Gaetano Salvemini - Scritti vari (1900-1957)

Maestri e compagni Le nostre classi dominanti - sono queste le idee centrali della sua propaganda - credono che risoluto il problema politico, non ci sia per esse da fare oramai altro, che godere del nuovo stato di cose, badare ai propri interessi, arricchirsi. È questo un grande e pericoloso errore. Il nostro paese non possiede ancora quell'unità morale, che forma veramente una Nazione; è ben lontano dall'aver raggiunto quel livello di civiltà, che forma veramente una grande Nazione; la nostra libertà minaccia di trasformarsi in una fonte di mali assai maggiori di quelli del dispotismo, se non sapremo adoperarla come mezzo di progresso e di giustizia sociale. Io torno a Napoli - scrive nel 1875 -: il mondo è mutato per me e per i miei amici: la parola è libera, la stampa è libera, molte vie sono aperte avanti a me. La differenza è come dalla notte al giorno; se dovessi tornare al passato, mi parrebbe di scendere nella tomba. Abbandono le strade centrali, vado nei quartieri bassi e ritrovo le cose come le lasciarono i Borboni. I fondaci Scannasorci, Tentella, San Crispino, Pisciavino, del Pozzillo, sono là, sempre gli stessi, coi medesimi infelici, forse • ancora piu oppressi, piu affamati di prima. A che cosa serve a costoro la nostra libertà, la nostra unità, la nostra grandezza? Ah! Dunque la libertà che io violevo era una libertà per mio uso e consumo solamente?8 E nelle province napoletane, in Sicilia, nella campagna romana, ovunque nuovi tormenti e nuovi tormentati. - I contadini abruzzesi, per sfuggire alla miseria, scendono a lavorare nella campagna romana: Fanno otto ore di viaggio, chiusi e stipati nei vagoni delle merci, in piedi sempre, uomini, donne e bambini, col patto stipulato che a nessuno sia permesso scendere per via, neppure una sola volta; in mezzo alla malaria, accanto ai pantani, lavorano tutto il giorno; discendono, per dormire, in tane da lupi, dove pigliano le febbri; fra non molto saranno ridotti a pochi, perché vengono qui a seminare le loro ossa. Se questa è la vita che preferiscono, quale sarà quella che fuggono? [L]. La sottomissione del contadino meridionale al padrone è immensa. Ma non illudiamoci. Questa obbedienza non nasce da affetto e da stima. È fondata solo sull'antica persuasione che il proprietario può tutto, che il Governo, i tribunali, la polizia dipendono da lui, o sono una cosa sola con lui. Il contadin1 0 si potrebbe inginocchiare dinanzi al padrone, con lo stesso sentimento con cui l'indiano adora la tempesta e il fulmine. Il giorno in cui questo incanto fosse sciolto, il contadino sorgerebbe a vendicarsi ferocemente, con l'odio lungamente represso, con le sue brutali passioni [L]. Un paese, che presenta in tanta parte delle sue classi inferiori questa condizione intellettuale e morale, può pretendere di essere una grande Nazione? Può illudersi anzi di essere una Nazione? E non si dica che questi malanni si trovano solo nel Mezzogiorno d'Italia. L'Italiano d'una provmcia, quando nota con calma il male che germoglia in un'altra, e soddisfatto che ne sia immune il suo luogo nativo, non crede di dover 8 Lettere meridionali al Direttore dell'"Opinione," marzo 1875, pp. 18-19. Citerò da ora in poi questo scritto con la sigla L. 72 BiblotecaGino Bianco

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