I giovani,pront~~enteinseguiti... Milano, Teatro Lirico Concerto di John Cage (2 dicembre 1977) Milano, Arena Civica Concerto per Demetrio Stratos (14 giugno 1979) Spiaggia di Castelporziano Primo festival internazionale di poesia (29130 giugno e 1° luglio 1979) N on sono un sociologo e ho poca stima per quelli che si ostinano a improvvisare sui giornali sociologie e antropologie delle nuove generazioni. Mi limiterò a un ragionamento che riguarda, più che i tre avvenimenti presi ad esempio, l'orizzonte in cui essi si sono determinati. Solo partendo da un ciclo storico si possono comprendere anche i fatti particolari che si sono prodotti all'interno di queste tre situazioni e che cosi spesso i commentatoriosservatori-antropologi si sono trovati a dover falsificare per far quadrare le proprie filosofie particolari. Ma sono proprio i commenti e le interpretazioni suscitati da questi avvenimenti a fornire la sintomatologia aggiornata della cultura dominante, del suo rapporto con il potere da una parte e i giovani dall'altra. Il rapporto fra la cultura e i giovani, il pubblico di massa dei giovani, è infatti l'elemento comune a tutti e tre gli avvenimenti. In ciascuno di questi eventi il 'pubblico' si è mostrato in forma diversa ed è divenuto una cosa diversa. Presi insieme, i tre episodi mostrano contemporaneamente la fine di ogni pretesa di 'egemonia' culturale sui giovani e la fine della cattiva letteratura del 'riflusso', che era essa stessa una pretesa di egemonia. Con gran dispiacere di molti, siamo di nuovo all'anno zero, come nel maggio 1968-che Scalfari ha recentemente dichiarato sepolto- tutti quelli che ci si erano provati prima di lui hanno poi dovuto ammettere che il nefasto «spirito del '68> era tornato. «Anno zero> perché, come nel 1968, ogni precedente egemonia culturale sulle nuove ge~ aerazioni deve riconoscere la propria debolezza. Ma tutto ciò che nel 1968 era ancora latente o indeterminato si è ora radicalizzato, tutte le possibilità di 'recupero' allora esistenti si sono bruciate. Sarebbe ora di mettersi il cuore in pace: lo spiacevole 1968 non finirà più, perché ha segnato l'inizio di un'epoca e continuerà a ritornare come un incubo di questa cultura e di questa società, ma ogni volta in modo più imprevedibile e più profondo. Occorre detestare il 1968 per le sue incoerenze. non certo per la sua coerenza rivoluzionaria di cui ci si vorrebbe sbarazzare per sognare in pace. Il sogno del 'riflusso' era questo sogno della falsa coscienza che vorrebbe continuare a vendere i propri prodotti che nessuno vuole più. L'Arena e Castelporzianoeventi in sé tutt'altro che giganteschi - sono bastati a interrompere questo cattivo sogno. La prova sta proprio nella vastità delle reazioni che i massmedia si sono trovati a registrare, sta in questo stupore. In fondo non era successo molto. Il mondo di quest'epoca è squassato da tempeste ben più grandi. che la stampa si degna appena di riferire. Tutti i giorni nelle fabbriche italiane succede molto di più. G uardiamo indietro agli scorsi dieci anni e troveremo facilmente la ragione di questo stupore. Ci hanno provato tutti a «recuperare» i giovani: adoratori del libretto rosso. psicosociologi. cantautori. burocrati di antica tradizione e nuovi burocrati di sedicenti partiti «rivoluzionari". nouveaux philosophes. ciellini e preti «arancioni>, speculatori non-violenti della fame propria e altrui. teorici della lotta armata e teorici del travoltismo. A molti questa doccia scozzese deve essere sembrata sufficiente a sterilizzare e drogare le nuove generazioni. Cosi il necrofilo Walter Tobagi (Corriere della Sera del 2 luglio)si precipita in Piazza Maggiore, a Bologna, a constatare che per i giovani l'unica prospettiva aperta è quella del suicidio. Gli piacerebbe! Ubriachi di quello che loro stessi distillano nei mezzi di comunicazione, questi intellettuali organici della borghesia finiscono per credere persino a quello che scrivono. Non si sono accorti che, una ad una, le diverse e uguali stirpi di recuperatori hanno dovuto confessare via via la propria impotenza. Cosi si svegliano di colpo dentro l'Arena di Milano o sulla spiaggia di Castelporziano. Ma non c'era il riflusso, Pannella, Travolta, il terrorismo? Ma questi da che parte vengono, da quale buco sono passati? Scrive Arbasino: «Non sono tanto d'accordo con le costernazioni e commiserazioni affiorate qua e là dopo gli esiti del festival poetico a Ostia e prima ancora del concerto per Demetrio Stratos. Le deplorazioni moralistiche sembrano abbastanza superflue, invece di una analisi realistica, materialistica, non già di 'costume', dei dati concreti>. Ben detto. Poi aggiunge: «Lo spostamento ha per fine principalissimo l'impedire che l'evento si compia: questo è il vero bisogno, questo il più forte desiderio> (la Repubblica, 3 luglio). Scrive Augias: «La notte di Castelporziano ha confermato una norma di comportamento -già collaudata qualche giorno fa all'Arena di Milano (concerto 'in memoriam' di Demetrio Stratos) e che a questo punto deve ritenersi generalizzata. A queste feste si va per essere, in realtà, non degli spettatori, ma dei protagonisti. Ha importanza minima che sul palco ci siano dei poeti, dei cantanti, dei mimi. Chiunque verrebbe circondato dalla medesima indifferenza e dagli stessi sgarbi» (la Repubblica, 30 giugno). Fin qui siamo in mezzo alle poche cose ragionevoli che si sono lette; più avanti Arbasino e Augias si sono sentiti in dovere di rivelare il proprio istinto di conservazione, il primo prevedendo che un eventuale arrivo di Beethoven in persona sarebbe coperto di merda, il secondo auspicando che, se proprio la platea deve prendere il posto del palcoscenico, almeno rispetti il senso dello spettacolo e impari a comportarsi come si conviene. Essi dimenticano che-i concerti di Beethoven e di Vivaldi sono sempre più frequentati dai giovani: il fatto che si vorrebbe nascondere è la ragione storica per cui non ci sono più né Beethoven né Rimbaud in grado di farsi rispettare. Dimenticano che è proprio il «senso dello spettacolo» ciò che i giovani vanno contestando ovunque. M a il punto centrale resta un altro. Dal rifiuto della «cultura borghese» del 1968 (cosi contraddittorio e debole nella sua apparente radicalità) siamo giunti oggi alla necessità del superamento della Cultura, cioè all'esigenza di sopprimerla realizzandola. Non si pensi che me la voglio cavare con un giro di frase preso in prestito da Hegel. La dialettica è già nel movimento delle cose presenti: tutti i commentatori - non solo Arbasino e Augias- si sono trovati in imbarazw nel dover spiegare contemporaneamente perché i giovani partecipino in massa agli eventi «culturali» e perché poi vi manifestino perlopiù indifferenza o rabbia. E perché - aggiungo io-scegliere proprio le manifestazioni culturali? Di fronte a questa contraddizione i nostri acuti osservatori - che, in verità, mediamente leggono troppo Giorgio Bocca e troppo poco Giorgio Guglielmo Federico Hegel - cercano qualche scappatoia nel moralismo, nel colore o nell'ironia. Sfugge loro che la risposta sta proprio nella contraddizione stessa, che costituisce il motore di una dialettica al lavoro da più di un decennio. I giovani (quelli .che non sono tali per l'anagrafe) vanno comprendendo sempre meglio quanto sia derisorio rifiutare la cultura «borghese» in cambio di un libretto rosso, di un nuovo «bigino» ideologico o della promessa di una qualche cultura 'alternativa' in costruzione fra San Francisco e Calcutta. Dunque vogliono la cultura, tutta la cultura (non solo quella pretesamente «di sinistra» o quella che i pensatori alla moda consigliano ai clienti dei supermercati), anche quella delle classi dominanti, perché storicamente la cultura è stata soprattutto prodotta dalle classi dominanti: Nietzsche non meno di Marx, Rimbaud come Dante, Vivaldi non meno di Guccini. Essi apprendono tumultuosamente e senza maestri inverosimili che la cultura diventa «progressista» o «rivoluzionaria» per l'uso che se ne fa e per la consapevolezza di chi la usa in rapporto alle proprie esigenze, individuali e collettive. E proprio per questo rifiutano la cultura, in quanto modo di produzione e di consumo, in quanto apparato e prodotto del lavoro «intellettuale» separato dal lavoro esecutivo cui sono condannati insieme alla grande massa della popolazione. Dunque i giovani vogliono precisamente ciò che rifiutano e nulla è più coerente di questo comportamento. Essi rifiutano la cultura perché ne vogliono realizzare le promesse che l'organizzazione culturale non può, per sua struttura, mantenere. Essi prendono sul serio la cultura, è la Cultura istituita che ha cessato di prendersi sul serio. Gli anni che hanno seguito il 1968 hanno visto un'espansione senza precedenti della «domanda culturale» fra i giovani, anche in direzione delle zone più impervie e precedentemente riservate ai consumi elitari. Questo processo non ha avuto nulla di lineare, ma ha proceduto nella confusione e nella contraddizione. La spinta al consumo culturale di massa è un risultato della società capitalistica moderna e della sua crisi, è un risultato dei pressanti tentativi di 'recupero' degli strati giovanili. Consumate meno benzina e più ideologia, meno carne e più macondo - diceva la «società dei consumi» nell'epoca della sua crisi. Il consumo culturale diventa consumo 'sostitutivo', risarcimento per le prospettive 'rivoluzionarie' becere e abortite, strumento di identità fasulla. Ma è proprio procedendo nel territorio e con le armi predisposte dall'avversario per il recupero che questo processo va acquistando radicalità e coscienza di sé. È un processo che implica necessariamente momenti di degradazione e disperazione, poiché, come è stato detto, il cammino della disalienazione passa necessariamente per quello dell'alienazione. Questi momenti sono stati spacciati per 'riflusso' ed erano soltanto punti di svolta, come ora si comincia a capire. S u questa strada un episodio significativo è costituito dal concerto di John Cage al Lirico, poco meno di due anni fa. Quelli che si sono meravigliati dei «sessantamila per Demetrio Stratos» dovrebbero meravigliarsi ancor di più dei duemila o tremila che sono accorsi a stipare il Lirico per un musicista come Cage che gli stessi «addetti ai lavori» stentano ancora a digerire. La tesi che fossero accorsi per «sopprimere l'evento» qui non regge. Io non so perché migliaia di giovani siano andati al Lirico quella sera, che cosa si aspettassero, se sapessero chi·era e cosa faceva John Cage. Quello che è certo è che per qualche decina di minuti si predisposero in silenzio e raccoglimento ad ascoltare il concerto. Sono così finiti nella trappola tesa loro da uno degli ultimi grandi provocatori dell'avanguardia del nostro secolo. che si mise a sillabare senza pietltEmpty Words (Parole Vuote) per due ore e mezza. Il 'pubblico' era costretto a scoprire le carte: ammettere di essersi sbagliato e lasciare la sala; ascoltare il «concerto»; interrompere con la forza la voce sommessa e disturbante; divenire protagonista della situazione. Quella sera il pubblico non poté rimanere 'pubblico' e non riuscì a fare nessuna di queste cose. In sala accadde di tutto, ma non riuscì nulla. La sconfitta delle cattive «attese culturali» veniva sancita dal fallimento dei ripetuti tentativi di interrompere violentemente il terribile e inerme vecchietto, lanciando petardi, invadendo il proscenio, spegnendogli la luce sul tavolino, togliendogli gli occhiali. Cage terminava tranquillamente la sua recitazione all'ora fissata senza che uno solo degli spettatori fosse uscitodal teatro. Quella sera migliaia di giovani confessarono le proprie debolezze nella critica della cultura, confessarono di . essere più vecchi del gentile vecchietto. Si vada a rileggere l'intelligente articolo di Roberto Calasso che analizza impietosamente le contraddizionni di quel 'pubblico' (Panorama del 30 dicembre 1977). Ma la lezione non era passata invano. Lo si sarebbe visto pochi mesi più tardi, quando migliaia di giovani e non giovani parteciparono in un clima di festa e di gioco al giro in terra emiliana del «treno preparato» dallo stesso Cage; una partecipazione felice, che faceva giustizia di ogni pretesa di mantenere l'autonomia del fatto artistico di fronte al 'pubblico'. Non ero a Castelporziano, ma leggo nelle cronache i problemi sorti dall'invasione sistematica del Palco, leggo che un gruppo di poeti ha infine deciso di organizzare un «servizio d'ordine» per difendere il Palco dal Pubblico e consentire la lettura del verbo poetico. Se le cose sono andate così, siamo ali' estremo opposto del concerto del Lirico, siamo di fronte alla pretesa della Poesia di difendere manu militari la sua autonomia istituzionale, alla Cultura che si rifiuta di sopprimersi e di realizzarsi. Non possiamo perciò meravigliarci che il mitico Palco sia infine andato distrutto. Anche per la Cultura sono giunti i tempi in cui due più due fa quattro: gli osservatori schifiti della «trivialità» del Pubblico dovevano però ammettere che i giovani trogloditi hanno imparato a contare. Se qualcuno di essi covava ancora qualche illusione intimista sulla Poesia, quale viene coltivata dalla maggior parte dei poeti o da Lotta Continua, sicuramente se ne è andato con le idee molto più chiare. L a cosa più difficile da capire è l'enorme quantità di articoli, commenti, lettere apparsi a proposito ùel concerto per Demetrio Stratos. È questo il fatto più sconcertante di quell'avvenimento: un concerto pop con 60.000 spettatori, in Italia, non è cosa di tutti i giorni; ma è rimasto un concerto dove non è accaduto nessun fatto particolarmente eclatante, dove il pubblico si è limitato a fare il pubblico. E bastata questa presenza massiccia, ùisincantata verso i divi della musica quanto incurante delle divisioni politiche di parrocchia, a far scattare l'allarme nei mass-media che percepivano confusamente in quella massa un fatto che li smentiva, senza appello. Si .:ra all'indomani delle elezioni, che erano state interpretate come segno di •riflusso' politico fra i giovani, dal momento che in Italia anche il tramonto del sole finisce d'ufficio sotto la voce
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