Una città - anno II - n. 18 - dicembre 1992

Su questo giornale, fin dai suoi inizi, ci siamo impegnati a ricordare le vittime dell'odio razziale, contro una dimenticanza che ci sembrava colpevole, disonorevole e miope. Ma non potevamo mai immaginare che prestissimo avremmo ricominciato, ne/l'Europa del dopo muro, a contare le vittime di quell'odio. Ora, per rendere permanente questo impegno, alcuni redattori del giornale, con altre amiche e amici, hanno deciso di promuovere un centro di studio e iniziativa di cui pubblichiamo qui sotto il manifesto. 11 CENTRO11A ROSIMBAUM Xenofobie e rauismi, guerre civili e guerre religiose. L'antisemitismo che ritorna da un passato rimosso, dimenticato o reso sterile dalla retorica. Nell'insicureua di un presente e di un futuro sempre più confusi e difficili, ebrei, neri e zingari tornano a essere, in Europa, capri espiatori a cui 4a,rela caccia. E questo nell'indifferenza a cui ormai siamo abituati. Sul finire del secolo le cose non vanno bene. Nell'impossibilità di avere altri punti fermi all'infuori della ripulsa di ogni prepotenza, ci proponiamo di incontrarci nella curiosità e nellafrancheua, di discutere efar discutere. Di tornare a leggere. Di tentare di rendere produttiva la propria confusione mentale. Di volgere lo sguardo indietro per combattere la smemorateua. A partire dai "campi", l'esperienza estrema, segno distintivo del secolo. Per tentare di capire quel che ci è successo. Per riascoltare, "liberi da ogni tradizione", chi nel secolofu inascoltato. Raccontarsi storie, raccogliere testimonianze,/ ar circolare qualche libro, discuterefra giovani, meno giovani eanziani. Un piccolo centro della memoria. Nel nome di Lea Rosembaum, perseguitata ignota, che dopo aver attraversato l'Europa e un mare, fu risospinta verso il centro del gorgo. E si fermò da noi. Forlì 5 settembre, 17settembre, 1944 ... P.articolannentetoccante è la vicenda dei coniugi polacchi Israel Amsterdam e Lea Rosembaum. I due nel 1940, si erano imbarcati a Trieste per raggiungere,via Siracusa, Bengasi.L'idea era di incontrarsi conaltri fuggitivie organizzareda là una partenza verso la Palestina tentandodi aggirare il blocco navale inglese che impediva lo sbarco agli ebrei provenienti dall'Europa. Il gruppo, che contava 302 persone, rimase purtroppobloccatoa Bengasi a causa dell'entrata in guerra del- · l'Italia e, alla fine di settembre del 1940, fu portato in Italia nel campo di concentramentoperebrei stranieri di FerramontidiTarsia. Daqui, gli Amsterdamfurono trasferiti al nord in internamentoa Forlì e, successivamente, imprigionati nelle locali carceri (la sorte volle invece che quanti rimasero internati a Ferramonti fossero tra i primi ad essere liberati e salvati dalle truppe alleate in avanzata, a metà settembre del 1943). dal Libro della Memoria, di Liliana Picciotto Fargion, Mursia Germania. L'ostello dove sono morte bruciate vive le due bimbe turche e la madre un centro di ricerca e studio, di documentazione e di iniziativa sul razzismo e la • memoria. PROGRAMMA DI AfflVITA' -Una biblioteca circolante, con raccolta di riviste e articoli, sala lettura e rassegna stampa. -letture periodiche di testi letterari e saggistici -l'organizzazione di dibattiti, piccoli seminari o incontri con autori -un'attività di videoforum - l'organizzazione di iniziative pubbliche, cittadine. -offrire un punto di riferimento, a insegnanti e studenti, per tentare di combattere nella scuola la retorica e rendere vivo un ricordo che serva anche a una riflessione sui problemi di oggi. Il centro avrà sede in p.zza Dante (del Vescovo), 21 e sarà aperto tutti i giorni dalle 17 alle 19. Chi volesse essere informato delle sue attività può telefonare al 21422 (0543). ... L'innegabile perdita della tradizionenon implicaaffattounaperdita del passato, poiché tradizionee passato non sono la stessa cosa, come vorrebbero farci credere quanti credono nella tradizione da un lato e quanti credono nel progresso all'altro: per cui finiscecon l'essere indifferente che i primi deplorino questo stato di cose e i secondi se ne rallegrino. Perdendo la tradizione abbiamo perduto il filo che ci guidava sicuri nel vastodominiodel passato. Ma questo filo era anche la catena che vincolavaogni generazionesuccessiva a un determinatoaspetto del passato.Forsesoltantoadesso il passatoai apredavantia noi con inattesa freschezza,per dirci cose che nessunofinoraavevaorecchieper ascoltare. Ma non si può negare che senza una tradizione saldamente radicata (e tale saldezza si è perduta già da alcune centinaia di anni) l'intera dimensione del passato risulta compromessa. Corriamo il rischio di dimenticare: e questo oblio, a parte i contenuti che potrebbero andar perduti, equivarrebbe,umanamenteparlando,a restareprivi delladimensione della profondità nell'esistenza umana. Infattimemoriae profondità sono lastessacosa, omeglio, l'uomo può raggiungere la profondità soltanto attraverso la memoria. lune,li .28 dicembre ore .20,30 "Tra passato e futuro", Hannah Arendt, Garzanti CO LEffURE DA PRIMO LEVI con Alfredo RoseHi lune,li J 8 gennaio ore .20,30 DIBAff'ITO: "antisemitismo e questione palestinese". Partecipano Andrea Canevaro e Milad Basir 10 ru 01· sul tema dell' "aécoglienza dell'altro" un'intervista a Vifforia Sanese, psicologa A una conferenza sul tema dell'accoglienza dell'altro lei ha fatto un discorso tutto incentrato sull'accoglienza di sé. Credo che parlando di accoglienza noi tocchiamo il nocciolo dell'esperienza di ogni uomo. Infatti l'accoglienza implica non solo un sentimento (di generosità, apertura, disponibilità), ma una relazione con l'altro in cui la totalità della mia persona, così come quella dell'altro, si trovano ad essere coinvolte. Dire relazione, io e un altro, io e tu, è dire persona. Al ' origine della nascita di una persona, anche solo da un punto di vista biologico c'è una relazione. Ed anche tutto il processo di crescita psicologico avviene attraverso la relazione con i propri genitori, una relazione che sarà dapprima di attaccamento, poi di separazione per potersi individuare come persona ed entrare in rapporto con se stessi. Ecco, siamo arrivati al punto cui faceva riferimento lei nella sua domanda, l'accettazione di sé. Io penso che il primo, fondamentale, compito che come uomini ci troviamo addosso sia la responsabilità nei confronti della propria persona. Ognuno di noi infatti può rispondere realmente solo di sé, può esercitare solo la propria libertà e senza questa capacità di stare di fronte a se stessi è un'utopia parlare dell'accoglienza del- !' altro. Certamente non è questo lo sguardo che la cultura di oggi porta alla persona. Nella cultura dominante la persona non esiste come relazione, ma come individuo, oppure come una struttura simbiotica, un rapporto fondato sulla uniformità, sulla censura di tutto ciò che è diversità. Ma vorrei essere più esplicita su questo punto perché è troppo importante. Da una parte noi abbiamo un'immagine di individuo, definito non già da una relazione, ma dalla sua assoluta autonomia, che vive nell'assenza di limiti, in un immagine di sé onnipotente, tanto fantasiosa e illusoria quanto ormai affermata. E contemporaneamente, dal!' altra parte, consciamente o inconsciamente, serpeggia un'immagine ideale di uomo, di vita, di relazione come simbiosi, equilibrio, armonia del rapporto dove tutto deve coincidere. Mentre, invece, l'unità nella relazione è l'esaltazione drammatica e costruttiva della diversità. Nella coppia di oggi questo è evidentissimo, così come nel rapporto coi figli. Per esempio, bisogna pensarla allo stesso modo, e per affermare un simile ideale (che è falso), si devono tagliare via tantissime cose reali della vita. Quindi oggi l'uomo è diventato potentissimo, ma ha perso la forza dell'esistere. Il suo esistere non ha più una dimensione drammatica, non è più dentro quell'orizzonte infinito, in cui, appunto, diventa drammatico l'essere vivo, l'essere creatura, l'essere limitato. E infatti oggi l'ideale non è mai drammatico. Cosa intende per dramma? Il dramma di essere "uno e uno", e contemporaneamente strettamente legati. L'eliminazione del dramma è l'eliminazione di una delle parti in conflitto. O siamo uno, ognuno con la sua libertà, eccetera, o siamo totalmente condizionati, siamo insieme, diventiamo un "due", un "noi" magmatico. Il famoso "noi" di madre e figlia, il "noi" della coppia, che è simbiotico, patologico ... Il dramma c'è quando l'io e il tu sono insieme e distanti nello stesso tempo, quando si è, come anche noi qui, assolutamente familiari e assolutamenteestranei. Mentre il "due", il "noi" ci spostano sempre da un'altra parte. Lo dico alle coppie che vengono da me: la coppia non esiste. Esistono un uomo e una donna che liberamente scelgono di costruire un particolare tipo di relazione. Non esiste un "noi", l'unico "noi" concreto è il figlio: questo_è il suo dramma e anche, immediatamente, quello del genitore. Allora questo dramma di apertura e chiusura, di estraneità e familiarità c'è sempre, è ineliminabile. Forse io sono deformata dalla mia professione, però nel rapporto madre-figlio, che è archetipo di ogni relazione, mi spaventerebbe molto una madre costantemente capace di grande apertura, sarebbe una madre intrusiva, che non sa stare al dramma della vita, che non saprà affrontare il limite della malattia, è una madre protettiva. Invece una madre vive il dramma del proprio limite, accetta di sbagliare, accetta di sentirsi chiusa anche a capire il proprio figlio, non ha come progetto di essere una brava madre, ma di essere con il figlio dentro la vita ... e accetta di non dire menzogne. Secondo me, per esempio, la protezione del piccolo, la protezione che fanno le mamme di oggi, è una grandissima menzogna. Ecco allora che il problema del!' accoglienza del!' altro diventa innanzitutto un problema di accoglienza di sé: un uomo che in rapporto alla propria vita sa reggere, sa leggere il significato del dolore, della malattia, del dramma, della propria esigenza di essere amato: quindi un uomo che accoglie la propria esistenza, con tutti gli elementi che definiscono il suo esistere, compresa la morte. Ma siamo abituati a pensare che dovremmo farci responsabili degli altri, quasi come una virtù civica ... L'altro nel suo bisogno ci commuove, ci muove verso il suo bisogno, nel momento in cui siamo commossi, mossi verso il nostro bisogno. Invece normalmente, io che sono grande, capace, ho soldi, eccetera eccetera, devo anche diventare un cittadino bravo, che aiuta gli altri, fa dei gesti di solidarietà, perché gli altri ... Che è già un livello buono nel marasma di individualismo in cui siamo immersi oggi, però se vogliamo guardare alla struttura della relazione, della responsabilità di rispondere al bisogno che gli altri hanno, credo che dobbiamo saper riconoscere in maniera molto precisa che questa relazione ha origine nella coscienza di sé. Da qui ci sono molte scelte e molti modi con cui si è guardato a questo problema. A me viene di proporlo così: siccome l'uomo non ha in sé il fondamento del proprio essere, perché non si è fatto da solo, allora se nella relazione di aiuto all'altro, si dimentica il passaggio che dicevamo, c'è il rischio che si muova come se dicesse: "io so chi sono, tu non lo sai". "Tu no, tu non sei, e allora io ti aiuto e porto la responsabilità". Invece l'azione di aiuto reale e adeguata a li 'umano sarebbe "io non sono -perché io sono un essere che non è, che non ha il fondamento del proprio essere-, questo mi fa riconoscerti come me e quindi riconosco il mio bisogno e ci aiutiamo". E' un riconoscersi insieme, è la pari dignità, la reciprocità, la pari condizione umana, il pari destino d'uomo. E non una relazione fra uno che ha e uno che non ha. Insomma, noi siamo creature. E la relazione di aiuto nasce sempre da questa coscienza di uno che è stato fatto, e che poi diventa anche capace di fare, ma lo diventa nella misura in cui è cosciente di essere stato fatto. Quando invece l'uomo fa come se fosse il creatore, la sua opera impazzisce, si deforma. L'esempio di questo è oggi sulla maternità e la paternità. L'uomo che si muove con l'ovulo, con le fecondazioni in provetta, il congelamento dei feti, si muove come se fosse lui il creatore. E' una deformazione, un esito impazzito ... Quindi, tornando all'altro, stai con l'altro ... Non mi piace l'espressione "apertura ali' altro". Preferisco "apertura a1Ia vita". Eppure sono una donna che ha messo al mondo dei figli, ne ho anche presi due già fatti ... In regola con "l'apertura" ... Infatti ... Preferisco dire che sono "insieme con". Sono insieme a mio marito, poveraccio come me, insieme ai figli, ai problemi, col pezzo di vita concreta che ho fra le mani. Sono insieme con qualcuno e se con questo qualcuno riesco a guardare a un ideale siamo davvero insieme. E riusciamo a camminare con uno stesso ritmo, ad andare verso la stessa meta. "Io e tu" allora siamo insieme. Altrimenti, senza ideale, ogni tanto ci si sorregge a vicenda, ma sono la povera storpia che ogni tanto incrocia la mano del cieco e riesce a fare tre passi per poi ricadere. E' l'orizzonte che definisce la relazione. E' la domanda sul- !' uomo, su quest'uomo che non si è fatto da solo, che produce o un accantonamento del dramma -va bene, non mi sono fatto da solo, e chi se ne frega-, o produce coscienza di sé, ricerca della propria verità. In altre parole: l'uomo è fatto per un ideale che sfonda il suo orizzonte, per un ideale infinito o è fatto per vivere più intelligententemente che può, più onestamente che può, più accogliente che può, insomma per vivere meglio che può ...? La mia risposta è evidente. Ma il dramma di oggi è che questo ideale non c'è ... Lo dico spesso ai genitori, non mi interessa "quale" ideale, ma che ci sia qualcosa che trattano come ideale. Se un padre pensa che il suo ideale sia andare in quel bar a prendere il cappuccino tutte le mattine, va bene, ma che muoia per quel cappuccino, che porti tutti gli amici in quel bar, che spali la neve se ci sono quattro metri di neve che gli impediscono l'accesso a quel bar ... Insomma, che ci sia qualcosa che dentro la propria vita sia trattato come ideale infinito. Questo oggi manca. Questo orizzonte, che è una risposta, una visione dell 'uomo, una verità, non rischia di risolvere il dramma? Al contrario. Questo succede nell'uomo che si consuma nel gusto della domanda e quindi fa esperienza di sé e si estasia da quante belle domande produce, ma non vuole risposte perché la sua risposta è già in questo gusto della propria domanda. E' lo stesso uomo di cui parlavamo all'inizio. Se invece l'uomo tratta seriamente se stesso esige risposte alle sue domande fondamentali, alla sua domanda di felicità, di ideale, di amore, alla sua domanda di verità. Che tutto non sia un'illusione, non sia un sogno, ma che sia sperimentabile, che sia concreto, che sia vero. Come può non esigere che ciò che desidera possa essere sperimentabile? Non capisco questa obiezione alla risposta. Non capisco un uomo che abbia il gusto della domanda e rifiuti l'orizzonte sicuro di una risposta. Ma quello che sogna è un adolescente. L'adulto esige la risposta. Esige di fare esperienza di quello in cui crede. E infatti viviamo in un mondo ormai adolescente. •

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