Una città - anno V - n. 40 - aprile 1995

Ma i ragazzi più emarginati, che mentalità hanno? Sono ragazzi molto vivaci, anche molto aggressivi. Buona parte di questi bambini li consideriamo a rischio, ma anche a vantaggio, perché hanno molta aggressività, ma hanno anche delle risorse. Buona parte di loro richiedono una presenza e un intervento che abbiamo anticipato sempre di più, partendo dai bambini di due anni con la ludoteca e cominciando a farli socializzare. Per quanto riguarda I'aggressività avevamo tentato una esperienza che poi si è fermata perché l'operatore è tornato a Firenze. Con lui avevamo messo a punto un progettino di teatralizzazione, per trasformare la lite, che è il linguaggio aggressivo delle mani, dei piedi, del corpo, in un linguaggio creativo di espressività. Lui, per due anni, ha fatto questo lavoro, prima al centro e poi dentro la scuola e l'ipotesi era: "dato che parlano con le mani, trasformiamo questo in possibilità di gestualità". Poi si proposero attività di animazione, sportive, doposcuola, anche se avremmo sempre preferito ampliare l'animazione dentro la scuola, perché il doposcuola l'abbiamo sempre vissuto in maniera problematica. La maggior parte dei nostri bambini hanno bisogno di essere sostenuti in questo raccordo con la scuola, in questa collocazione dentro la vita familiare. Ci vorrebbero incontri con le famiglie, ma purtroppo non sono frequenti come sarebbe necessario. La lotta alla mafia ha registrato dei successi, con gli arresti e i pentimenti. Sta cambiando qualcosa fra la gente? Purtroppo è stato messo in giro l'epiteto" pentito". Se si vuole offendere qualcuno gli si dà del pentito. Ci sono, però, altre cose pericolose, per esempio il toto-nero o le corse clandestine dei cavalli -anche per le strade cittadine in certe ore- perché la gente pensa che non ci sia niente di male: se lo fa lo Stato, lo facciamo anche noi. Ho avuto una conversazione con un ragazzo, in carcere, che mi ha teorizzato tutto il traffico di sigarette, e se gli dici che le sigarette le vende lo Stato e che noi dobbiamo pagare le tasse, lui ti risponde che il rischio di essere presi è già una tassa sufficiente e che per quello che lo Stato gli ha dato non ha nessun dovere. La madre di un ragazzo si offese perché diceva che lo stavo diseducando, non mandandolo al lavoro e portandolo ad una scuola che non dà niente, mentre lavorando nelle sigarette portava ventimila lire al giorno e non faceva niente di male. Qui c'è un problema culturale che noi non _percepiamo, diamo per scontato il senso dello Stato e invece a cosa ti puoi appellare con una persona che ragiona con queste premesse? E' molto difficile. E' quello che io chiamo spessore culturale dei problemi sociali perché spesso ci si limita solo agli epifenomeni, come per il fatto di dire che non lavorano abbastanza, non sapendo che non hanno proprio la mentalità del lavoro. Vogliono tutti il posto di lavoro fisso, perché a poco a poco è venuta meno l'imprenditoria, il piccolo artigianato, ed è venuto meno il senso dello Stato, della collettività, della legge. Il totonero e le sigarette fanno vedere come stanno le cose, come se ci fosse un mondo parallelo alla vita civile codificata nella Costituzione. Tu puoi al massimo dire che lo Stato ha prodotto il distretto sociosanitario che ti viene incontro, che ti aiuta. Solo allora lo Stato non è più una parola, ma un servizio concreto. Solo allora puoi rompere questo cerchio. Ma ci vogliono anche altri risultati. Tu sei prete e una parte del gruppo è formata da credenti. Quale concezione religiosa vi anima e in che modo vi aiuta nel vostro impegno nel quartiere? li primo principio è quello dell'incarnazione che viene invocato anche nei contesti ufficiali, cioè significa che Dio si fa carne, si fa uomo o si fa storia. Questo non significa che si fa storia in generale, ma si fa storia o geografia in quel paese o in quel particolare luogo, l'espressione "in quel tempo" che scandisce il tempo della liturgia per me è anche diventato "in quel luogo", perché le cose avvengono sempre in luoghi. Avvengono anche nell'intimità della propria coscienza, ma i fatti hanno un luogo, allora l'incarnazione come individuazione del luogo dove c'è il disagio con il quale bisogna confrontarsi, dove i problemi irrompono continuamente e quindi c'è I' esigenza di essere nell'altro, non di essere accanto all'altro o di offrirgli degli interventi, ma di viverne dall'interno i problemi. Noi non capiremo mai cosa significa per un bambino aver cominciato a scippare, cosa è passato per la sua mente, cosa ha vissuto da quando ha messo piede su questa terra, come mai ad un certo punto un ragazzino grazioso può diventare capace di fare di tutto. Magari suo padre si è ucciso in carcere o sua madre è morta quando è nato o ci sono precedenti giudiziari per i fratelli, tossicodipendenza e carcere. Se non interviene niente a interrompere questa catena è prevedibile che il ragazzino sia prenotato al carcere. Quindi incarnazione significa diventare un po' delinquenti, almeno mentalmente, per capire dall' interno che cosa è, altrimenti non possiamo capire. Una volta, un uomo che aveva commesso dei reati mi confidò che non sapeva che cosa era la pietà. Quando rubava a una vecchietta non si poneva il problema se fosse caduta a terra e si fosse rotta il femore. Allora io mi domando: quando un uomo si comporta così, cosa è avvenuto in lui prima? Perché non si riesce a garantire quel livello umano minimo che possa servirgli da momento critico rispetto a quello che fa? Quindi l'incarnazione, questa espressione molto forte della Bibbia, cioè Gesù che si è fatto peccato, che significa? Io credo che significhi capire il disagio del1'altro dall'interno, cosa che non riusciamo a fare quasi mai, perché non riusciamo a convivere con questo disagio. Il migliore lo vive per un momento, per quello che deve fare e poi rientra in se stesso, è sempre un incontro tangenziale. Però questa è una strada importante. Perché nella tossicodipendenza il recupero avviene attraverso gli ex-tossicodipendenti? Perché dall'interno conoscono. Questo non significa che è un cerchio chiuso e impossibile: ci sono sempre processi complessivi di comunicazione che rendono possibili i contatti. Poi, sul piano della concezione della chiesa, c'è il principio della territorialità, non nel senso banale dei confini parrocchiali né tanto meno nel senso dell'identità, ma significa che la comunità ha dei luoghi in cui deve incontrarsi, deve vivere, i bambini devono giocare. lo credo che i luoghi che non appartengano a nessuno sono quelli che si prestano ad essere utilizzati male. Quando una piazza non appartiene più a nessuno, perché non ci va più nessuno, allora è probabile che da lì passerà lo spaccio, lo scippo o altro. Quando quel Iuogo è vissuto da una comunità non accade niente perché la comunità stessa fa già da difesa, reagisce e interviene. Per noi è facile vivere fuori, sulla strada o sulla piazza, abbiamo un clima favorevole, quindi l'occupazione e l'intervento nel territorio, I' abbellimento di una piazza, un murales, anche se interventi parziali, sono un lavorare alla qualità dei rapporti tra le persone. Poi, di fatto, noi abbiamo impostato il lavoro a partire dai luoghi del territorio: c'era un monastero abbandonato e pericolante e lì abbiamo fatto il primo intervento fino a quando ce ne siamo appropriati . Così come con la sala cinematografica, che era abbandonata. Nelle piazze abbiamo fatto delle attività sportive al I' aperto, in mezzo alla gente, in una situazione popolare, sotto gli occhi di tutti, dentro il territorio. Una delle cose più belle è stato quando abbiamo sfilato in occasione dell'uccisione di Borsellino, la cui figlia, fra l'altro, lavora con noi come volontaria. In quei pochi riusciti a raccoglierci quel giorno, una quindicina, siamo partiti dal centro e siamo tornati in 150-200, abbiamo attraversato strada per strada, non sapendo cosa chiedere alla gente ed abbiamo capito che si poteva chiedere una cosa semplicissima: uscire dai balconi e, se se la sentivano, mettere un lenzuolo bianco, battere le mani. E la gente ha risposto. - nellafoto: Palermo, Albergheria Bi 110 eca Gino Bianco OSSERVAZIONI DI UN INSEGNANl'E GENll'ORE REFRAl'l'ARIO Al termine di un'altra stagione di lotte studentesche, mentre tutto nella scuola va come prima, peggio di prima, vorrei proporre qualche spunto di riflessione a insegnanti e genitori i quali non siano convinti: a) che le cose siano andate nel migliore dei modi possibili; b) che il reale obiettivo degli studenti sia il governo, la riforma di turno; c) che lo schieramento delle figure costituenti il mondo adulto si sia comportato come compete al suo ruolo. A me sembra che le cose non siano andate nel migliore dei modi possibili: lo testimoniano il senso di disagio, di amarezza, di impotenza che in molti, insegnanti e genitori, abbiamo provato -quest'anno più ancora dell'anno passato. Sono convinta che gli obiettivi politici di volta in volta escogitati dal movimento, e che ne costituiscono l'aspetto più appariscente, ne siano invece un ingrediente secondario, e fonte di equivoci: quando ad esempio su di essi si costituisce una unanimità di consensi che maschera agli occhi dei soggetti i termini reali del confronto. E' più facile lottare contro il governo di turno che contro l'insegnante di tutti i giorni. Ma l'amplificazione giornalistica più o meno strumentale degli aspetti politici, se dà agli studenti l'illusione momentanea di contare qualcosa, di essere qualcuno, rende più amaro e intollerabile il ritorno a una normalità che li mortifica; dove gli stessi insegnanti che sono stati solidali con gli aspetti politici della lotta, sono pronti alla vendetta sulla ribellione scolastica e generazionale. A me appare chiaro che il movente reale di queste cicliche agitazioni (che la vox populi dà per scontato si ripeteranno regolarmente ad ogni inizio d'anno) sia duplice: 1- la scuola è un luogo dove si sta male, ed è uno star male che non ha più un significato accettabile (la sofferenza può essere accettata, soprattutto da un giovane, solo se ritiene che ne valga veramente la pena); 2- la scuola rimane l'unico luogo dove può awenire in forme non distruttive o autolesionistiche un confronto tra generazioni che è di importanza vitale per la formazione degli adolescenti, ma che la società contemporanea non consente più, avendo abolito riti e simbologie ritenuti primitivi e crudeli senza sostituirvi nulla di altrettanto significativo. Non in maniera omogenea su tutto il territorio nazionale, ma in una misura che non può essere ignorata, negli intervalli tra un ciclo di agitazioni e l'altro, il rifiuto della scuola si esprime epidemicamente in un assenteismo di proporzioni paurose, che riduce la durata media di un anno scolastico -in molti istituti tecnici e professionalia un numero ridicolo di giornate; ammesso che si possa ancora parlare di "anno scolastico" quando il processo di apprendimento awenga a corrente alternata, due giorni sì e tre no. E' una realtà su cui si tace, così come specularmente si tace sul fatto che i licei statali si reggono su una mastodontica struttura privata di ripetizioni, tramite le quali le famiglie sono costrette a pagare lo scotto per un privilegio di status logoro, ma ancora funzionante. Basterebbero questi due aspetti per rendere le operazioni di valutazione finale, sia di promozione che di bocciatura, ugualmente arbitrarie, fino a quel trionfo dell'arbitrio e dell'ipocrisia che è l'esame di maturità. Ma riconoscere pubblicamente queste realtà equivarrebbe, più o meno, a una dichiarazione di bancarotta (fraudolenta) daparte dell'istituzione scolastica. Che le periodiche esplosioni del movimento siano l'autolegittimazione in forma politica di uno spontaneo ed endemico rifiuto di massa lo si constata nella fase finale quando, esauritasi la mobilitazione politica, l'obiettivo esplicito diventa "arrivare a Natale": cioè portare a compimento l'abolizione dell'anno scolastico, almeno nella sua prima metà. Coloro che guidano la lotta inquesta fase sono solo in parte gli studenti politicizzati, più spesso sono coloro che sentono di avere il mandato, da parte di una massa che può così tranquillamente starsene a casa, a "sospendere i lavori": puramente e semplicemente. La natura inconscia e ambigua di questo mandato spiega l'assenza di ogni regola democratica nel rapporto tra occupanti e massa: violazione del principio di maggioranza, violazione sistematica del voto assembleare ecc. Un aspetto interessante è che, mentre la parte politica del movimento viene gestita per lo più dai "grandi" delle ultime classi, membri dei comitati che tradizionalmente dominano nelle scuole e che usano lo stato di agitazione per cooptare dalle classi inferiori i loro futuri sostituti, la spinta di massa più genuina -pur fra timori ed esitazioni- viene dai "piccoli" del biennio, che vivono questa esperienza come la loro iniziazione allo scontro generazionale. Essendo i più dipendenti dall'adulto, sono anche i più bramosi di emanciparsene, e traggono la maggiore soddisfazione, mista a paura, dal cacciare il professore fuori dalla porta (chi ha in casa i fratellini e le sorelline della scuola media può testimoniare quanto desiderino passare alle superiori per poter occupare a loro volta). Se questa analisi è esatta, occorre chiedersi: come reagisce il mondo adulto, chiamato in causa globalmente e non solo nei ruoli implicati dalla scuola? Mi sembra che l'atteggiamento del mondo adulto sia contrassegnato da una generale abdicazione alle proprie responsabilità, giustificata o con l'adesione agli obiettivi politici del movimento, o con la necessità del dialogo. Entrambe le giustificazioni hanno lo scopo di eludere il conflitto, e la parte che inesso ci tocca in quanto adulti. Per conoscersi, per verificare la sua immagine, per costruire la sua identità l'adolescente ha bisogno di scontrarsi con noi, ma ha altrettanto bisogno che l'oggetto del suo attacco sia solido, non receda e non rinunci alla propria identità. Il problema della formazione dei giovani nella attuale società è enorme e supera di molto l'ambito scolastico; tuttavia la scuola ne è - ancora e molto più di quanto si dica- parte integrante. La scuola non può avere la presunzione di rimediare ai mali che in questo campo si producono fuori di essa, ma non può nemmeno scaricarsi delle responsabilità che le competono e cumulare il proprio al danno generale. E poi giustificarsi dicendo che è tutta colpa della televisione, capro espiatorio di tutte le inadempienze. E' inutile che l'insegnante si trinceri dietro la figura di professionista delle tecniche di trasmissione di una piccola porzione di sapere, quando nel momento in cui entra in classe e saluta (se lo fa) i suoi compagni di prigionia, viene da essi immediatamente investito di significati, proiezioni, sentimenti che riguardano prioritariamente la sua figura di adulto e di educatore. Per quanto la si voglia esorcizzare, rimuovere, mettere sotto i piedi, questa è la verità. Una riflessione, un dibattito su che cosa significa oggi educare dovrebbe essere il compito primo nella formazione dell'insegnante, che oltretutto è molto spesso contemporaneamente genitore. Un aspetto cruciale dei sistemi educativi attualmente più praticati è quella combinazione di permissività e mancanza di responsabilità che lascia il giovane disarmato di fronte ai compiti che lo attendono, relegato in una posizione perennemente infantile e dipendente. Si cresce scontrandosi con i propri errori, assumendosi responsabilità che comportano un prezzo da pagare per le proprie scelte: ciò comporta che genitori e insegnanti si accollino tutta la fatica dell'educare, il rischio della libertà garantita, il disagio di essere controparte e non solo l'onnipotente dispensatore di beni e di sapere. Sintetizzando in una formula, al ragazzo di oggi tutto o quasi è permesso, niente o quasi è garantito di ciò che è vitale per la sua maturazione all'età adulta, il suo diritto a costruirsi la propria identità e la propria vita. Da questo punto di vista l'esperienza del movimento così come si viene configurando inquesti anni (mi sembra che i paragoni cui si abbando- ' nano così volentieri i nostalgici delle agitazioni passate siano del tutto fuori luogo) offre un terreno di osservazione molto importante a chi lo voglia guardare al di fuori degli stereotipi, sia dal punto di vista dei bisogni generali che esprime, comuni all'intera massa degli studenti, sia per la grande varietà di comportamenti che al suo interno si sviluppano, e che sono anche degli indicatori dei risultati educativi cui i diversi gruppi sono pervenuti attraverso la loro esperienza familiare e scolastica. La parola "autogestione" esprime il bisogno di contare su se stessi, di fare qualcosa di propria iniziativa, di contrattare i reciproci ruoli, i tempi e i modi del processo di insegnamento/apprendimento: tutte cose che la normalità scolastica non consente. Essa infatti viaggia per lo più su due binari paralleli: il primo è quello della sottomissione imposta e pretesa al sapere e al potere -entrambi imperscrutabili- del professore ("voi dovete stare zitti e ascoltare", "tu non devi pensare, devi studiare" : sono due frasi pronunciate nell'anno di grazia 1994 indue licei classici distanti fra loro un migliaio di chilometri sull'asse della penisola italiana; entrambi gli insegnanti che le hanno pronunciate sono probabilmente convinti di avere un ottimo dialogo con i loro alunni, è un vizio abbastanza comune fra i docenti quello di scambiare per dialogo il loro monologo). Su questo binario, la scuola è una struttura cieca e sorda che mantiene il ragazzo nel ruolo di in-fante, con una sistematica umiliazione della sua autonomia e del suo rispetto di sé. I ragazzi che accettano questo trattamento sono quelli che nei verbali dei consigli di classe vengono tautologicamente chiamati "scolarizzati". Poi ci sono i "non scolarizzati" di varie sfumature, che dell'in-fanzia presentano la gamma dei comportamenti più primitivi: negazione e fuga dalla realtà, narcisismo megalomane; bugia sistematica e sistematica sottrazione ad ogni compito che non abbia una immediata gratificazione emotiva; aggressività e invidia; impegno costante nel realizzare e superare le peggiori aspettative dei docenti, dei presidi, dei bidelli ecc.: tutti questi comportamenti, frequenti soprattutto nei bienni degli istituti tecnici e professionali, hanno loscopo di difendere esalvare le briciole di una autostima compromessa e forse distrutta da anni di insuccesso scolastico (nonché familiare). li loro cieco sforzo di destrutturare il contenitore scolastico si alterna continuamente alla richiesta di un potere forte che li sappia limitare: in questa perenne oscillazione si perde ogni possibilità per loro di maturare. Ad essi la scuola riserva la punizione, l'indifferenza, a volte il disprezzo, infine l'esclusione: comunque nel suo funzionamento normale è incapace di dare risposte al loro problema. Che cosa accade quando scolarizzati e non scolarizzati si ritrovano insieme a dover gestire una situazione di libertà? Ecco una domanda la cui risposta deve provenire da una analisi attenta, scuola per scuola, dei comportamenti e delle dinamiche posti in atto dagli studenti, e dei rapporti instaurati fra essi e il corpo docente: caratteristica dell'autogestione è infatti la compresenza dei due soggetti e dei due ruoli, una compresenza difficile, continuamente in bilico tra il ripristino del potere forte (a cominciare dall'insegnante che si mette a fare una lezione ex cathedra sui progetti di riforma ministeriale) e la destrutturazione totale (la classe organizzata come una bisca di tressette mentre l'insegnante contempla il registro vuoto). Da tale analisi, in particolare da quella degli esempi più costruttivi, dovrebbe prendere le mosse la risposta alla domanda: quale ruolo dovrebbe ricoprire l'adulto -nella fattispecie l'insegnante, ma anche il preside (nonché il corpo dei non-docenti, che sarebbe ora venissero coinvolti seriamente nel processo educativo, unica strada per capovolgere un atteggiamento verso la scuola quasi sempre ostruzionistico o servile)- in una situazione di autogestione, per garantire agli studenti il loro diritto ad imparare ad essere autonomi, senza venir meno al proprio ruolo che è essenzialmente quello di evitare che i giovani nei loro sforzi " si facciano male"? E soprattutto: come agire perché i bisogni sacrosanti impliciti nella pratica dell'autogestione vengano integrati nel normale funzionamento della scuola? Ilproblema successivo èquello posto da quell'altro tipo di ribellione che è l'occupazione delle sedi scolastiche. Nel dizionario etimologico occupare (dal latino capere = prendere), ha i significati di "invadere un luogo e tenerlo per sé, ingombrare o riempire uno spazio, venire ad abitare" (quest'ultimo tratto dall'opera di Dante). Tutti e tre questi significati sono presenti nelle occupazioni studentesche, nelle quali l'uso della kappa sottolinea l'aspetto militare-aggressivo del primo significato; il secondo richiama la sostituzione radicale degli abitanti e delle attività tradizionali, dai quali lospazio viene svuotato per essere riempito di altro; il terzo significato richiama l'antitesi con l'abitazione, cioè la casa: andare a dormire nella scuola occupata è il punto d'arrivo della emancipazione dal nido familiare. L'occupazione incarna più di ogni altra cosa l'aspetto di ribellione generazionale e di rito di passaggio di queste agitazioni giovanili. Lo è stata anche in ,passato, ma oggi rivela anche un disperato bisogno di avere degli spazi propri dove fare esperienze, ciò che è negato quasi completamente ai ragazzi nelle nostre città. Quali sono i comportamenti giusti da tenere in questa circostanza? Nei tempi andati non si ponevano questioni: la risposta era immediata e univoca, repressione. Ciò comportava l'innesco di una spirale ascendente di azioni e controreazioni, negativa da molti punti di vista. Un aspetto positivo c'era, ed era il fatto che il mondo adulto nella sua ottusità si presentava però compatto nel difendere il suo potere e anche i suoi valori: era un awersario identificabile e forte, con il quale valeva la pena misurarsi. Niente di tutto ciò oggi. E' possibile che tra quell'ottusità repressiva e questo ipocrita lasciar fare, non esista una dignitosa via intermedia? Abbiamo da una parte una tribù che fa una dichiarazione di guel'l"a - simbolica ma neanche tanto, l'occupazione configura anche una violazione del codice- al potere scolastico, e di emancipazione dal potere familiare. A tale dichiarazione di guerra il fronte awersario risponde non solo sgombrando immediatamente il campo (e anche piuttosto volentieri, perché è un campo dove si sta con malagrazia), ma applaudendo, portando pasti caldi per rifocillare i combattenti, versando oboli per forgiare gli strumenti bellici (volantini, striscioni, megafoni), partecipando con entusiasmo alle manifestazioni guerresche, e così via. Oppure restandosene a casa a preparare la rivincita. Se fossimo uno di questi combattenti, non ci sentiremmo presi in giro? Autolegittimandosi con il pretesto "il nemico non siamo noi, è il governo", oppure paralizzati dalla paura di essere definiti repressivi o addirittura fascisti, presidi e insegnanti abbandonano il campo senza interessarsi a quali dinamiche occupino lo spazio lasciato vuoto, ·e sono in molti casi dinamiche distruttive; un belligerante lasciato a se stesso, con chi se la deve prendere? Quanto ai genitori, quelli che non si identificano con i figli, per nostalgia, invidia o che altro (anche questo è un comportamento assai diffuso, e altrettanto poco responsabile), assistono alla soppressione di mezzo anno scolastico mugugnando impotenti (molti chiedendosi a quale scuola privata iscrivere i figli per salvaguardare il successivo anno). Non è tutto ciò, infine, nei suoi termini reali, un messaggio di sostanziale indifferenza, il più deleterio degli atteggiamenti che il mondo adulto possa adottare nei confronti della nuova generazione? Un piccolo esempio di pedagogia della libertà responsabile. Un liceo classico napoletano: gli occupanti contrattano la riconsegna della scuola con la garanzia che fino a Natale non ci saranno verifiche né voti, e un'ora di assemblea (leggi: di respiro) al giorno. Una professoressa vogliosa di vendetta interroga una ragazza e le ammolla un tre. Il Comitato studentesco per la prima volta prende il coraggio di misurarsi non con il governo lontano ma con l'autorità vicina, e chiede un'ispezione contro chi non ha mantenuto i patti. A questo punto si scopre che durante l'occupazione sono state distrutte alcune apparecchiature elettroniche. Il Comitato fasapere che la ragazza in fondo aveva i suoi torti, e si sguinzaglia per le classi ingiungendo: "guagliò, domani portate tremila lire a testa". E' una storia minuscola, ma una parabola amara che sintetizza un intero sistema educativo, forse un'intera società. Carla Melazzini UNA CITTA' 5

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