La seconda esigenza, di ordine più prettamente teorico e sistematico, tende a una costruzione della divisione dei poteri tale che corrisponda all'ideale società borghese, e diventa non per casi tripartizione delle funzioni piuttosto che (generica) divisione dei poteri. Alla legge, comando astratto e generale, e quindi al potere legislativo produttore di leggi, spetta di stabilire le regole eguali per tutti che garantiscono il libero dispiegarsi della concorrenza tra uomini liberi, indipendenti ed eguali; al giudice, e quindi al potere giudiziario, spetta accertare la devianza dei concreti comportamenti rispetto alle regole del gioco; al potere esecutivo spetta ristabilire l'ordine violato, e quindi in buona sostanza spetta eseguire mediante la forza le sentenze dei giudici (oltre che difendere lo Stato verso l'esterno). In uno schema siffatto, se la realtà corrispondesse esattamente ad esso, se cioè i poteri si comportassero tutti secondo le prescrizioni e dunque senza interferire l'uno con l'altro, l'insieme funzionerebbe come una macchina senza intervento di volontà libere e discrezionali, perché ad ogni passo vi sarebbe una previa regola, impersonale e astratta, che prescrive esattamente ciò che bisogna fare. Lo Stato dunque propriamente non ordina e non comanda: lo Stato, per incarico della società consegnato nelle leggi generali e astratte (approvate daJla stessa società mediante il parlamento rappresentativo), svolge un compito puramente passivo di garante dell'ordinato svolgimento deJla vita associata (e cioè in sostanza della concorrenza e del mercato borghese). L'ideale Stato libero non poteva non rispecchiarsi nell'ideale tripartizione dei poteri e delle funzioni come suo meccanismo istituzionale. L'art. 16 della Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino, quando afferma che «Ogni società in cui la garanzia dei diritti non è assicurata né la separazione dei poteri determinata, non ha costituzione», dimostra la grande consapevolezza storico-critica dei rivoluzionari borghesi rispetto ai meccanismi istituzionali necessari al nuovo ordine. La storia dell'istituto è per buona parte la storia dei tentativi, del tutto vani, di ricondurre allo schema ideale la concreta divisione dei poteri, che conoscerà quasi sempre più di tre poteri statali indipendenti (gli orgarti costituzionali) e comunque sempre un intreccio complicato di funzioni e di compiti che, con l'estendersi dello Stato interventista, dimostrano vana ogni pretesa di ridurre solo a tre le funzioni dello Stato, e ancor più di tenerle rigorosamente separate. Ma al di là di ogni costruzione logicamente rigorosa e sistematicamente coerente, il principio di divisione dei poteri riassume ancora oggi e spiega diversi aspetti strutturali delle istituzioni statali, riconducibili al motivo ispiratore di articolare il potere statale in modo che più centri decisionali sovrani si dividano il potere statale e si coordinano tra loro a costituire lo Stato. In particolare: il principio di divisione dei poteri vive nella pratica istituzionale e nella teoria per cui gli apparati fondamentali dello Stato sono autofondati (originarietà dello Stato) e il popolo è sovrano nei limiti della Costituzione e dunque nel rispetto di tale separatezza autofondata. Ciò si nota particolarmente in questi aspetti: a) il popolo non ha poteri di interveoto, se non per eccezione e senza reale efficacia, entro l'apparato statale; b) l'apparato si autogoverna attraverso i suoi organi, coopta i suoi membri mediante concorsi amministrativi ed esso stesso oppone sempre, se non il segreto protetto penalmente, il segreto di fatto che i cittadini non hanno il potere di superare né in diritto né in fatto; c) lo stesso parlamento o non può entrare assolutamente entro l'amministrazione e deve avvalersi della mediazione necessaria del Governo o può entrarvi solo per eccezione e con molti limiti. Ugo Resc:igno La''parolaltm~d'i M. Bachtin Michail Bachtin Dostoevskij. Poetica e stilistica Torino. Einaudi. 1968 pp. 355. lire 1800 L'oeuvre de François Rabelais et la culture populaire au Moyen Age et sous la Renaissance Paris. Gallimard, 1970 pp. 474, franchi 60 (trad. it. L'operadi Rabelais e la cultura popolare nel Medioevo e nel Rinascimento. Einaudi 1980) pp. 524 lire 18.000 Estetica e romanzo. Un contributo fondamentale alla "scienza della letteratura" a cura di Cl. Strada Janovic Torino. Einaudi. 1979 pp. 505, lire 18.000 Gyorgy Lukàcs. Michail Bachtin e altri Problemi di teoria del romanzo. Metodologia letterariae dialetticastorica, a cura di V. Strada. Torino. Einaudi. 1976 pp. 221. lire 2800 11 rapporto della parola con la parola altrui ha in tutta l'opera bachtiniana un ruolo centrale, anche nei lavori apparsi sotto il nome dei suoi discepoli Yolosinov e Medvedev (Freudismo, 1927. Dedalo. 1977; li metodo formale nella scienza della leuerarura, Dedalo. 1978; Marxismo e filosofia del linguaggio. (1929). Dedalo, 1976). In base a tale rapporto la parola può essere caratterizzata. può esserne individuata l'appartenenza a un determinato genere di discorso; si possono cogliere le caratteristiche specifiche di un genere letterario. delle sue variazioni interne. di una determinata opera rispetto al genere, si determinano i rapporti fra autore, personaggio e destinatario. Ed è lo studio di questo rapporto a rendere necessari il superamento dei limiti della linguistica - che considera la lingua nella sua generalità, come ciò che rende possibile il rapporto dialogico, astraendo conseguentemente dai rapporti dialogici stessi-e quindi la costituzione di quel tipo di approccio alla vita concreta della parola che Bachtin chiama appunto meta- " linguistica. La parola ha una duplice direzionalità: essa è diretta all'oggetto del discorso e all'altra parola, al discorso altrui: è sempre replica di un dialogo esplicito o implicito. Ogni testo, scritto o orale, è collegato dialogicamente con altri testi, a cui allude. replica, obietta, oppure dai quali cerca sostegno, riprendendoli, imitandoli, approfondendoli; è calcolato in rapporto a enunciazioni non ancora formulate. che esso può produrré come reazione, e quindi anticipa possibili risposte, obiezioni. L'intera forma dell'enunciazione è determinata dal rapporto con la parola altrui: a seconda del modo in cui tale rapporto si orienta, variano la scelta delle parole, la loro. organizzazione sintattica, il loro senso ideologico. La parola, quale è originariamente prima di essere parola propria è parola altrui. la quale quindi non è mai parola neutra. ideologicamente.vuota, ma ha già da sempre un orientamento valutativo. un suo senso. una sua ideologia. Conseguenza di ciò è la «pluriaccentuatività» della parola. la sua «pluridirezionalità ideologica». riscontrabile in gradi diversi ma presente anche nel discorso più fortemente monologico. Il segno verbale è caratterizzato dalla sua adattabilità a contesti situazionali sempre nuovi e diversi, dalla plurivocità, dalla sua indeterminatezza semantica, dalla sua duttilità ideologica. La parola partecipa a processi comunicativi che si realizzano entro condizioni sociali continuamente diverse, in rapporti diversamente gerarchizzati, in registri diversi, secondo diverse ideologie, secondo prospettive individuali, di ambiente, di gruppo, di classe diverse. Possiamo capirci e farci capire proprio perché le parole non sono date una volta per tutte, fuori dalla comunicazione, non sono la messa in opera di concetti e regole che sussistono indipendentemente dai concreti contesti comunicativi, ma acquistano il loro pieno significato nella comunicazione stessa, sono materiali e strumenti duttili, soggetti a un continuo processo di lavorazione, di modificazione da parte della comunità linguistica che, a sua volta, non è affatto qualcosa di fisso, di identico, di omogeneo. Il verbale, e il segnico in generale - qui la differenza fra «segno» e «segnale» del Yolosinov 1929 ~ è il campo della indeterminatezza, della ambivalenza, della deviazione, della creatività; è il campo in cui tutto si decide socialmente, è determinato da circostanze, da relazioni, da pratiche sociali, volta per volta specificate. La «lingua unitaria», dice Bachtin in «La parola nel romanzo» (1934-35, in Estetica e romanzo), non è un fatto una volta per tutte realizzato, ma resta sempre un obiettivo da raggiungere. Le forze centripete, unificatrici, della vita linguistica tendenti verso la «lingua unitaria» agiscono in una realtà pluridiscorsiva. La lingua in ogni momento dato del suo divenire è stratificata in dialetti linguistici e in linguaggi ideologico-sociali diversi. Finché una lingua è viva e si sviluppa, accanto alle forze centripete della lingua, agiscono forze centrifughe, avvengono continuamente processi di decentralizzazione, di disunificazione. Quando parla di unificazione o di disunificazione, Bachtin non si riferisce a processi che sono semplicemente di ordine astrattamente verbale, ma che concernono invece la realtà ideologico-verbale nella sua concreta indissolubilità. Parlando di lingua unitaria «ci riferiamo non al minimo linguistico astratto di una lingua comune nel senso di un sistema di forme elementari (simboli linguistici) che garantisca un minimo di comprensione nella comunicazione pratica. Noi prendiamo la lingua non come sistema di categorie grammaticali astratte, ma la lingua ideologicamenre saturata, la lingua come concezione del mondo e persino come opinione concreta, lingua che garantisce il massimo di reciproca comprensione in tutte le sfere della vita ideologica. Perciò la lingua unitaria esprime le forze della C<Jncretaunificazione e centralizzazione ideologico-verbale, che si svolge in un indissolubile legame coi processi della centralizzazione politico-sociale e culturale» (Esretica e romanzo, p. 79). e ontrariamente alla semplicistica concezione di N. Ja. Marr della lingua come prodotto e strumento di un'unica classe, la lingua, in ogni momento storico della sua vita ideologico-verbale, si presenta come pluridiscorsiva, pluriaccentuativa, «è coesistenza di contraddizioni ideologico sociali fra il presente e il passato, tra le varie epoche del passato, fra i diversi gruppi ideologici-sociali del presente» (ivi, p. 99). I diversi linguaggi, di classe, di generazione, di genere, ecc. non sono lingue chiuse e autosufficienti: essi rappresentano fra di loro, come pure al loro interno, rapporti dialogici , di reciproca influenza, di contraddizione. E sono appunto queste correlazioni dialogiche- sostenute da concreti interessi di comunicazione pratica e più o meno forti a seconda dell'organizzazione dei rapporti sociali di produzione e di scambio - che interagendo con le forze centrifughe sostengono la tendenza verso un massimo di unificazione ideologico-sociale. Diversamente da quanto sosterrà Stalin nel suo intervento del 1950 sulla Pravda contro il marrismo, non c'è da una parte la lingua non orientata ideologicamente , neutrale, comune a tutti, indifferente nei confronti dei diversi interessi sociali, e dall'altra il suo uso concreto, ideologicamente orientato di volta in volta in una certa maniera. «La lingua non è un mezzo neutro, che facilmente e liberamente passa in proprietà intenzionale del parlante: essa è popolata e sovrappopolata di intenzioni altrui. Il dominio della lingua, la sua sottomissione alle proprie intenzioni e ai propri accenti è un processo difficile e complesso» (ivi, p. 102). Prima che qualcuno se ne appropri, la parola non si trova nella lingua neutra e impersonale; essa si trova clà dove di fatto la incontriamo per la prima volta, cioè sulle labbra altrui, negli altrui contesti, al servizio delle altrui intenzioni» (ivi, p. 101). Quando il parlante se ne appropria, non è mai parola vuota da riempire di contenuti ideologici, ma parola «già abitata», in cui l'appropriazione è ot-
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