La Terra vista dalla Luna - anno I - n. 5/6 - lug.-ago. 1995

gio dub, con una bassa tecnologia sono riusciti a inventare suoni molto nuovi. Ricorrono a molti effetti ma in modi estremamente economici. Questa povertà è diventata uno stile. G. Irt Giamaica hanno fatto cose incredibili, utilizzando i macchinari di scarto che gli rifilavano i nord-americani, ma oggi le registrazioni fatte con pochi mezzi sono spesso le misliori. R. Ci sono dei buoni gruppi asiatici che usano anche loro il dub, e ricorrono al reggae. Alcuni fanno bhangra, una musica di genere molto misto, dance e reggae, con testi in urdu, o nell'inglese degli asiatici, o in hindi. Sono testi molto belli, molto di rottura, un po' come erano quelli del rai algerino. . MUSICA AUTOPRODUZIONE PeppeAjello ♦ Peppe Ajello, antropologo, lavora all'Università di Napoli. ♦ Quotidianamente la produzione culturale ci assedia con un'infinità di prodotti che sporgono dalle librerie, dalle edicole, dalle radio, dai negozi di dischi. La varietà che ci viene offerta sembra a prima vista sterminata, ma, a ben guardare, gli oggetti che possiamo comprare rientrano in una gamma monocorde eripetitiva. Inoltre tutto porta a percepire la distanza tra chi elabora una forma comunicativa, chi la concretizza e chi la utilizza, come enorme, tale da non permettere alcun contatto tra l'umano fruitore e la star, il creativo, l'artista, il critico, il brillante intellettuale. Di ciò nessuno si sorprende, dato che la . nostra organizzazione sociale funziona in maniera esattamente simmetrica, con gli umili che plaudono ai potenti, li temono o li invidiano. Dato che nessuna macchina è perfetta neanche quella: del consenso culturale lo è, cosicché vi sono continuamente individui o gruppi di individui che anche in questo settore sono riluttanti ad adeguarsi al ruolo imposto. Uno dei campi nel quale più sono spese energie e sprecati sogni è quello dell'autoproduzione musicale. Ciò perché la musica popolare è il principale veicolo espressivo utilizzato da persone poco rassegnate ad una vita prefabbricata. Qualcuno li chiama giovani, ma ridurre la questione ad un fatto di età è inesatto e superficiale, perché se è vero che ai concerti l'età media degli spettatori è piuttosto bassa, è vero anche che chi decide di scendere in campo nel conflitto con la cultura istituzionale difficilmente è un adolescente. Tale conflitto fa parte della natura del poprock, nome di comodo che può arrivare a comprendere tanto Eros Ramazzotti che John Cage, a seconda delle accezioni, musica che dopo quaranta anni e passa continua a catalizzare le energie psicofisiche d~ m~lio~i di pe~sone tra. co_nsuI?atori, neg~- zianu, giornalisti e addetti di van'o genere, discografici e musicisti. In particolare queste ultime due categorie hanno spesso aspramente lottato per l'egemonia sul prodotto musicale, con risultati alterni. Gli industriali della musica preferirebbero p~che superstar che vendano moltissimo, che esprimano un contenuto politièo-sociale banale o inesistente, facilmente intercambiabili (tipo Duran Duran e Take That, le stesse cretinate a dieci anni di distanza), in un rapido alternarsi di mode e false trasgressioni (i vaffanculo e bella stronza di Masini) che riescano a mantere alta l'attenzione dei compratori. La casa discografica tende quindi ad imporre l'immagine, il tipo di suono, gli arrangiamenti, il ritmo di uscita dei dischi, il tipo di promozione pubblicitaria. I musicisti, da parte loro rivendicano la loro libertà di espressione e possono approfittare della loro popolarità per imporre condizioni più vantagg10se dal punto di vista creativo ed economico. Oppure rifiutare del tutto il loro ruolo di giullari e non sottostare alla disciplina richiesta, e qui nascono i problemi. Ci sono molti e illustri esempi, dai Rolling Stones a Frank Zappa a Prince, di insubordinazioni parziali o radicali verso l'industria discografica, e ci sono di conseguenza un certd numero di risposte differenti date alle situazioni di crisi da entrambe le parti. La risposta dell'industria musicale è quella di allentare la disciplina nei momenti di trasformazione del gusto del compratore, e di rafforzarla nei momenti di stasi. Un'insufficiente elasticità è stata tra le cause dello sviluppo di 9.uello che è un punto di riferimento cardinale m tutto il discorso dell'autoproduzione. Il movimento punk. Nel '76 l'industria non era preparata al completo rivolgimento di un'estetica musicale, cosicché i primi tentativi di impadronirsi di quel linguagg10 estremo che era il punk furono goffi ed imbarazzanti. I Sex Pistols videro per due volte rescissi unilateralmente i contratti con la Emi e con la A&M, incassando da queste etichette delle grosse cifre come penali, a causa del contenuto inaccettabile di God save the Queen (lesa maestà, nientedimeno) e dei comportamenti pubblici dei componenti del gruppo, una continua istigazione alla ribellione nichilista. Il movimento punk si rese conto che, se voleva dire le sue cose, doveva recuperare una pratica che era già stata di molti hippie durante gli anni sessanta, quella del do your own thing, grido di battaglia dell'autoproduzione. Era naturale che dopo lo sbandamento iniziale i discografici riuscissero a recuperare i gruppi dal maggiore potenziale commerciale. Sex Pistols e Clash furono messi sotto contratto da uomini d'affari più giovani e spregiudicati, il cui motto era: cantate e fate quello che cazzo vi pare, ma vendete. Molte pers@nenon si adeguarono invece a una normalizzazione così improvvisa, e centinaia di gruppi cominciarono a incidere e stampare cassette e dischi da sé, in completa autonomia, senza pretesa di guadagni. La fase particolare dava la possibilità a chiunque fosse sufficientemente determinato di far ascoltare in giro almeno un sette pollici-registrato con dubbia perizia tecnica. La soddisfazione di aver prodotto qualcosa da soli per molti era già sufficiente, per altri l'obiettivo era il contratto con una major, eer altri ancora quello di fondare una piccola etichetta, per qualcuno fare la rivoluzione. L'industria con il tempo ha imparato a utiSUOLEDI VENTO

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