Il piccolo Hans - anno XVIII - n. 70 - estate 1991

Per nessuno dei lettori di questo libro sarà facile immedesimarsi nell'atteggiamento emotivo dell'autore, che non conosce la lingua sacra, che si sente completamente estraneo alla religione dei padri - come ad ogni altra religione peraltro - e che non riesce a far propri gli ideali nazionalistici pur non avendo mai rinnegato l'appartenenza al suo popolo e sentendo come ebraico il proprio particolare modo d'essere che non desidera diverso da quello che è. Se gli venisse rivolta la domanda: «Dal momento che hai lasciato cadere tutti questi elementi che ti accomunano ai tuoi connazionali, cosa ti è rimasto di ebraico?», la sua risposta sarebbe: «Moltissimo, probabilmente ciò che più conta» (Freud, 1913, pp. 8-9). A questo punto si è in grado di capire meglio il senso della risposta data da Freud in casa di Charcot. Una risposta che non fa che confermare come egli avesse ormai abbandonato ogni desiderio di assimilazione, ritenendolo personalmente futile e deleterio, e avesse colmato il venir meno in lui delle illusioni legate al liberalismo tedesco con la consapevolezza della propria identità ebraica. Si può adesso ritornare all'incontro con Weiss durante la guerra e cercare di comprendere le ragioni del compiacimento di Freud per il tipo di risposta da lui scelta. Il professarsi ebreo costituiva dopotutto agli occhi di Freud anche una benemerenza particolare dal punto di vista psicoanalitico. Non solo egli riteneva di dover alla sua natura di ebreo quel coraggio indomito e quella indipendenza di giudizio, senza i quali non sarebbe riuscito probabilmente a sopportare l'enorme carico di solitudine e di trasgressione che aveva comportato l'esplorazione del sottosuolo della coscienza, ma era anche convinto che ci fosse negli ebrei una maggiore predisposizione a recepire quelle dimensioni della realtà psichica che avevano portato alla scoperta della psicoanalisi. Raccomandando, in una lettera a Karl Abraham, la pa185

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