La Terra vista dalla Luna - anno I - n. 10 - dicembre 1995

RICCHI E POVERI L'occupazione che non c'è Marco Revelli Marco Revelli insegna storia contemporanea all'Università di Tarmo. Si è occupato in particolare della classe operaia torinese e dei confronto ideologico-politico tra· destra e sinistra. Questo articolo è ripreso da "Aspe" n.21 del 16 novembre 1995. ♦ A dispetto degli effimeri colf i giornalistici, la dinamica del 'occupazione continua a rimanere negativa. La congiuntura economica oscilla verso l'alto o verso il basso, ma la curva occupazionale rimane straordinariamente piatta. Il fatto è che da tempo la crescita industriale ·non genera più, di per se stessa, un parallelo aumento dei posti di lavoro. Al contrario: in forma semJ?re più ampia la crescita degli investimenti finisce per ridurre la base occupazionale. Distrugge, anziché generare, lavoro. Sono impressionanti, da questo punto di. vista, i dati rivelati da una ricerca svoltasi in Germania, riprodotti da Guy Aznar nel suo libro Lavorare meno per lavorare tutti (in traduzione presso Bollati-Boringhieri): se tra il 1950 e il 1955 un investimento di cento miliardi di marchi al fine di aumentare la produttività era in ~rado di creare circa due milioni di posti di lavoro, e tra il 1960 e il 1965 ne generava ancora quattrocentomila, a cominciare dal quinquennio successivo la medesima cifra, investita, finiva per dist~uggere circa ce?tomila posti di lavoro, e tra il 1970 e il 1975 giungeva a cancellarne ben cinquecentomila! Tali cifre ci dicono quanto ~bagliato (per ingenuità, per ignoranza, per malafede) sia il coro che continua ad affidare il riassorbimento delle im- . mense sacche di disoccupazione a una mitica "ripresa" tanto invocata quanto introvabile. E nello stesso tempo ci Y.QQ mostrano quanto sia cambiato, negli ultimi decenni, il sistema industriale. All'origine di questa situazione vi sono perlomeno tre mutazioni "rivoluzionarie". È cambiata, in primo luogo, la situazione del "mercato", il rapporto tra ·produzione e "domanda". A mercati di tipo prevalenteniente "nazionali" e con quote rilevanti di "domanda" insoddisfatta si sono sostituiti mercati sempre più integrati sul pia.no internazionale, e per certi prodotti mercati compiutamente ~lobali, "planetari", caratterizzati tuttavia da un elevato livello di saturazione. Oggi tutti competono con tutti sui medesimi mercati, per conquistarsi quote sempre più livellate di domanda. Cosicché la competizione è ormai divenuta globale e mortale. È cambiata, in secondo luogo, la tecnologia. Da questo punto di vista l'ingresso nell'era elettronica ha avuto un impatto devastante. Le nuove macchine, infatti, aprono la strada a quel fenomeno che Luciano Gallino ha definito della "innovazione ricorsiva": macchine che in misura crescente gestiscono, programmano, addirittura costruiscono macchine. Computer che guidano computer. Macchine a controllo numerico che costruiscono macchine a controllo numerico. Inoltre, rendendo estremamente flessibili i processi lavorativi, le nuove tecnologie favoriscono il decentramento produttivo. Il trasferimento al di fuori della grande fabbrica di un grande numero di operazioni, e il loro affidamento a lavoratori precari, talvolta addirittura a lavoratori a domicilio, o a piccola e piccolissime unità produttive caratterizzate da lavoro nero, stagionalità, incertezza del lavoro. Il che ci introduce alla terza innovazione "rivoluzionaria" consumatasi in questi anni: una rivoluzione organizzativa. La nuova fabbrica, infatti, la fabbrica della competitività globale, la cosiddetta "fabbrica integrata" rovescia la logica organizzativa della fabbrica fordista. Non punta più sulla standardizzazione del lavoro, su grandi lotti di pr~- duzione fatti tutti in modo eguale, con procedure uniformi e formalizzate, con ampi margini di programmazione, con grandi polmoni di immagazzinagg10. Al contrario. Punta a risparmiare tempo e spazio. Pratica il just-in-time, la tecnica per cui i pezzi devono arrivare sulla catena di montag~io esattamente al tempo gmsto, provenendo a · loro volta dal produttore, non da qualche magazzino. Si aspira alla lean production, la "produzione snella", così chiamata perché limita al minimo indispensabile l'organico di manodopera. Perché punta a recuperare margini di manovra sui costi (un 23% in media di guadagno all'anno) tagliando gli occupati. Lavorando sul corpo vivo della forza-lavoro. Perciò questo tipo di fabbrica appare iJ.Ssaimeno "sociale" della precedente. E rinvia, per chi abbia a cuore le sorti della società nel suo complesso e non solo del suo mitico simbolo - l'impresa - alla necessità di un cambio di paradigma. Alla ricerca di una nuova, diversa "centralità", meno egoistica, più adeguata a quel "bene comune" che lo sviluppo in quanto tale non è più in grado di garantire. ♦

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==