La Terra vista dalla Luna - anno I - n. 10 - dicembre 1995

te alla cultura della pace e ai pacifisti. Ci sono infatti spazi ma anche responsabilità molto cresciute rispetto agli anni in cui questa cultura come noi la conosciamo si è formata ed è cresciuta, cioè l'età dei grandi conflitti ideologici e della guerra fredda. È maggiore lo spazio perché si è rotto quel controllo che recintava il mondo e la nostra azione in esso. Ma sono molto maggiori le responsabilità perché dall'affermazione dei valori della nonviolenza, della pace, della risoluzione pacifica -o col minor danno- dei conflitti e delle contraddizioni, dipende qualcosa di meno astratto del Nuovo Ordine Mondiale; dipende anzitutto la convivenza stessa entro le nostre società attraversate da conflitti complessi e differenziati. In cui l'uso stesso della forza, cioè la manifestazione di un valore che è l'antagonista tipico di ogni modello di soluzione nonviolenta, muta segno, come mostra l'esercito italiano schierato lungo le coste pugliesi a fermare i profughi albanesi: non più contro un nemico esterno la cui ideologia o le cui pretese territoriali minacciano la nostra comunità nazionale, come nelle guerre e i conflitti tradizionali, ma contro la minaccia dell'altro, della sua povertà. Del resto mentre nel 1989 i caschi blu dell'Onu erano occupati per il 90% in conflitti tra stati, oggi questi riguardano solo il 10% del loro impiego. Gli eserciti saranno sempre più destinati a combattere guerre del genere e questo muta radicalmente il ruolo del pacifismo: non ci si può confrontare nella stessa maniera con un esercito che assedia una città e con uno che interviene per liberarla da un assedio, con chi ricaccia i poveri nel loro deserto e con chi - magari sbagliando modi, metodi, linguaggio- è arrivato per distribuire aiuti; soprattutto se non si è in grado di indicare alternative realistiche ed efficaci. Tutto ciò aumenta enormemente le responsabilità, richiede il coraggio di abbandonare l'automatismo delle reazioni stereotipate Ma accresce anche lo spazio dei valori più autentici del pacifismo, perché il loro esercizio appare più vicino al cuore delle contraddizioni quotidiane della nostra società. La continuità tra queste e i grandi conflitti è infatti più stretta che in passato; non è più politicoideologica ma etico-culturale. Il legame tra i particolarismi, i localismi, i corporativismi ch_e affollano la nostra società e le tendenze analoghe che si esprimono su scala più ampia, tra etnie, religioni, stati diversi, non è fondato su presupposti ideologici, come all'epoca della Guerra Fredda, ma è diretto e reale. È dunque quel legame che dobbiamo capire e all'interno quella consapevolezza che dobbiamo lavorare. Qui sta anche la possibil-ità di rispondere alle critiche che le culture pacifiste e nonviolente, con le visioni del mondo e le pratiche ispirate a questi valori, hanno in questi anni spesso ricevuto -con qualche ragione, a volte. Mi riferisco non tanto ai frequenti rimproveri giornalistici al pacifismo più o meno organizzato, accusato spesso al di là della sue effettive possibilità e responsabilità, ma a critiche come quelle rivolte in più occasioni da Norberto Bobbio alla cultura della nonviolenza. Ne vorrei citare almeno due, particolarmente importanti: la prima è al fatto che il pacifista nonviolento dimentica di accompagnare all'etica delle buone intenzioni un'etica della responsabilità, si affida cioè troppo al valore diretto del proprio atto, del.proprio impegno e non ne considera il contesto complesso m cui si inserisce, le LEZIONI scelte che più o meno consapevolmente fa, le conseguenze che provoca. Un'etica della responsabilità non ~uò che nascere da un'analisi della complessità delle situazioni, da un idea non ingenua, ottimista o sbrigativa, ma appunto responsabile nel senso limpido in cui intende questo termine Dietrich Bonhoeffer, pastore protestante antinazista e vittima di Hitler, quando dice: "è molto più facile affrontare una questione mantenendosi sul piano dei principi che in atteggiamenti di concreta responsabilità". Per esempio, dice Bonhoffer in un testo del 1942 che mi sembra straordinariamente anticipatore, "verso la vita deHa generazione che viene", verso le generazioni future. "Noi non vogliamo e non dobbiamo comportarci da critici offesi [offesi, intende, verso la piega che ha preso la storia: e parlava del nazismo! viene da pensare a quanti tra noi, in Italia, tra la sinistra italiana, fanno gli "offesi" verso al storia di questi ultimi dieci anni] né da opportunisti, ma da uomini corresponsabili, come vincitori e come vinti, della forma che viene data alla storia, nei singoli casi e in ogni istante". Questa mi sembra una buona definizione di quella che deve essere un'etica della responsabilità, per non rimanere prigionieri delle buone intenzioni giustamente criticate da Bobbio. La cui seconda obiezione riguarda il fatto che il pacifista nonviolento rischia di non difendere efficacemente il debole. Si potrebbe rispondere: ma chi in questi anni ha difeso efficacemente i deboli? Eppure anche qui la situazione attuale complica il compito ma lo rende anche più chiaro: solo una comprensione della complessità dei conflitti e strategie nonviolente che siano all'altezza di questa complessità può aiutarci a difen- - dere efficacemente i deboli in casa nostra e altrove nel mondo. . In primo luogo ave~do sempre _benpresente il carattere decisivo di quel processo di mondializzazione, per cui, ha scritto ancora Havel, "il nostro mondo è un'unica civiltà planetaria e nel mondo di oggi tutto concerne tutti", tutto cioè "ci riguarda"; e il legame stretto tra i nostri conflitti, le nostre contraddizioni, per le quali c'è chi ha parlato di una "guerra civile molecolare" (Enzensberger) e la dimensione mondiale non è ideologico ma insieme reale e morale. In secondo luogo assumendo che in queste condizioni la politica non può più essere quella dimensione decisiva e totalizzante che abbiamo pensato fosse nei decenni scorsi. Proprio i limiti che la politica manifesta oggi in Italia mostrano come le trasformazioni decisive, quelle che davvero decidono il futuro, possono aver luogo solo altrove, nelle culture concrete della società. È lì dunque .che bisogna lavorare, è lì che quei valori -nonviolenza, tolleranza, pacifismo non solo di fronte alle guerre e i conflitti armati ma anche come ricerca continua di forme di comunicazione, dì convivenza, di costruzione di legami che combattano il disgregarsi aggressivo del tessuto sociale- debbono verificare se stessi, dimostrando di essere attuali e migliori, ossia più utili ed efficaci di altri. ♦

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