FIGURE DELPRI!iOSOCIALISMO ITALIANO ALESSANDRO SCHIAVI MARIO LONGHENA LUIGI DAL PANE PAOLO TREVES RENATO MARMIROLI GIUSEPPE FARA VELLI ENRICO BASSI ENRICO MOLÈ UGO G. MONDOLFO LUIGI BENNANI I primordi del socialismo in I talia Andrea Costa Antonio Lab-rio/a Filippo T«rati e la signo,,a I<ulisciof} Leonida Bisso/ali e Camilla Prampolini Giacomo Malleotti e Bruno Buozzi Nullo Baldini e Gi1<- seppe M assarenti Ivanoe Bonomi G. E. Modigliani Claudio Treves EDIZIO RADIO ITALIANA !::~~=-= ,(In,,,,., 'I,..,.., ,...,--i, ~,m,,,_-.,,li
-. INDICE Prefazione ALESSANDRO SCHIAVI: l primor,di del Socialismo in Italia i\llARIO LONGHÈNà: An.drea Costa LUIGI DAL PANE: Antonio Labriola PAOLO TREVES: Filippo Turati e la signom l(u/isciofj RENATO MARMIROLI :. Leonida Bissolati e Camillo Prq.m,Polin( . GIUSEPPE FARAVELLI: Giacomo Matteotti e Bruno Buozzi ENRICO BASSI: Nullo Baldini e Giuseppe .Massarenti ENRICO MOLÈ: Ivanoe Bo,nomi . . . . . . . . . . UGO _Gurno MoNDOLFO: Giuseppe .'Emanuele .Modigliani LUIGI BENNANI : C/aud·io Treves . pag. 5 7 16 23 30 37 45 53 64 71 78
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FIGURE . DEL PRIMOSOCIALISMO ITALIANO EDIZIONI RADIO ITALIANA
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PREFAZIONE Nel periodo che va dal r88o al r924, si ha nella vita italiana una fase caratterizzata dagli sforzi di pensiero e di azione intrapresi e compiuti da un nucleo di uomini animati da una fede e guidati da una dottrina che fu chiamata socialismo, al fine di riitscire a un elevamento della condizione materiale, civica e spirituale delle masse lavoratrici. Tra quegli uomini, una breve eletta schiera costituisce il corpo dei pionieri del movimento operaio e socialista italiano. Questi antesignani meritano di essere ricordati oltre il termine della loro vita e presentati ai ventitri come esempio degno di meditazione e di incitamento a ben fare. Soprattutto, è utile il rievocarli in quanto, nella parentesi ventennale, la nuova generazione ha, in gran parte, ignorato l'esistenza di quegli uomini e di quel movimento. La rievocazione venne affidata ai discepoli della seconda generazione per servire alla verità e per aiutare, colla rappresentazione del passato, a spiegare e ad intendere il presente e ad intravedere il prossimo avvenire. I profili dei maestri del socialismo italiano, già diffusi per le onde del Terzo Programma, sono ora, in questo volume, raccolti ed offerti al pubblico.
ALE;SSANDRO SCHIAVI I PRIMORDI DEL SOCIALISMO IN ITALIA (Dal secolo xvm al secolo xrx) Sarebbe azzardato affermare che il socialismo abbia avuto dei precursori in Italia. Si può dire sì, che il pensiero socialista nella accezione più larga della parola, come di un richiamo a un senso di maggior giustizia verso i miseri, abbia avuto assertori anche tra noi fino dal secolo xvnr, ma si nega che quelle idee, per quanto ben formulate e sinceramente espresse, abbiano avuto efficacia tale da muovere prìncipi o reggitori a legiferare di conseguenza, e diffusione e penetrazione così da risvegliare le masse dormienti e da spingerle ad agire o guidate o da se stesse, al fine di cambiare e migliorare le proprie condizioni. A voler spigolare delle frasi di critica dell'ordinamento sociale e delle necessità di riformarlo, come riflesso dello spirito di umanità che caratterizza il pensiero settecentesco, dalle opere di pensatori, di politici e di poeti della seconda metà del Settecento e d~lla prima metà dell'Ottocento, c'è da comporre una fiorita ammirabile e commovente. Dal Beccaria al Filangieri, dal Pagano al Verri la rivendicazione della libertà del pensiero non è fine a se stessa, ma deve servire al benessere della comunità, il quale fine, a sua volta, si concreta in quello dei singoli componenti. Coi prodromi della Rivoluzione francese, e la penetrazione di contrabbando delle opere del Rousseau e dei socialisti utopisti francesi, dal Meslier al Mably e al 7
Morelly, la critica si fa più pungente, la dissezione del corpo sociale si fa più profonda, e, come in Francia, son proprio degli abati che vi si esercitano in verso e in prosa. Dall'abate Parini che, nel poemetto Il giorno, mette in lu~e il contrasto fra coloro che col duro lavoro apprestano, non per sè, le squisitezze della vita e i privilegiati che ne godono, all'abate Tocchi di Cagli che, nella voluminosa opera La felicità di tutti, preconizza il godimento dei prodotti secondo i bisogni del consumo, ed a Vincenzo Russo, l'impiccato della reazione borbonica, che inneggia a una repubblica popolare in cui. ciascuno possieda un pezzo di terra - non trasmissibile - da coltivare direttamente e da trarne i mezzi di sussistenza. Anche i Promessi sposi, apparsi nelle varie stesure fra il 1827 e il 1842, furon definiti « il romanzo degli umili », scritto, come fu osservato, « colla persuasione che l'ordine sociale si fonda sulla violenza, larvata di legalità, e sul diritto del più forte, dal che deriva il dovere di ogni cristiano di lottare contro l'iniquità potente in difesa del debole oppresso », e a proposito del quale Filippo Turati, nelle ultime parole che ebbe a pronunciare alla Camera italiana il 22 maggio del 1923, disse che porre a fronte di don Rodrigo e di don Abbondio padre Cristoforo e il cardinale Borromeo « significò esaltare quella bontà umana, che oggi sembra essere dimenticata, la bontà coraggiosa, operosa, che non si guarda nello specchio, la bontà che si ignora, che nella vita sembra nulla ed è tutto»; ma sarebbe una pia illusione pensare che lo spirito di quel romanzo immortale esercitasse un qualsiasi influsso sui lettori del suo tempo nel senso di una preparazione a sentimenti di carattere socialistico, oppur soltanto umanitario. Colla Restaurazione e nel periodo delle cospirazioni, più rade sono le voci che vanno oltre l'invocazione della libertà e dell'indipendenza, e son quelle di Filippo Buonarroti, sostenitore della legge 8
agraria; di Carlo Bini, livornese, che, per mettere il sistema sociale sopra un nuovo pernio, si augura che le sostanze diventino patrimonio di tutti; e dello stesso Mazzini che afferma la necessità che la proprietà sia «richiamata al principio che la rende legittima, facendo sì che il lavoro possa produrla"· Ma quando siamo ai rimedi, più in là dell'educazione e dell'associazione a scopo di affratellamento ed al fine di far conoscere ufficialmente i bisogni delle classi povere alle classi superiori affinchè possano provvedere, il Mazzini non va. Poichè egli è ben persuaso che le classi superiori, quando siano spaventate con pretese smodate e minacce di violenza, ascolteranno, provvederanno. E se non ascoltassero, non provvedessero? «A questa imbarazzantissima domanda - scrive Gaetano Salvemini - il Mazzini non risponde mai: una ipotesi di tal genere gli sembra così mostruosa e gravida di conseguenze terribili che il suo pensiero non osa di fermarsi "· Ben più esplicito e perentorio è un seguace del Mazzini, Carlo Pisacane, il quale, partendo dalla critica dell'ordinamento sociale odierno, pone a base del patto sociale questi princìpi derivanti da leggi che egli dice «eterne" ed «incontrastabili": 1) ogni individuo ha il diritto di godere di tutti i mezzi materiali di cui dispone la società, onde dar pieno sviluppo alle facoltà fisiche e morali; 2) oggetto principale del patto sociale, il garantire ad ognuno la libertà assoluta; 3) indipendenza assoluta di vita, ovvero completa proprietà del proprio essere, epperò: a) l'usufruttazione dell'uomo all'uomo abolita; b) abolizione d'ogni contratto ove non siavi pieno consenso delle parti contraenti; 9
e) godimento di mezzi materiali, indispensabili al lavoro, con cui deve provvedersi alla propria esistenza; d) il frutto dei propri lavori sacro ed inviolabile. Quali i mezzi per attuare questi princìpi? Il Pisacane non fa conto nè sul principe, nè sulla classe dirigente, come fa il Mazzini, nè sull'educazione del popolo, ma soltanto sul popolo lavoratore,• tenendo strettamente ·congiunta la rivoluzione nazionale colla rivoluzione economica. « Il socialismo o, se vogliasi usare altra parola - scrive - una completa riforma degli ordini sociali, è l'unico mezzo che, mostrando a coloro che soffrono un avvenire migliore da conquistarsi, li sospingerà alla battaglia ». « Schiavitù o socialismo·- esclama - altra alternativa non v'è». E soggiunge: « Non è l'uomo che deve educarsi, ma sono i rapporti sociali che debbono cangiare affatto, e ciò basterà per trasformare un popolo di egoisti e dissoluti in un popolo di eroi; amor di patria vi sarà quando l'utile privato verrà indissolubilmente legato coll'utile pubblico, quando ?gnuno, adoperandosi per proprio bene, farà eziandio il bene dell'universale». Pur non avendo il Pisacane presumibilmente avuto notizia degli scritti del Marx, nè dello stesso Manifesto dei comunisti, vi è un notevole parallelismo tra lui e il pensatore di Treviri nella concezione del materialismo storico, nel distacco dall'utopismo e nella sua critica, e nel fondare ogni fiducia, pel trionfo del socialismo, nelle forze delle masse lavoratrici ed in quelle soltanto. L'efficacia degli scritti del pensatore italiano fu, però, si può dir nulla, perchè, apparsi nel 1860, tre anni dopo la morte di lui massacrato nei burroni di Sansa, rimasero circoscritti entro una breve cerchia di amici e di estimatori devoti, e non arrivarono mai a conoscenza del popolo lavoratore italiano. 10
Il quale, frattanto, doveva cercare da sè la sua via senza alcuna guida dottrinaria, sul terreno pratico, seguendo gli impulsi dell'impellente bisogno, organizzandosi nelle timide e ancor anodine forme della mutualità, tentando la cooperazione di consumo e, a tratti, scattando con Io sciopero e col tumulto incomposto e sanguinoso e drasticamente represso. Perchè, dopo le rivoluzioni del '48-49, grava su tutto il Paese un'aurà di restaurazione, e le forze conservatrici, rappresentate da nobiltà imborghesitasi e da borghesia nobilitatasi, si mescolano e ·sostengono le ideologie conservatrici o moderate, appoggiate sia dai borghesi che fan parte dell'alta burocrazia, sia dai medi, dai piccoli impiegati e dai professionisti i quali, essendo clienti della borghesia possidente e della nobiltà, ne proclamano le benemerenze La monarchia fece sua la rivoluzione politica e aderì, secondo l'espressione di Giuseppe Ferrari, alla « rivoluzione del ricco». La « rivoluzione del povero », il rinnovamento sociale, restò implicitamente escluso nello stesso momento che veniva escluso il programma repubblicano dei suoi profeti, e « lo Statuto - osserva Giuseppe Rensi - non fu se non la valvola di sicurezza che impediva la rivoluzione del povero, nel mentre agevolava quella del ricco». Tutti, in difesa delle ideologie borghesi e dei loro interessi, per combatterli, mettono generalmente in un fascio socialisti e comunisti, dominati come sono dai terrori alimentati a bella posta dal clero. Così, si poteva leggere nel 1851 su L'Armonia: « L'idea pagana del " godere " riconquista il mondo, la terra è il tutto, il cielo è dimenticato: non si pensa che alla materia, si dimenticano le leggi spirituali e morali; la ricchezza, l'industria, i sensi sono il 11
vitello d'oro, innanzi a cui si battono e si prosternano i popoli. Ecco la via spianata al socialismo ». Dovranno passare quarant'anni e apparire il Manifesto dei comunisti e il Capitale di Marx e l'Internazionale e la Comune parigina perchè ben altro linguaggio informi la leoniana enciclica Rerum novarum, dove, pur affermandosi che " togliere dal mondo le disparità sociali è cosa impossibile », si enunciano i doveri dei capitalisti e dei padroni così: "non tenere gli operai come degli schiavi, rispettare in essi la dignità dell'umana persona», mentre si dichiara che "quello che veramente è indegno, è abusare d'un uomo, come di cosa a scopo di guadagno, nè stimarlo più di quello che valgono i suoi nervi e le sue forze ». A partire dal 1860, e specialmente nel 1861 che· fu un anno di miseria per le classi operaie, spesseggiano gli scioperi, in testa quello di seicento tipografi milanesi che· porta alla formazione della "Società fra gli artisti tipografi,,. Ma dove gli scioperanti non sono sostenuti dalle loro società di mutuo soccorso sono sconfitti, sia che domandino la diminuzione delle ore di lavoro, oppure aumento di salario. Negli anni 1862, '63, '64 il movimento operaio procede, si allarga e si accentua col crescere del numero delle società di mutuo soccorso, delle cooperative di consumo e specialmente delle cooperative di produzione, favorite dal credito delle Società operaie, delle Fratellanze artigiane e delle appena create Banche di credito sul lavoro. In Parlamento i rappresentanti del Paese, di qualunque colore politico, compresa la stessa sinistra, preconizzavano la libertà di commercio, la libertà delle banche, il suffragio universale e un equo riparto delle imposte, respingendo quelle che " colpiscono gravemente le classi bisognose», e, nell'ordinamento amministrativo, « lo scentramento pieno ed assoluto ». 12
Nella seduta dell'n di giugno del 1863, il garibaldino Siccoli, deputato di Pontassieve, interpellante sulle misure di polizia prese contro alcuni operai falegnami di Torino, macchiatisi del delitto di sciopero, affermò che la questione grave dell'epoca era la questione sociale; ma il suo ordine del giorno che invitava il Ministero a presentare un progetto di legge riguardante la formazione di collegi arbitrali per risolvere le divergenze fra operai e datori di lavoro, e che il ministro Peruzzi respinse, non raccolse nemmeno un voto favorevole! L'Italia era, infatti, fino a quel tempo, tra i paesi più arretrati del mondo in fatto di legislazione s·ociale. Soltanto nel 1865 il movimento operaio italiano assume colorazione politica socialistica, allorquando entra in Italia l' « Associazione internazionale dei lavoratori », costituitasi l'anno prima a Londra, col passaporto, se cosi può dirsi, del Mazzini, ben presto dissenziente dalla concezione di Marx, come, dissenziente da questo, sarà il russo Michele Bakunin. Questi, dopo aver partecipato alla rivoluzione del '48 a Parigi e a quella di Dresda nel '49, ev:aso dalla Siberia dove era stato deportato, discese in Italia, per svelare ai giovani l'insufficienza, la tiepidezza, il dogmatismo del Mazzini, e soprattutto la sua somministrazione di soporiferi di marca borghese nel nascente movimento operaio e costituì, sul cadere del 1864, prima, con poca fortuna a Firenze, poscia a Napoli, una «Alleanza della democrazia socialista» o «Fratellanza», segreta e insurrezionale, che si proponev.a di dare la proprietà della terra ai contadini e degli strumenti di lavoro agli .operai. Nel 1868, anno di miseria, di crisi industriale, di difficoltà finanziarie dello Stato nella grande fatica di recuperare l'equilibrio del bilancio, e di svalutazione della moneta colle immancabili funeste ripercussioni sulla vita economica del Paese, frequenti 13
furono le esplosioni di m~lcontento popolare particolarmente contro l'odiata tassa sul macinato, aggiuntasi alla tassa di ricchezza mobile che già gravava sul bilancio dei salariati, e frequenti furono gli scioperi e le agitazioni operaie allargatisi a tumulti dei contadini così nel Mezzogiorno come nell'Emilia, al grido di « abbasso i ricchi» mescolato alle grida di «Viva il Papa», «Viva la religione», «Viva Francesco V», con molti uccisi, feriti, arrestati e processati. A questi tumulti in cui si ravvisava il primo sforzo del malcontento nelle classi rurali del nord e centro Italia e la prima occasione, per le sfere ufficiali, di accorgersi dell'esistenza di un problema sociale, rimasero estranei gli operai delle città perchè, avendo già raggiunto un più maturo senso della realtà, comprendevano ormai l'inutilità di certe rivolte incomposte contro il Governo e si convincevano che loro uniche armi più proficue e meno rischiose erano l'associazione e la resistenza. Così è che, dopo ripetute prove della fallacia dei tentativi insurrezionali e dell'insignificante sviluppo della propaganda bakuniniana in Italia, e dimostratasi la relativa maturità dell'elemento operaio" e artigiano, va mettendo radice l'« Associazione internazionale dei lavoratori », cui dette impulso e credito, nel 1871, il movimento della Comune parigina che, pur essendo avversato dal Mazzini come troppo materialistico, incontrò nei giovani profonde simpatie ed entusiastica diffusione dei suoi principi. Sta di fatto che «i socialisti, intorno al 1890 - come nota Giovanni Spadolini - attraggono, seducono, conquistano, disorientano e disperdono tutti gli ex-giacobini, i reduci di Mentana e di Digione, i garibaldini dell'ultima leva, i focosi ribelli di Romagna, i fedeli di Cesena e di Ravenna che volevano distruggere insieme trono e altare, prefetti e vescovi, preti e carabinieri». 14
Fra quei socialisti che più seducevano e conquistavano la gioventù era, di quella generazione nata dopo il 1850 ed uno dei più animosi e più dotati di intelligenza, l'imolese Andrea Costa, il quale sarà, con Filippo Turati, l'antesignano del movimento operaio concretatosi, nel 1893 in Genova, nel Partito socialista dei lavoratori. Di Andrea Costa, di Filippo Turati e degli altri pionieri del socialismo italiano verrà detto in seguito. 15
MARIO LONGHENA ANDREA COSTA Son quaran_t'anni che è morto ed è vivo nel ricordo dei suoi conterranei, come se solo ieri fosse scomparso. I vecchi che lo hanno conosciuto, che lo hanno udito, che hanno ascoltato, con il respiro sospeso e con gli occhi attenti, certi suoi impeti oratori, ne hanno davanti alla mente la figura massiccia eppure distinta, il viso acceso ed espressivo, quegli occhi che, pur attraverso gli occhiali, mandavano lampi ed incutevano rispetto ed imponevano una sconfinata simpatia: gli altri che quarant'anni fa non c'erano od eran piccoli, ne hanno tanto sentito parlare dai padri e dai nonni da credere forse di averlo conosciuto. Tutto ciò è effetto di una realtà: Andrea Costa ha diffuso intorno, ha seminato intorno, ha sparso intorno a sè, per dove è passato, tesori di bontà, tesori di generosità, di sensi altruistici, di umanità intensa, di fratellanza vera, di solidarietà profonda. Per questo vive ancora Andrea Costa fra la sua gente, e vivrà a lungo; per questo molte case operaie hanno in bella cornice la sua faccia viva; per questo ancora lo si commemora, come un morto recente; per questo è invocato, santo protettore, nelle ore difficili, quando la fede vacilla e l'idea leggermente si offusca. Sua città natale fu Imola, terra di libertà, terra dove il pensiero ama esser libero e vuole liberamente espandersi ed affermarsi. Modesti i suoi parenti, lavoratori tenaci e probi, che si sacrifi16
carono per far studiare il figlio che prometteva; duri gli anni degli studi, perchè pieni di volontari sacrifici, sopportati lietamente. Sono stati questi anni, passati fra le difficoltà economiche e gli studi, in un ambiente che fortemente contrastava con la sua natura ribelle e con la sua indole assetata di libertà, che spiegano, giustificano ed interpretano gli anni di poi, densi di pensiero propagato, di attività svolta, di fede intensa istillata. Col 1851 comincia, e con il 1910 si conclude, la vita di Andrea Costa. Si può dire che un terzo della sua vita sia di preparazione allo svolgimento ed all'attività clegli altri due terzi. Negli anni 1851-1870 il figlio della forte, irrequieta, ribelle Romagna studia, dà mostra del suo vivido ingegno, della sua èisposizione agli studi, osserva ciò che gli sta intorno, accoglie nel suo cuore sensibile gli echi di tutte le ingiustizie, il suono doloroso di tutti i lamenti e di tutte le accorate proteste, la voce di tutti gli oppressi, di tutte le vittime. E mentre la sua mente avrebbe voluto sempre più spingersi fra i tesori della poesia e dell'arte, dimenticando le lagrime e i dolori della vita intorno, il suo cuore, terribilmente vigile, pronto sempre ad udire, delicato come pochi,· non vuole ·star soggetto alla sorella, anzi impone ad essa tutto l'assolutismo del suo comando. Gli studi· sono un'attività per l'uomo desideratissima, ma troppo legata alla soddisfazione sua: invece il lavorare per gli altri, l'agitarsi perchè agli altri siano miglior vita e più umani giorni, il fare perchè il male scompaia, la libertà illumini, le ingiustizie si attenuino, le disuguaglianze si accorcino e le iniquità cessino, tutto ciò vuole il suo cuore, e la mente sua si fa umile schiava del cuore. ·Io vedo questo, in Andrea Costa; e questo, per chi ben osservi, si fa sempre più chiaro, più distinto, più preciso, con forme sempre più nobili. Era all'Università appena, quando Roma è riunita all'Italia, quando la Comune di Parigi - dopo l'infausta guerra - ha lan17 2
ciato per °l'Europa i suoi sprazzi di fuoco e di sangue e le sue luci di speranza; era appena sulla soglia degli studi superiori, mentre il Partito repubblicano, forte in Romagna, aveva ancora il suo apostolo, e Garibaldi aveva fatto rivestire ai suoi la camicia rossa, portandoli alla vittoria .di Digione. Fari, questi, per un'anima non inerte, lampi che accendono un cuore nobilissimo, seduzioni, incitamenti, sprone potente, forte attrazione. E poi, quando ancora studiava e viveva nella sua Imola - nel 1867 - erano sorte qua e là sezioni dell'Internazionale. Era un'idea nuova quella che nel 1867 l'anarchico Michele Bakunin affermava con l'Associazione creata a Napoli e diffusasi poi altrove, e col periodico l'Eguaglianza, idea che le genti erano immature a cogliere, ma che i migliori sapevano afferrare con l'animo e farla loro. Ed il Costa fu uno dei primi ad aderire all'Internazionale con la passione de' suoi anni giovanili e con l'impeto della sua natura esuberante, tanto che, lasciati gli studi per la nuova attività, dal fondatore della nuova organizzazione, il Bakunin, fu scelto come segretario. Come scelta non poteva essere migliore, chè nel Costa aveva trovato eco l'idea internazionale e rispondenza piena di attività, consapevole e robusta. E da questo momento è un succedersi ininterrotto di attività meravigliosa di propaganda, ora aperta, ora segreta; è un correre dappertutto, è un parlare, un preparare agitazioni e sl?eranzose rivoluzioni. Costa, poco più che ventenne, esile di corpo, ma fremente di fede, è al centro di questo movimento che ora è tollerato dagli uomini che sono al Governo - uomini di destra - e se ne valgono come spauracchio per conservare il potere, ora è perseguitato ferocemente, come pericolo e minaccia alla tranquillità pubblica ed alla vita della Nazione. Dal 1871 al 1876 sono fughe audaci, arresti e processi clamorosi: Andrea Costa par che goda di tale vita, che è la sua vita, par 18
che sia nato e cresciuto per questo: le persecuzioni non lo spaventano, il carcere ed i processi e le condanne sono il battesimo soave alla bontà dell'idea, alla bontà dell'opera. Uomini sì fatti, se fossero più numerosi e più frequenti, accelererebbero il ritmo del progresso in tale maniera che l'umanità raggiungerebbe troppo presto le sue alte mète. Carlo Marx aveva lanciato la sua parola che era stata raccolta un po' dappertutto, era la parola collettivista-marxista; Michele Bakunin aveva negli stessi luoghi propagato il suo verbo anarchico: era la stessa idea internazionale che si vestiva di modi diversi e mostrava le sue due facce: era la stessa idea, che si salderà in un movimento unico e trionferà nel mondo, benedetta o bestemmiata. Naturalmente come tutte le idee, che sono forza e si traducono in fatti, anche l'idea internazionale ebbe amici devoti ed ostilissimi avversari; e mentre fra quelli sono da annoverare i seguaci di Garibaldi, che salutarono la Comune di Parigi come il primo sorriso alla redenzione del lavoro, fra questi, inflessibile e deciso, era il Mazzini. Onde le lotte, talora cruente, della Romagna, onde l'attrito profondo fra le sue concezioni, che ne ritardarono il trionfo e lo costellarono di tristezza. Andrea Costa fra tutte queste diverse correnti, tra questi pensieri affermantisi in modo diverso - frutto di ambienti non eguali e di temperamenti dissimili - non sosta per esaminarli singolarmente e per accogliere quello che più è adatto al suo gusto ed al suo animo, ma nel suo grande petto, che batte all'unisono di mille cuori - cuori di vittime, di sofferenti, di oppressi, di accoglienti tutte le speranze - dà posto a tutti i filoni_di pepsiero e di azione che scorrono per la nostra terra. L'internazionalismo è la piattaforma, è la base, è il limite sia pur vastissimo, ed in esso confluiscono vari torrenti, più o meno impetuosi. 19
Anche il torrente torbido della violenza, delle barricate, della rivoluzione vi confluisce, fatalmente, ed egli non lo respinge: il respingerlo sarebbe apparso strano da parte di un· uomo che viveva in un paese, dove il Risorgimento era stato segnato da numerosi crolli di troni e da movimenti di popolo, e che aveva assistito da lontano al tentativo parigino del 1871, che aveva passato la sua giovinezza in una terra dove la lotta politica assumeva sempre forme aspre e spesso s'era conclusa nel sangue. Il processo del 1876 è famoso e perchè egli venticinquenne ne fu centro e per i testimoni che vi deposero e per i valentissimi avvocati che difesero gli accusati e pronunciarono arringhe che ancora oggi vivono nella storia del socialismo. Il Costa, che pare travolto dalla valanga di movimenti, di correnti, di idee, di azioni, è colui che trarrà dal groviglio di intenzioni e di incertezze, di impeti e di audacie, aiutato dal vigile senso di equilibrio della· sua natura, lentamente, e ammaestrato dall'esperienza che segue con occhio limpido, e confortato dall'esperimento che non sdegna, ma accetta da buon positivista, quel Partito socialista, che costa, si può dir alto, a lui sacrifici, tormenti, lacrime e dolori. È creatura sua il Partito socialista, e tale creatura allevò con delicate mani. Come si poteva levar dai cuori la g101a di poter rivoluzionare · d'un tratto il mondo? Come si poteva persuadere che è opera lenta quella che porta' al benessere ed alla giustizia? E Andrea Costa scalpellò dal cuore dei suoi il tristo pregiudizio, portò la pace e la concordia fra repubblicani e socialisti ed instillò l'intima convinzione che solo l'educazione lenta delle masse, la preparazione adatta degli animi sanno mutar faccia ed avvicinare al progresso sociale, alla giustizia sociale.
Ma tutto questo egli non attuò d'un colpo. Mentre ripeteva che la rivoluzione è fenomeno necessario e da attuare, e che il mantenere gli animi in uno stato di continua attesa della rivoluzione è di vivo nocumento alla rivoluzione stessa, insinuava che l'uomo moderno, che vive della vita di tutti, non può escludere nessuna delle forme di manifestazione del pensiero, nessuna delle forme di lotta. Ed ecco Andrea Costa preso nelle asprezze della lotta amministrativa, preso nelle durezze della lotta politica. · Appena trentenne entra nel Parlamento italiano: è solo, ma battaglia come se una larga schiera lo seguisse; battaglia per tutte le cause alte e nobili, combatte la legge sul giuramento: è il primo suo discorso, a cui altri seguono sull'ammonizione, sul lavoro delle donne e dei fanciulli, sul riconoscimento delle Società di mutuo soccorso. Ma l'aver condotto il socialismo in Parlamento quante umiliazioni dà al suo spirito, travagliato ancora dalle •persecuzioni poliziesche e della magistratura! Si grida a lui il solito grido che da secoli è rivolto a chi ha il coraggio di riveder se stesso e di adeguare se stesso, onestamente, ai tempi: si grida al «traditore», al ,,venduto». Povero Costa! L'insulto non valse ad attenuare la sua fede cocente, non seppe diminuire l'ardore dell'apostolato; come non scemarono in lui le energie le condanne inflitte e reinflitte dalle Alte Corti, le fughe frettolose, gli esili tra la fame e l'abbandono. Nature sì fatte redimono tutte le bassezze di molte generazioni. Il 1892 è l'anno in cui i suoi sforzi hanno un coronamento pieno. Gli anarchici sono espulsi dal Partito socialista, e l'anno dopo ogni riserva dei gruppi che egli guidava è tolta. Aveva visto sorgere l'Internazionale socialista, vedeva ora - e quasi teneva al battesimo - spuntare il Partito socialista italiano, a cui non bisognava aggiungere altri aggettivi per renderlo efficacemente operante e caro alle plebi nostre. 21
Con l'anno fine del secolo si chiudono le sue vicende di dolore: trenta anni di lotte e di persecuzioni, trenta lunghi anni, una generazione. Ma la sua salute era minata dal male, che non gli permetteva di fare quel che avrebbe voluto, quello che sentiva di dovere al suo Partito, alla sua Idea. L'elezione sua a vice-presidente della Camera era il segno che la nuova Italia rinnegava tutto il passato di reazione e si metteva per nuove luminose vie. Andrea Costa non resta nella storia del socialismo italiano per bellezza di dottrine lasciate, per elaborazione di princìpi fissati: non è stato un teorico, non poteva essere un dottrinario. La realtà di fuori lo aveva preso tutto, lo aveva completamente assorbito: la strada, il comizio, il dolore dei molti, le speranze dei· molti, le aspirazioni, i propositi dei mille anonimi, ecco il suo campo. E qui operò bene, operò con sacrificio, con dedizione, non pensando a sè, dimentico di sè; onde di lui si può dire - ed è scultoria la definizione - quel che lui disse di un altro, il repubblicano Luigi Sassi: « cuore dei cuori». 22
LUIGI DAL PANE ANTONIO LABRIOLA La poliedrica figura di Antonio Labri~la, filosofo, storico, educatore politico e maestro sommo, interessa sotto molti aspetti e sempre più la storiografia politica e culturale del nostro Paes~. Ma, nella storia del movimento operaio italiano, nella storia del socialismo italiano, il nome di questo insonne e fervido pensatore ricorda, innanzi tutto, il primo felice ed ardito tentativo di saldare il nascente movimento operaio italiano alle correnti vive della grande cultura europea e alle esperienze dei più progrediti moti socialistici internazionali. Nato a Cassino nel 1843, il Labriola aveva assistito in Napoli alla seconda fioritura dell'idealismo e s'era formato alla scuola severa di Bertrando Spaventa. Nel suo spirito inquieto e sempre insoddisfatto s'erano, per così dire, scontrati i due grandi sistemi in cui aveva messo capo la filosofia classica, e cioè quello di Hegel e quello di Herbart: idealismo e realismo, monismo e pluralismo, anticipazione di ogni metodo nella onnisciente dialettica e specificazione dei metodi, fenomenologia dello spirito ·e psicologia . scientifica. Dalle esperienze giovanili traggono probabilmente motivo alcuni caratteri della personalità del Labriola: l'atteggiamento laico ed anticlericale del suo pensiero e della sua azione - laicismo che va inteso nel più largo senso come indipendenza da chiese, da 23
partiti e da sette -, la coscienza dei valori nazionali, l'amore della libertà e lo sdegno contro la corruzione politica, caratteri che impressero poi un tono personale e peculiare al suo socialismo. Nel campo del pensiero filosofico il Labriola impersona la ribellione contro la filosofia sistematica e il rifiuto delle ricerche intorno a una realtà che stia al di sopra, al di sotto o al di là dell'esperienza. Già nell'insegnamento dello Spaventa era posta l'identità di lavorò e di storia; l'esperienza posteriore del Labriola getta le basi di un arricchimento e di una determinazione del pensiero del suo vecchio maestro in senso realistico, che si concluderanno in un ripensamento del materialismo storico inteso come ccfilosofia della praxis >>. Il Labriola ha ripudiato fin dalla giovinezza l'idea del « puro » filosofo formatasi nelle scuole medievali: per lui il filosofo non è il contemplatore e il risolutore degli « eterni problemi», per lui il filosofo deve partecipare alle indagini della storia e della scienza, come, e innanzi tutto, al travaglio morale e politico del suo tempo con l'opera pratica o con quella indiretta dello studio e dell' osservazione, con la coerenza della vita al pensiero, con la distruzione dei miti e dei conformismi, che incatenano l'uomo al passato. Da ciò l'attenzione ansiosa del Labriola per i problemi politici e sociali della sua epoca e la simpatia con cui avverti, sentì e comprese le forze innovatrici della storia contemporanea, apportatrici per lui di superiori forme sociali e di una moralità più elevata. Fedele alla sua concezione unitaria di pensiero e di azione, di teoria e di pratica, eccolo discendere dalla cattedra universitaria e mischiarsi col popolo, farsi educatore, organizzatore, agitatore, e poi, arricchito il suo spirito di nuove esperienze e di fermenti vivi, risalir sulla cattedra e portarvi, per la prima volta in Italia, la dottrina socialistica, e qui anatomizzarla, analizzarla, spiegarla nella sua origine storica e nei suoi svolgimenti. 24
Due problemi lo tormentano, prima in forma quasi inconsapevole, poi con piena e matura coscienza, da quando ha abbandonato le sue posizioni liberali, e specialmente fra il 1887 e il 1892: la costituzione di un partito politico del proletariato e la restaurazione del marxismo. Nel 1890, facendosi promotore di un indirizzo dei socialisti italiani ai socialisti tedeschi riuniti al Congresso di Halle, egli intese riunire le forze schiettamente socialistiche sotto la bandiera della democrazia sociale ispirata ai principi del marxismo, alla « forza educativa» e alla << maestà dell'esempio» della democrazia sociale tedesca. « Il proletariato militante - egli scriveva - procederà sicuro 'su la via che mena diritto alla socializzazione dei mezzi di produzione ed all'abolizione del presente sistema di salariato, fidando solo nei suoi propri mezzi e nelle sue proprie forze, e fermo in_ questa convinzione: che non gli è data speranza di progresso intellettuale e morale, nè garanzie di libertà e di costituzione democratica, se non è cambiato nei fondamenti l'assetto economico della convivenza sociale>>. « Non è più tempo di cospirazione e di sommosse - diceva in altra circostanza. - È tempo di resistenza organizzata, ma di veri operai, non mescolati a caso ai " radicalucci " e ai " piccoli borghesi ", di veri operai non ingannati dai politicanti, non fuorviati dai mestatori, non confusi coi turbolenti senza scopo e coi figuranti di dimostrazioni. " Operai, organizzatevi e conquistate i vostri diritti ", formate il partito dei lavoratori addestrati alla tattica della lotta di classe!». E a costituirlo e ad indirizzarlo codesto partito egli non lesinò di attività di passione di sofferenze, scrivendo, parlando, consigliando, spronando, criticando. Ogni mossa che gli sembrasse deflettere o deviare dalla linea che aveva tracciata sulla base dello studio delle condizioni italiane, illuminato da un pensiero fecondatore, lo trovò ostile ed avverso; pronto a reagire con le
armi della critica, sia contro le utopie, sia contro gli opportunismi e i comprom~ssi. Purtroppo la sua attività di agitatore politico non è che parzialmente documentabile e una gran parte sfugge perciò alla più attenta ricerca. Ma ogni dato nuovo che viene in luce ne attesta ognor più l'importanza. Importanza, soprattutto, per chiarire e lumeggiare la sua intelligenza degli uomini e delle situazioni italiane. Tale constatazione ci riconduce al secondo problema che affaticò il Labriola nella sua piena maturità di studioso: la restaurazione del marxismo. La prima cognizione che s'era avuta del Marx in Italia era lontana dal vero, ne sfigurava l'opera e il pensiero in mezzo a incrostazioni e a falsificazioni grossolane ed assurde. Il Labriola si prefisse di restituire il marxismo alla sua genuina forma nativa e di darne una interpretazione scientifica. Quindi, da un lato, la ricerca affannosa e faticosa di fonti originali, uno studio accurato e critico di esse e un'indagine genetica sulla formazione del socialismo e del marxismo come risultati dell'incontro di vari processi e serie storiche. E, dall'altro lato, lo sforzo di far servire il materiale criticamente vagliato ed elaborato, attraverso l'in-, dagine filologica e storica, ad una formulazione scientifica del marxismo. Il contatto con i socialisti militanti e l'esperienza vissuta di agitatore politico intorno al 1890 avevano deluso presto il Labriola circa la maturità degli operai italiani e dei dirigenti socialisti. « Ormai - scriveva a Federico Engels nel 1892 - l'azione pratica in Italia non è possibile. Bisogna scrivere libri per istruire quelli che voglion farla da maestri. Manca all'Italia mezzo secolo di scienza e di esperienza degli altri paesi. Bisogna colmare questa lacuna». Da tale stimolo nacquero i tre magistrali Saggi intorno 26
alla concezione materialistica della storia: In memoria del Manifesto dei comunisti (1895), Del materialismo storico (1896), Discorrendo di socialismo e di filosofia (1898). Questi Saggi rappresentano solo una parziale rielaborazione dei corsi tenuti dal Labriola all'Università di Roma a partire dal 1887, in un quindicennio rimasto famoso, nei quali egli rielaborò nel suo organismo teorico ed applicò all'interpretazione della storia la dottrina del Marx. La necessità di elaborare e di rielaborare, di interpretare e di applicare, di restaurare e di approfondire, unita ad una vigile consapevolezza della esattezza scientifica, doveva fare del Labriola un marxista «critico», talvolta anche un critico del marxismo, e non un marxista dogmatico. Ma questa sua posizione non gli impedì di essere un accanito difensore del!'« au_tosufficienza" del marxismo. Le due cose non sono contradittorie, quando si pensi che il Labriola - di contro e in contrasto con l'unilateralità dell'idealismo da una parte e del materialismo dall'altra - interpretò il pensiero del Marx come «filosofia della praxis "· In qual modo deve intendersi tale« autosufficienza"? Non rispetto alle scienze particolari, non nei confronti dell'esperienza storica e sociale, non rispetto alla filosofia come critica ed elaborazione dei concetti, ma nei riguardi dei sistemi filosofici e dei «miti" di ogni specie e natura. La filosofia della «praxis " si pone così al centro della scienza e dell'uomo specialmente come metodo di ricerca e di concezione, come critica intellettuale delle forme ideologiche del pa~sato e del presente. In ciò sta inclusa anche una peculiare concezione morale che si connette al posto che il« lavoro>>assume, per il Labriola, nella conoscenza, nella società, nel dominio dell'uomo sulla natura, nella creazione della sua libertà. Eppure, con tutto questo, il marxismo non rappresentava per il Labriola un surrogato dei vecchi sistemi a base metafisica, una 27
visione intellettuale di un gran piano o disegno, ma era soprattutto - come s'è detto - « un metodo di ricerca e di concezione», nel quale trovavano posto sia tutti i processi di cose che divengono, sia la virtuosità logico-formale di intenderle per divenienti. Cori ciò l'interpretazione del marxismo come materialismo metafisico e naturalistico era sfatata. La storia era riportata al suo vero soggetto che è costituito dagli uomini che lavorano per soddisfare i loro bisogni e che, per soddisfare tali bisogni, contraggono fra loro determinati rapporti. Nel complicarsi e nel mutare di tali bisogni sta l'impulso primo ai movime.nti e alle trasformazioni sociali, perchè per essi gli uomini sono costretti a entrare in lotta non solo col mondo esterno (natura), ma anche con se medesimi, con le loro creazioni storiche, con le loro attività precedenti, forgiatrici di condizioni, di rapporti e di forme sociali. Come l'uomo non conosce e _non comprende se non facendo, così non cambia le condizioni del proprio vivere se non mutando se stesso, e reciprocamente non muta se stesso se non cambiando le condizioni esteriori. Ecco la concezione della storia come lotta di gruppi, di ceti, di classi, lotta delle forze attive contro la cristallizzazione dei rapporti e delle forme costituite. Lotta quindi, principalmente, contro forme di produzione e rapporti di proprietà, perchè tra i bisogni che stimolano le attività sociali umane quello economico è certo il più forte, impellente e generalmente sentito. Il marxismo, così rielaborato e ripensato, doveva diventare a giudizio del Labriola, una poderosa arma nelle mani del proletariato italiano, una bussola intellettuale per dirigere l'azione di questo verso il socialismo. Così il pensiero nato dalla vita e rielaborato criticamente attraverso il lavoro scientifico, sarebbe ritornato nell'azione celebrando di nuovo l'unità di teoria e di pratica. 28
Quest'ultima pos1z1one del Labriola, chiara in teoria, incontra difficoltà gravi nella pratica della vita politica; e se la sua intelligenza delle cose e degli uomini lo poneva in grado di realizzarla in se stesso, lo esponeva contemporaneamente alla delusione amara di non riuscire spesso a persuadere gli altri di quanto, per lui, era evidente. Donde un tormentarsi e un tormentare, un disperare frequente degli uomini e delle cose, che trovava remora soltanto nella spiegazione serena degli impedimenti alla semplificazione della grande lotta storica del mondo contemporaneo. Il tormento del filosofo era, in embrione, l'annunzio della crisi congenita del socialismo posteriore. Il Labriola si spense a Roma il 2 febbraio 1904 nel pieno vigore delle sue forze intellettuali. La prematura fine gli impedì di condurre a termine altri felici tentativi esplicativi ed applicativi del materialismo storico. Tuttavia la sua opera di scienziato e di maestro aveva già segnato il passo decisivo nella restaurazione del marxismo, nella quale egli non aveva mai smentito se stesso, la sua indipendenza e libertà spirituale. Ma se come ricercatore era stato sempre pronto ad inchinarsi al vero sperimentale, anche se inopinato o contrario alle prime presunzioni, come uomo era stato sempre coe_rente e saldo nei suoi ideali morali e politici, ricercati con lealtà, professati con disinteresse, difesi con coraggio e fino al sacrificio. Ciò nobilita ed accresce smisuratamente il valore dell'opera sua di scienziato e di maestro. 29
PAOLO TREVES FILIPPO TURATI E LA SIGNORA KULISCIOFF Quasi perduta nell'insegna pubblicitaria cli una famosa pasticceria milanese, sotto i portici della Galleria dove fu il n. 23, una piccola lapide ricorda che in quella casa, dal r892 al r925, Filippo Turati e Anna Kuliscioff profusero sui lavoratori il conforto della fede nel socialismo, Dice bene, la lapide di Alessandro Schiavi, quando parla di due vite intrecciate, perché è difficile tagliare rigidamente i contorni delle due figure, e se il grande pubblico conosce più il nome, che non l'opera, cli Turati, quest'opera è così inanellata a quella della sua dolce compagna, la signora Anna, che male si potrebbe stabilire dove l'una finisca e l'altra cominci, nel sodalizio di pensieri e d'intenti che solo la morte ha avuto il triste potere d'infrangere. Filippo conobbe la giovane russa a Napoli nel r884. A ventott'anni ella già aveva patito la deportazione, il carcere, l'esilio: la sorte comune a quella « élite» della nuova Russia libertaria e nihilista che ha il suo posto nella preistoria del movimento socialista internazionale. A Napoli, dove studiava medicina all'Università, Anna Kuliscioff era già socialista, aveva già rotto con l'anarchismo bakuniniano, e il giovane avvocato Turati doveva avere da lei il più sicuro impulso per orientare la sua vita verso la ricerca sociale e il socialismo. 30
Perchè quest'uomo che fu e rimane la migliore espressione del riformismo italiano, quest'uomo che non ha ancora trovato giustizià piena per la sua opera titanica, oltre le facili agiografie comiziali e gli accaparramenti elettorali anche da parte di coloro che da vivo più lo avversarono, allora si travagliava in una crisi profonda, alla ricerca di un « ubi consistam », di un senso effettivo da dare alla vita. Giovane, uscito da quella generazione che ebbe a maestro il Carducci, Turati non resistette alle lusinghe della poesia pura, in quel periodo tra il romantico e lo scapigliato, anche se parallele all'indagine positivistica. Come poeta in versi (raccolti nel 1883 in un raro volumetto di Strofe), Filippo non è certo diverso da molti altri del tempo suo; come sociologo, autore di un saggio sul Delitto e la questione sociale, Turati non si allontana molto dai corifei dell'evoluzionismo e del positivismo alla Ardigò. Ma qui trovò, com'ei disse, più di una pietra per l'edificio del suo pensiero dopo il distacco dalla fede tradizionale e dall'ordinato mondo borghese in cui era nato e cresciuto. Figlio unico d'un funzionario di prefettura e d'una gentildonna lombarda, Turati, non troppo premuto dalle necessità pratiche della carriera, se non avesse trovato il conforto della battaglia socialista avrebbe forse potuto andare alla deriva nelle acque stagne della inferiore poesia. Ma vi era anche nel suo spirito un diverso senso di insoddisfazione per le condizioni sociali del tempo, un bisogno di rinnovamento non solo personale ed estetico, quello forse che, sotto la dolce suggestione della giovane russa, lo condusse alle prode concrete della ricerca sociologica e dell'azione civile. Quando, nel 1891, una rivista letteraria d'allora, Citore e critica, si trasformò, sotto la direzione di Turati e l'ispirazione della Kuliscioff, in Critica sociale, il passaggio al socialismo scientifico 31
era avvenuto; e l'anno dopo la fondazione del Partito socialista sarà la tappa decisiva per il futuro orientamento di un'intera generazione. Forse, per i più, la storia di Turati comincia qui, si inizia in questo momento, senza tener conto del cammino precedente, della vicenda spirituale che condusse Filippo al socialismo, quella vicenda che tanto ·spiega del « suo » socialismo e della intera sua vita. Perchè non si conosce Turati uomo politico senza conoscere Turati uomo, quella sua bonaria ed amara malinconia espressa in un umorismo appena accennato, quasi uno schermo per nascondere una troppo ricca e appassionata umanità, che già lo prepara al rifiuto del rivoluzionarismo verbale e della faciloneria delle improvvisazioni demagogiche. A ciò, del resto, vegliava l'acutezza critica della Kuliscioff nel continuo, anche non espresso, dialogo; perchè non è certo far ingiuria alla memoria di Turati dire che forse il giudizio della signora Anna era più vivo e penetrante, più affinato e scaltrito, appunto perchè meno sentimentale e più inesorabilmente dettato ,dall'esperienza della realtà. E qui è uno degli aspetti più caratteristici e allo stesso tempo più difficili di questa unione d'affetti e di pensieri, perchè Turati e la signora Anna, così profondamente dissimili, pur si completavano nel pensiero e nell'azione in una costante e mirabile concordia discorde. Per chi, come me, Filippo e la signora Anna ha conosciuto dal giorno della sua nascita a quello della loro morte, è difficile dire di loro, perchè sa che le parole non bastano. Ciò che è ormai patrimonio comune, non è certo tutto ciò che essi hanno lasciato, offerto nella m~gnifica generosità degli spiriti veramente grandi. Filippo fu molto più di un uomo politico e la signora Anna molto più della silenziosa ispiratrice. Si potrebbe dire che insieme ..32
ai loro amici più intimi essi riuscirono a dare una nuova e diversa coscienza al socialismo italiano e quindi al Paese, e questa è opera che supera le vicende e le fortune di una parte politica. Infatti, in quei due decenni che vanno dal 'go alla guerra di Libia, passando per le repressioni del 1894 e soprattutto del 1898 che fruttarono galera e persecuzione ai nostri, in quei vent'anni si fece proprio l'Italia, o almeno quel poco di Italia paese civile e democratico che era possibile costruire dopo secoli di paura e di miseria, di invasioni straniere e di oppressioni domestiche, di fame e di angoscia, di sfiducia congenita verso lo Stato e la legge; e questa fu essenzialmente l'opera di Turati e dei suoi, rinnovata e affinata dopo la bufera che si scatenò tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del secolo, e che servì a Filippo per precisare e concretare il suo credo riformista, su cui si fonda ancor oggi l'essenza migliore del socialismo moderno. Furon quelli gli anni del suo maggior lavoro .e, se cosi vogliam dire, del suo permanente successo, e son gli anni che coincidono col sorgere e con le fortune di un uomo politico avverso ma non nemico, che da altri spalti e con altri fini comprese la funzione del socialismo parlamentare: Giovanni Giolitti. È ormai quasi un luogo comune parlare del « giolittismo » di Turati, anche se in ogni suo atteggiamento il leader socialista combattè Giolitti. Ma è anche vero che sia nella Camera che nel paese, con Giolitti si stabili un rapporto diverso da quello puramente negativo che esisteva con gli uomini che prepararono con la loro reazionaria legislazione e fecero con la loro paura il Novantotto. Dal Novecento alla guerra libica, fieramente avversata da Turati e dai suoi, son gli anni di questa collaborazione oppositrice, gli anni dei maggiori successi per il proletariato italiano. Anche, gli anni che videro alla prova il riformismo di Turati, che non fu mai un passivo belare di riforme senza legarle a un 33
piano generale ai mutazione sociale, ina che mai neppure. indulse all'inutile rivoluzionarismo dei massimalisti, che negava le riforme ma non sape;a nè poteva fare la rivoluzione. Questa, soprattutto, fu l'azione di Turati, per trent'anni nel Parlamento e per cinquanta nel Partito, senza cedere alle lusinghe della congenita retorica italiana, nè abbandonarsi alle chimere delle importate dottrine, dopo il dramma della rivoluzione bolscevica. Se durante la guerra del 1915-18 l'opposizione turatiana fu veramente patriottica perchè dettata dai permanenti interessi della parte maggiore del Paese, dopo la guerra e sino al fascismo la sua opposizione al massimalismo imperante sarà dettata da un'esatta valutazione della realtà e dal perico_loche egli vedeva sorgere a destra, sulla carenza dello Stato e delle istituzioni democratiche, sino al trionfo previsto e invano combattuto del totalitarismo fascista. Se, dal 1920 al 1922, Turati e i suoi intimi erano anche disposti ad assumere responsabilità di governo per tutelare le esigenze di giustizia sociale e di difesa della democrazia contro la minacèia intestina, dopo il crollo dello Stato liberale e il suo cedere alla congiura fascista furono proprio questi uomini del socialismo che sopra tutti si assunsero la tutela della libertà e della legge dello Stato. Dal 1922 all'assassinio di Matteotti, Turati difese in Parlamento essenzialmente il Parlamento come simbolo di libertà e di democrazia, e per questa difesa, dall'Aventino condusse ancora la battaglia contro il fascismo che sempre più si installava al potere e si mutava in regim~. Io vidi in quel periodo veramente morire a poco a poco la signora Anna e Turati, sotto l'urgere della bufera fascista, non ce,rto per il timore de) pericolo ma per il disgusto morale della vittoria ferina dell'avversario; e se l'ultimo giorno del 1925 la canèa fascista osò perfino aggredire chi recava la bara della signora• • 341
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