La Terra vista dalla Luna - anno I - n. 2 - marzo 1995

Bi della sorveglianza e perché la persona esterna_ che entra nel carcere è comunque sempre un "osservatore". Per quel che riguarda la collaborazione con la Direzione e con gli altri operatori del carcere, in particolare con coloro che sono responsabili dell'osservazione del detenuto, sarebbe auspicabile che si individuassero le modalità migliori, in cui si possa realizzare un allargamento del dialogo tra le componenti che agiscono nel percorso di-riflessione e, possibilmente, di revisione che il detenuto dovrebbe . . . . compiere sm propn comportamenti. Per quanto invece attiene la specifica professionalità docente, ritengo che la continuità d'insegnamento, normalmente caldeggiata per tutte le situazioni d'apprendimento, sia indispensabile in quella particolare situazione e consenta a un insegnante di comprendere col tempo la complessità dei fenomeni che avvengono de.ntro una classe in un carcere, e di imparare a muoversi dentro la struttura. Il doppio filo della comunicazione Chi abbia già avuto esperienza d'insegnamento ad adulti è abituato a fare i conti con un'utenza molto eterogenea per competenze e modalità d'apprendimento, a ricercare le motivazioni che la inducono a iscriversi a un corso scolastico e a valutare la reale praticabilità degli obiettivi formativi e culturali, meglio ancora a calibrare gli obiettivi sulla condizione concreta dei discenti, a contrattare i contenuti curricolari, in sostanza a porre i soggetti che apprendono al centro del propfio progetto d'insegnamento. · · Tutti questi aspetti, che fanno parte della riflessione metodologica e didattica di ogni docente che opera nel settore Eda, si ripropongono ovviamente anche nel carcere, ma alcuni di questi si radicalizzano, altri presentano per l'insegnante difficoltà, che io chiamerei "distorsioni dell'informazione" e che poi preciserò meglio. Nel carcere il rapporto pedagogico si fa molto complesso e l'insegnante deve porsi nel1'atteggiamento di chi si dispone a conoscere un universo piuttosto nuovo per lui. Si afferma che un insegnante, se vuole insegnare, deve essere disposto ad apprendere. Deve saper comprendere i processi di apprendimento di un allievo, ciò che lo facilita e ciò che l'ostacola in questo processo, deve capire quali sono i suoi interessi e suscitarne nuovi, deve utilizzare come base d'appoggio per l'apprendimento successivo i saperi dell'allievo, le sue risorse. Deve inoltre scoprire le strategie e i trucchi che l'allievo non solo mette in atto per apprendere, ma anche per eludere l'apprendimento, poiché apprendere non è soltanto, come si dice, "bello", ma contiene in sé una buona dose di sofferenza. Non parliamo poi della sofferenza del cambiamento (lo dico qui solo per inciso), dal momento che un qualche cambiamento del comportamento e dei progetti di vita, come obiettivo massimo, o una qualche capacità di controllo dei comportamenti, come obiettivo meno elevato e più realistico, è auspicabile si produca nel percorso di formazione di un detenuto. Allora l'operazione che l'insegnante compie mentre insegna, oltre che avere ben presenti i contenuti disciplinari (e questo è un aspetto della questione), consiste in ciò che io definisco "mettere le antenne", sintonizzarsi, anoBianco dare oltre l'osservazione, ossia tener conto di tutti quegli elementi che l'osservazione offre e metterli in relazione. Deve porsi anche lui in una situazione d'apprendimento. Adesso probabilmente risulterà più chiaro _ il titolo di questo articolo: "Chi insegna a h.;>" . c i. L'interrogativo aperto propone il senso del duplice percorso del rapporto pedagogico, durante il quale si verificano sempre due itinerari conoscitivi, poiché i soggetti che apprendono sono ~empre due, allievo e docente. Sistemi che si osservano In carcere allievo e docente sono due sistemi che si osservano. Mi spiego, cercando di definire ciò che per me significa "sistema". Un sistema è un insieme complesso e organico di elementi, in relazione tra di loro e con l'ambiente esterno, i quali obbediscono a regole, si ispirano a dei• valori, producono dei modelli di società, di comunità. Spesso, per non dire quasi sempre, docente e allievo in carcere appartengono a due sistemi antitetici, a due mondi molto diversi. Il docente, l'operatore culturale, il formatore, per propria deontologia professionale, è portato a credere, direi che deve credere, nel valore formativo della cultura e dell'istruzione. Siamo probabilmente ancora accesi illuministi, e per ciò convinti sostenitori (lo dico senza ironia) che il ragionamento è sempre positivo ed è sempre formativo. Ogni formatore nel carcere ha imparato tuttavia, col tempo .e a sue spese , che i con.tributi che egli porta alla discussione e al rag10namento possono passare come acqua fresca e non modificare nulla. Ciò accade quanto più il "sistema" in ascolto è rigido. Al formatore può capitare d'avere la percezione illusoria che, invece, alcuni elementi del ragionamento siano passati, e così tra lui e l'interlocutore può continuare un dialogo fittizio; il formatore può pensare che si sia f rodotta una modificazione dentro l'ottica de detenuto, e invece non è cambiato nulla. È ciò che io prima ho chiamato "distorsione dell'informazione". Questo è vero per ogni rapporto pedagogico, specie quando questo avviene tra adulti, che hanno modalità di pensiero più rigido e schematico; nel carcere, come ho gia detto, questi aspetti si radicalizzano come tanti altri. Così accade che la proposta culturale, che per c~i la_fa raprresenta un'offerta P?Sitiva,_possa divemre per· il detenuto un occasione utile per lui stesso e strumentalizzabile a propri fini, diversi da quelli immaginati dal formatore. Alla base di questo c'è una ragione precisa che chi opera in un carcere conosce bene, non credo perciò di dire nulla di nuovo: le motivazioni di chi frequenta un'attività di formazione all'inizio non sono legate, in molti casi, ad un interesse formativo, ma sono pratiche e utilitaristiche, per quanto legittime in una situazione in cui vige la legge della sopravvivenza: riempire un tempo vuoto, uscendo dalla cella, dimostrare il proprio buon comportamento per ottenere i benefici che la legge prevede; incontrare gli operatori carcerari, negli istituti in cui aule e uffici sono attigui; conseguire infine un diploma spendibile nella società esterna. Il formatore che opera nel carcere diviene consapevole, col tempo e attraverso la sua esperienza perché nessuno glielo insegna, che ha di fronte a sé quasi sempre due scene: l'una manifesta, l'altra nascosta.

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