Una città - anno III - n. 25 - settembre 1993

un mese di agosto Allora è vero che /'~dio celava il rispetto, la paura l'accettazione~ Il fervore improvviso.dei preparativi per imbandire un tavolo di pace rinfocola la speranza negli uomini di buona volontà. E allora anche il ricordo di chi perse la vita in giovane età si può finalmente addolcire nella preziosa e rara consolazione che i sacrifici non sono stati vani. Ma voltando pagina che tristezza. Di fronte all'altro tavolo di pace si resta attoniti. Mentre per la seconda volta nel secolo, in unpunto dell'Europa, s'è levata la , richiesta d'aiuto più straziante, quella di essere bombardati, ormai tutti aspettano solo che il rappresentante di decine e decine di migliaia di innocenti uccisi, mutilati, umiliati, affamati abbassi la testa. Un lord miserabile e collaborazionista gli ha ricordato con impazienza e sufficenza che è lui lo sconfitto, che faccia meno storie. In Europa i tre grandi dignitari dei diritti umani hanno continuato a tacere. E dopo aver fatto a gara nei "riconoscimenti", quando l'aggredito ha chiesto ripetutamente e disperatamente di poter almeno comprare armi per difendersi, hanno fatto finta di non conoscerlo. Oltre che miopi e cinici, codardi e traditori della parola data. Commosso, uno di loro, alla fine, ha mobilitato l'aviazione per accaparrarsi una piccola moribonda. Tutti ora volgono lo sguardo al giovane presidente che vorrebbe governare il mondo. Ma in quante riunioni già gli aggressori avranno riso delle sue minacce a vuoto e preso coraggio per nuovi massacri? Alla fine cosa farà? Si imboscherà per la seconda volta? In tal caso, prima o poi, qualche passante irakeno rischierà la vita. Per il resto i mercenari della pace continuano a passare legiornate sui loro carri armati bloccati da qualcuno, fioriscono i commerci del kanada di Sarajevo, e, di sera, da una porta della caserma c'è chi esce con qualche scatoletta di cibo nella borsetta. E noi? Niente, abbiamo assistito a uno sterminio. Ora sappiamo quanto sia facile non far niente. E se domani ci toccherà riverire i criminali di guerra, in compenso ci sarà risparmiato lospettacolo dell'apertura delle fosse comuni. Chi le ha chiuse ha vinto. Ma almeno, quando il mussulmano si piegherà a firmare quella carta, che siano i vili, tutti noi, ad abbassare gli occhi. E che la storia ci perdoni quella pace risparBmiandoci le sue co seguenze r~ - O • L'insostenibile schizofrenia fra lo stupendo lungomare di Tel Aviv e, a due passi, la terribile situazione dei territori occupati. I veri problemi inizieranno dopo la pace. La somiglianza ormai profonda fra israeliani e palestinesi e fra sionismo e movimento di liberazione palestinese. Lo scenario avveniristico ma naturale di una confederazione fra Giordania, Israele e futuro stato palestinese. Intervista a Wlodek Goldkorn. Questa intervista a Wlodek Goldkorn, giornalista e saggista, è statafatta ovviamente prima che "precipitassero gli eventi" verso un accordo di pace. Crediamo che mantenga intatto tutto il suo interesse non solo perché motivava un grande, e allora anche sorprendente, ottilnismo che oggi si rivela del tutto giustificato, ma perché pone sul tappeto tutti i problemi che la pace porterà con sé, ma che da domani finalmente potranno cominciare ad essere affrontati. Pensata come un 'intervista sulla possibilità dei popoli di convivere insieme, questa riguardante la Palestina è la prima parte. La seconda parte, riguardante l'Europa, verrà pubblicata sul prossimo numero. Come vedi la situazione in Israele e le prospettive di pace? Ho la convinzione molto semplice e ottimistica che nel giro di pochissimi anni si arriverà alla soluzione di due stati, uno israeliano e uno palestinese, e ad una specie di confederazione fra Israele, il futuro stato palestinese e la Giordania. Ne sono convinto per dei motivi che sono molto complicati. Intanto va detto che la Giordania è un'incognita, re Hussein è malato di cancro e alla sua morte potrebbe succedere di tutto. Personalmente credo che non succederà nulla, sia perché, appunto, è un'incognita preannunciata da tempo e a cui, quindi, la gente è preparata, sia perché a nessuno oggi interessa una destabilizzazione della Giordania e quindi dell'interaareadel MedioOriente. li processo è contrario, va verso la stabilità. Per quanto riguarda Israele sono convinto che agli israeliani stia succedendo quel lo che successe ai francesi rispetto ali' Algeria o agli americani rispetto al Vietnam. Stiano arrivando, cioè, al punto in cui la gente dice: "in fondo chi ce lo fa fare", "non ne possiamo più". E' una situazione che in Israele a nessuno piace, se non ai coloni o a gente molto motivata ideologicamente. Se prendi una scena di vita quotidiana, per esempio vai sul lungo mare di Tel Aviv, dove ci sono i caffè, i ristoranti, la gente che passeggia, i russi che suonano, i giocolieri, sembra di essere a Parigi con in più il mare ed è bellissimo, con la gente che sta nei caffè a discutere dell'ultima mostra che è stata portata da Dusseldorf o dello spettacolo arrivato da Londra; poi, però, a40chilometri da lì, c'è l'Intifada e ci sono altre leggi. E' una schizofrenia che la gente fa fatica a reggere. E' appunto la stessa cosa che successe agli americani quando vedevano in tv il Vietnam, con la differenza che in Israele non lo vedono in tv, ma è lì, dietro l' angolo. L'esercito israeliano è formato in gran parte da soldati della riserva, da gente, cioè, che una volta all'anno fa sei-sette settimane di servizio militare, da normali padri di famiglia che stanno facendo carriera, hanno figli, hanno una casa, e che una volta l'anno devono andare a Gaza a fare delle cose. A me è capitato di leggere una lettera che dei soldati della riserva, dopo il loro periodo di servizio militare, avevano spedito al primo ministro, dove dicevano che a Gaza non ci sarebbero più andati. Ho chiesto all'animatore di questo gruppo il motivo, cosa fosse successo. E la sua risposta è stata che non era successo niente più del solito, ma che si era accorto che in Gaza diventava fascista. "E se sono fascista in Gaza lo sono inevitabilmente anche a Tel Aviv. A me degli arabi non è che mi freghi molto, ma del mio rapporto coi miei bambini e con mia moglie sì, molto. E poiché quello che mi costringono a fare in Gaza influisce nei rapporti con mia moglie e i miei figli, io non ci voglio tornare". Credo che sia più o meno il processo che è avvenuto in America col Vietnam, cioè la crescita di una grande voglia di andarsene da lì. E questa grande voglia io credo si inserisca su un processo globale di stabilizzazione del Medio Oriente. Dopo la guerra contro l' Irak iI processo è verso la stabilizzazione, cioè il contrario di quello che c'è in Europa. Ma una pace raggiunta in questo modo, per stanchezza, non rischia di essere una pace debole, mediocre? Intanto credo che la pace non richieda virtù eroiche, ma che, in un certo senso, richieda la mediocrità, l'accettazione del compromesso, dei limiti, dei confini di se stessi. Per esempio c'è un gruppo pacifista israeliano, formato da soldati della riserva, che si chiama "Yesh Gvul", che vuol dire "C'è un limite". C'è un limite a noi stessi, c'è un limite a tutto. In realtà io credo che i veri problemi aniveranno dopo la pace. Perché lì, a differenza del Vietnam che era lontanissimo, ma anche dell'Algeria, lo stato palestinese che sorgerà sarà a 18-20 Km da Tel Aviv. Perché in Israele vivono 700800 mila arabi palestinesi che non si sa se vorranno rimanere una minoranza nazionale in Israele o se vorranno una specie di autonomia. In fondo il vero problema, se vogliamo guardare più lontano, sarà la divisione in Israele tra coloro che vogliono la pace per divorziare definitivamente -Gaza e Cisgiordania addio e a non rivederci mai più- e quelli che vogliono la pace per poter vivere insieme con i palestinesi e non solo l'uno accanto all'altro. Molti vedono, cioè, i due stati indipendenti come una fase che può anche durare per sempre, ma che comunque non comporta la separazione totale, ma sia un modo di vivere insieme. Queste sono due culture fortemente presenti fra gli israeliani e completamente opposte, e che, se oggi stanno insieme nel "campo della pace", come dicono loro, un domani arriveranno allo scontro. Entrambi gli israeliani vogliono la pace con quello di Hebron, ma uno dice "io a Hebron non ci andrò più e non voglio che quello di Hebron venga aTel Aviv", l'altro dice "no, io a Hebron voglio continuare ad andare e ho piacere che quello di Hebron venga da me, in condizioni di parità". lo vado ancora più in là: sono convinto che i palestinesi, una volta ottenuto lo stato nella Cisgiordania, in Gaza, cioè nei confini del '67, chiederanno di tornare a Haifa, eccetera ... Sono convinto che i discorsi dell'estrema destra israeliana su questo punto siano veri. E' evidente che. una volta che saranno nati i due stati, lo spazio fisico non

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