Chsiipascedic,,iboceleste (da Liberation, 26 novembre 1979) Preceduto da una enorme campagna pubblicitaria, dalla pubblicazione di dodici libri sul personaggio e il suo mito, da quindici traduzioni diverse del libretto, da venti edizioni o riedizioni registrate dell'opera, da una cinquantina di libri su Mozart, da un libro su Losey, da un libro di PierreJean Rémy che racconta il film inquadratura per inquadratura, da un film sulla lavorazione del film e anche da commenti sul film sulla lavorazione del film, esce finalmente questo Don Giovanni firmato Gaumont e Losey. È anche firmato Mozart? Nell'era delle multinazionali dell'audiovisivo e del marketing planetario della cultura, bisognava aspettarsi questa campagna pubblicitaria smisurata che assorbe un budget che potrebbe finanziare tre o quattro altri film. Bisognava aspettarsi l'arroganza di un trust di produzione egemonico che ci impone a gran voce la sua «visione», (Toscan du Plantier in Le Monde de la Musique, ottobre 1979), la sua estetica, le sue immagini e i suoi suoni. Bisognava aspettarsi centinaia di articoli, di echi, di conversazioni, di chiacchiere, tutto questo sfoggio •di incultura giornalistica. Bisognava aspettarsi questo chiasso che fa epoca, questa sequela di commenti che digeriscono Mozart e lo trasformano in un insipido minestrone culturale. E di conseguenza bisognava anche aspettarsi, visto che l'impresa si adeguava in anticipo agli schemi stereotipati della cultura di grande consumo, che tutti avrebbero trovato bello questo film brutto. Dai vescovi riuniti a Lourdes ai presidenti Giscard d'Estaing e Carter ... Se dico brutto, bisogna che mi spieghi. Niente a che vedere con quelle opere filmate, noiose e mal sincronizzate a.cui ci hanno abituato per esempio il Bolscioi con un Boris Godunov di carta pesta e vecchi tappeti, oppure Karajan con un Otello dalle trasparenze truculente. Non c'è nel Don Giovanni, fortunatamente, né questo bric à brac teatrale, né questo espressionismo smaccato del gesto che qualche volta ci fanno morire dal ridere all'opera. E niente a che vedere nc:;;nmeno con le orride tele dipinte di Cassandra a Aix en Provence, né con le atroci inferriate moresco-andaluse di Toni Businger per l'Opéra di Parigi. Qui, al contrario, il lusso dello scenario, lo splendore dell'immagine, la fedeltà dei costumi, la sobrietà del gioco assicurano al film una specie di iperrealismo che lo pone nettamente al di sopra della produzione corrente di opere e opere filmate. Ma proprio queste qualità, invece di portare uno sguardo moderno su Mozart, sulla sua epoca, sull'opera lirica e su Don Giovanni in particolare, mi sembrano rimandare a un'estetica «rétro» e a un accademismo nuovo, tipico del cinema. I nfatti tutto accade come se Losey non avesse potuto assumere questo scivolamento fuori dal teatro, verso lo «scenario naturale», senza riportare continuamente nel campo della macchina da presa il teatro, i suoi scenari, i suoi costumi, la sua pittoricità. Certo, c'era lo scenario imposto, la «Rotonda» di Palladio vicino a Vicenza. Ma là si misura tutta la stranezza di un'impresa che consiste nel girare un film a partire dall'opera di Mozart, ma attorno a un monumento. A che pro in effetti usciredal luogochiusodell'opera per poi limitarsi solo a trattenere una piccola serie di scenari che hanno in comune di essere già in se stessi scenari di teatro, modelli di scenari di teatro, o anche semplicemente teatro (il Teatro Olimpico). Quasi ogni scena si svolge su uno sfondo scelto, per la maggior parte monumentale ed esclusivo: affreschi, scale, colonne, pilastri e statue. Lo scenario è un po' come le immagini dipinte o le fotografie di luoghi turistici famosi che si permettevano a buon mercato di situare la scena. Così Don Giovanni diventa una 'suite' di impeccabili cartoline postali e di belle statuine. Oltre a Palladio si ritrovano, per gli scenari e i costumi, Tiepolo, Veronese, Guardi, Canaletto, allusioni a Casanova, insomma un pienone così generoso di immagini e di cultura che non lascia nessuno spazio all'ambiguità, all'immaginario, cioè, poiché è pur sempre di Mozart che si tratta, all'orecchio. M a l'errore più grave mi pare quello di avere scelto gli scenari palladiani per Mozart e di avere inquadrato tutta l'opera nell'unità dello stile neoclassico. C'è un baratro tra l'estetica del XVI secolo - anche se talvolta è portatrice dei primi slanci barocchi- e quella della fine del XVIII secolo. Ad esempio, l'idea fonDaniel Buren (Foto di Giorgio Colombo) damentale dell'architettura del Palladio - «copiare la vera bellezza e l'eleganza degli antichi» - era un'idea totalmente estranea a Mozart, per il quale «gli antichi» risalivano appena alla generazione precedente, che si innovava senza posa a partire dalle forme della natura (il canto degli uccelli), o dalle canzoni e danze popolari, e che faceva saltare e interagire i generi musicali, in ogni caso senza mai fissare le sue forme in schemi teorici. Mozart e il suo Don Giovanni appartengono a un universo che non è assolutamente «classico» nel senso estetico del termine, ma, al contrario, alla sua antitesi, che è l'universo barocco. Si potrebbe anche qualificarlo rococò, se la parola non fosse sempre interpretata a rovescio (e soprattutto in senso peggiorativo). I tentativi che si fanno dopo l'uscita del film per mostrare la «meravigliosa coincidenza» tra Palladio e Mozart mi sembrano partecipare della stessa evidente impostura. E. se si ammette l'argomentazione sociologi- • ca secondo cui nel XVIII sec. c'erano nobili che vivevano in queste case, ciò non impediscechequestaarchitettura annienta tutta l'opera con le sue simmetrie implacabili, fissa la macchina da presa e impone all'opera un appiattimento, una razionalizzazione che ne distrugge il senso. Ora, dato che si è voluto colmare tutti i vuoti dello spazio scenografico, cosi è stato necessario rispondere a tutte le questioni poste del libretto. E anche qui non si è avuta la mano leggera. Una frase di Gramsci appare all'imz10 del film: «L'antico muore, il nuovo non viene alla luce; in questo interregno sorge una grande diversità di sintomi morbosi». Dopo un Don Giovanni impotente, infantile, omosessuale, bisessuale, androgino e ,non so che altro, ecco un Don Giovanni gramsciano e anche brechtiano. È facile fare di Mozart, massone e contemporaneo del 1789, un rivoluzionario. E già stato fatto dieci volte e non ha mai persuaso. Ecco adesso un Don Giovanni proprietario terriero e industriale, la nobiltà decadente che canta Viva la libertà, il popolo alla soglia della rivoluzione ... Quanto al servitore negro, aggiunto, sembra, per esorcizzare l'angoscia del vuoto, condensa in se stesso la cristallizzazione di tutti i discorsi passati presenti e futuri su Don Giovanni: figlio bastardo di Don Giovanni e quasi una specie di aborto, immagine del popolo che si ribella, genio malefico, figura impassibile del destino, ecc. È garante di tutti i possibili, risponde a tutte le domande, e a tutte le aspettative. La sola cosa a mio parere che salva il film, in questo disastro di balorda razionalità, è la magnifica testa rapace di Ruggero Raimondi. Grande attore, potrebbe quasi farci dimenticare tante cadute di gusto (le ragazze nude di Playboy, i disegni dei titoli di testa, la catalogazione smisurata, la ridicola statua del commendatore) e tanti pesanti controsensi estetici. È il solo a riportarci un po' verso Mozart. Giacché è comunque alla musica che dobbiamo ritornare, a ciò che essa ci dice aldilà dello «scritto» di Da Ponte e questo fin dalle prime e violente battute dell'ouverture, in quella fosca tonalità di re minore, che in Mozart è nello stesso tempo segno della morte e ricerca angosciata della verità sessuale. Invece, la musica del filmci impedisce di sentirla. Non solo perché il film vi appiccica sopra un'orgia di immagini. ma anche perché la colonna sonora. passata al macinino dell'elettronica e delle «stereo Dolby» è sinceramente inascoltabile. A Ila saturazione delle immagini corrisponde infatti una reale saturazione del suono. Il livello sonoro imposto nelle sale cinematografiche è molto alto, superiore a quello di un'orchestra normale. Questo significa che le coloriture sottili indicate da Mozart sulla partitura non sono rispettate. I piano sono soffocanti, i fortissimo raggiungono livelli di decibel sconosciuti al tempo di Mozart. Gli acuti dei soprano rompono i timpani e per la maggior parte del tempo non si distinguono neanche, in questa mescolanza elettroacustica satura, i timbri degli strumenti musicali, pure poco numerosi. Ci vedo un disprezzo totale della musica di Mozart da parte dei tecnici del suono. A confronto, i collegamenti bruschi tra scene cantate e recitativi non sono che difetti secondari. Tutto ciò non dipende soltanto dalla gonfiatura abituale delle colonne sonore, né dalle speciali installazioni delle sale cinematografiche. Dipende anche dal modo di consumare la musica in genere. Il mezzo - impianto ad alta fedeltà, sonorizzazione di cinema e dancing- è ormai più importante del messaggio-la partitura: la moda della grande opera lirica, delle grandi voci spettacolari, della musica sinfonica, del disco, dell'alta fedeltà, traducono in modi diversi questo consumo sfrenato di rumore che si accompagna alla scomparsa della musica e delle voci da camera, del dilettantismo, della cultura musicale su partitura e strumento ... Cultura musicale di massa contro convivialità musicale... E questo probabilmente spiega anche perché critica e pubblico si siano accontentati cosl in fretta di un'interpretazione che non è certo mediocre, nell'insieme, ma che non è neppure veramente soddisfacente. Come molti dischi di opera oggi, questa versione soffre dell'eccessivo spezzettamento delle sedute di registrazione, del superlavoro di direttori e interpreti, della necessità di rapida fabbricazione della colonna sonora. Se Kiri Te Kanawa (Donna Elvira) è eccellente, non si può dire altrettanto delle voci di Ruggero Raimondi (Don Giovanni) e di Teresa Berganza (Zerlina), che sono pure conosciuti come grandissimi interpreti. Il lavoro degli altri cantanti è onesto e niente più, tuttavia con evidenti insufficienze in Edda Moser (Donna Anna), una volta sublime. Questi difetti sono dovuti alla direzione affrettata e dispersa di Lorin Maazel, alla sua scarsità di tempo o di rigore nella scelta tra le diverse registrazioni? Ci si sarebbe potuti aspettare in ogni caso qualcosa di molto meglio, e anche, perché no, un risultato vicino alle versioni di Fritz Busch o di Carlo Maria Giulini, con un direttore d'orchestra come Maazel che sa essere qualche volta sorprendentemente ispirato e un cast che è comunque uno dei migliori possibili attualmente. Questa interpretazione scucita e questo massacro acustico sono senza dubbio le pecche più gravi, perché toccano direttamente l'opera di Mozart: una versione eccellente ben sonorizzata avrebbe scusato molti difetti secondari. Non ci sarebbe niente di gravissimo nel sabotaggio dell'opera - Mozart ne ha visti ben altri - se il film per la sua presa di posizione estetica non corrispondesse poi a una tendenza attuale ben più inquietante, se l'estasi di taluni critici («Uno dei più grandi film del secolo>) non testimoniasse il progressivo instaurarsi di un «cattivo gusto> generalizzato, di cui le diverse mode «rétro> sono state segni premonitori e che il gusto del monumentale rischia di prolungare indefinitamente. Archeologia, gigantismo, pittoricità, lusso delle immagini, saturazione del senso ... ecco alcune caratteristiche dell'arte pompierista. L'accademismo non è più regionalista, familiare, patriottico, è diventato planetario. L'accademico, il monumetale sono sempre indici della vicinanza del potere. Tutti i gr.andifilm di oggi si assomigliano, tutti ci schiacciano sotto il peso di immagini troppo belle, inconfutabili, ben costruite, senza ambiguità, dove si riflette il nuovo ordinamento interiore delle multinazionali della cultura. Tutti pretendono di essere «The film>: vedere la pubblicità del film cli Losey; o anche Toscan du Plantier: «C'è stato Superman il film, ora c'è Don Giovanni il film> (è da notare l'acutezza del confronto). Il grado zero dello sguardo: quello del satellite delle telecomunicazioni. L'occhio e la voce del padrone. Il cinema di domani, un cinema teologico mondiale? «Culturale, audiovisivo e internazionale> sempre secondo la definizione del produttore ... E d è di questo che si tratta quando l'opera lirica filmata ci viene presentata come una specie di nuovo cinema di propaganda, quando ci viene spiegato che con questa operazione si vuole trovare uno sbocco alla crisi economica dell'opera lirica e «democratizzare> l'opera, permettere a milioni di persone di accedere alla «grande cultura>. Certamente Don Giovanni rastrellerà milioni di consumatori-spettatori, drogati di immagini turistiche e di disco-music. Ma perché bisogna amare particolarmente l'opera? E qualsiasi opera? Che significato può avere oggi questa infatuazione straordinaria per le grandi forme artistiche del passato? Che ne è proprig della «democrazia> quando il lusso delle immagini esaurisce tutti i significati, quando il rumore di fondo dei commenti copre l'opera originale, quando l'opera lirica filmata deve essere consumata con gli occhi chiusi e le orecchie tappate? Continueremo per molto tempo a sognare un cast ideale per questa opera immensa e impossibile che è il Don Giovanni. Forse la lettura della partitura sarà l'unico rifugio per gli appassionati di Mozart (si sarà ormai capito che ero uno di questi) contro il dilagare delle versioni brutte, aggressive, tonanti. Per quanto riguarda ilcinema, preferisco per parte mia Don Giovanni quando è strapazzato da Carmelo Bene, o il XVIII sec. sognato da Fellini. Per concludere, una frase di Georges Bataille: «La chiacchiera inutile - psicologica - a proposito di 'dongiovannismo' mi sorprende e mi ripugna. Don Giovanni non è ai miei occhi- più ingenui - che un'incarnazione personale della festa, dell'orgia gioiosa che nega e divinamente rovescia gli ostacoli>. A cui ne aggiungerei un'altra, questa di Kierkegaard: «Don Giovanni non deve essere visto,-ma ascoltato>. Traduzione di Mariarosa Mancuso
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