La Terra vista dalla Luna - anno I - n. 5/6 - lug.-ago. 1995

sibilità, e la sua onda omologante, dall'altra il teatro, isolato e poco evidente, dimenticato e difficile da catalogare. Da una parte gli artisti, senza riconoscimento istituzionale; dall'altra gli spettatori, necessari al teatro, ma, tranne che in pochi casi, abbandonati a loro stessi. Un ponte tra questi baratri potrebbe essere · costituito da una informazione adeguata, ma per quanto baccano siano capace di fare i giornali, è oramai un dato di fatto che il teatro e la cultura contemporanea in genere, ne subiscano il silenzio. Più che il silenzio è occhi e orecchie chiuse, è disinteresse, è disimpegno, è approssimazione nel trattare un'arte tenace ma delicata, è un atto di pochezza. Viene a mancare così un .anello di congiunzione tra artisti e spettatori, e tra gli artisti stessi. Viene a creare uno scollamento, una confusione, un niente· di relazioni. Il che mette in difficoltà il teatro esistente e contribuisce a opprimere sul nascere quello emergente. Delicata e tenace. Delicata perché il parlarne, lo s~riverne, il trattarne fuori dal suo luogo naturale, dalla scen;i, da corpo e voce dell'attore, dalle _visioni di autore e regista, dal flusso indistinto di. musica, colori, forme vibrazioni, parola, senso, può facilmente banalizzare, stringere la visuale di chi legge o as~olta, anziché predisporla, renderla sensibile. E facile intuìre che la frettolosità, la genericità, la gerga7 lità dell'informazione giornalistica non va certo incontro a questioni di delicatezza. La tenacia è poi, per esempio, nel lavoro di gruppi come Teatrino Clandestino, di Lagani-BorghesiCircassia-De Angelis, Accademia degli artefatti, Terzadecade, Masque, Motus-, Aenigma, Braghieri, Teatro dell'Idra. Nella vocazione organizzativa di realtà come I.v.a.n. e Le belle bandiere. Realtà sommerse ma già un po' sopravvissute. Che non temono un futuro invisibile, che organizzano rassegne rassegne e con quattro milioni di Budget, che "occupano" Scenario per denunciarne i limiti, che si spostano da una parte all'altra della lunga Italia per guardare in volto il resto del teatro, riunirsi, conoscersi, rendersi visibili. Le loro visioni attraversano le generazioni del mito per trovarne l'anima di oggi, sincopata e muta, combattono con la parola, si annullano nella parola, trovano alloggio nella poesia, perseguono i sentieri segreti di scritture sofferte, fisiche, assorbono povertà, crudezza, iIJ,cisivitàda confessioni di guerra, autodidatti cercano nel bianco colore e nella danza una parentela con la drammaturgia del nostro secolo, si addentrano in proprie drammaturgie con corpo d'autore, scolpiscono il pensiero con tratto lunare, nell'immobilità. È prematuro trarre linee generali, credo. Poi, non nominerei queste nuove presenze con categorie anagrafiche, tentennerei a indicare una tendenza di pensiero o una corrente teatrale. Solo, adepti di nessuno, rifuggono le scuole di teatro consci di una necessità che alberga altrove, nella propria fonte, nel rigore, nell'essere imbizzarriti. Rimango per ora a guardare, senza azzardare teo.rie forzate, per non rimanere a piedi freddi. ♦ GRUPPI TEATRALI SUL MODO DI PENSARE I TEATRI Ferdinando Taviani Più che le idee, i giudizi preconcetti, sono i paradigmi prefabbricati a bloccare il pensiero e corrompere l'azione. Uno di questi paradigmi lavora sull'esclusiva contrapposizione fra "tradizione" e "avanguardia" Il teatro novecentesco sembra perc'.orso di tale contrapposizione. È la lettura più facile: più grossolana. La reale dinamica storica si svolge invece fra sistemi teatrali unificati a livello nazionale, ed enclaves; eccezioni, isole non isolate. Dal momento in cui, fin dall'inizio del XX ~ecolo, il teatro cessa d'essere lo spettacolo eminente, diventa spettacolo di minoranza e deve restringersi e scoprire nuove ragion d' essere, le due forze che realmente si scontrano al di sotto dei veli teorici e di gusto, al di sotto delle scaramucce fra poetiche e teoresi avanguardistiche o no, sono quelle di chi pensa ad una riorganizzazione generale del sistema teatrale e quelle di chi invece persegue una trasformazione attraverso prototipi che diventano esempi, ai quali chiunque può ispirarsi a modo suo, senza alcun alveo di trasformazione programmato. La comprensione di questa dialettica è essenziale se si vuole pensare la politica teatrale d'oggi e il problema dell'indipendenza. Perché sono le enclaves, i teatri pensati in grande ma fatti in casa, a costruire un territorio non omologato al sistema delle sovvenzioni, benché da esso nutrito. Un'indipendenza non semplice: non riguarda un singolo artista, ma l'intera comragine, teatro di grupp~ com_pagnia cooperativa o ensemble che dir s1voglia. Da questo punto di vista, per esempio, la trasformazione di Leo De Berardinis da artista solitario a capotribù (si legga il bel libro di Manzella sull'argomentò, La bellezza amara, Pratiche) mi sembro ancor più importante dell'importantissima recente apertura del suo San Leonardo a Bologna, il primo teatro-laboratorio finanziato in quanto tale da una municipalità con una convenzione che dovrebbe dargli carta bianca almeno fino al 2000. La storia di Leo De Berardinis, infatti, è oggi quella d'una ·"casa" del teatro. I teatri fatti iii casa creano l'equivalente d'una tradizione, una microcultura. E questo, più ancora della coesione interna, permette loro di resistere all'omogeneizzazione indotta dai regolamenti. Spesso sanno irraggiarsi guaT <lagnandosi gruppi di spettacolo assidui in luoghi lontani, e quindi creando non tanto un territorio quanto una costellazione di corrispon- • denze e d'affinità. Poiché si son formati spesso nell'autodidattismo, i loro modi mal si accordano alle sfumature del teatro maggioritario. Possono SUOLE DI VENTO

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