Gaetano Salvemini - Come siamo andati in Libia

'' Come siamo andati in Libia" e altri scritti dal 1900 al 1915 dall'Italia il flagello di una politica imperialistica cerchino di avviare alla considerazione e allo studio di questi problemi l'attenzione del pubblico italiano. Alle due ragioni accennate per cui è utile far sentire al paese parole assennate se ne aggiunge un'altra, che forse neppure sulil'Unità è stata sempre tenuta nel giusto conto. Si è parlato molto (dagli altri in forma vaga, dall'Unità con la solita concretezza e precisione) dei vantaggi che l'Italia può trarre dalla guerra. Ora questa previsione dei vantaggi è cosa che può aver presa sulle alassi dirigenti, che certo nessuna spinta di ideali riuscirebbe a smuovere; ma non esercita se non uno scarsissimo influsso sulla grande massa popolare. E non soltanto perché questa è presa nel suo complesso, infinitamente piu idealistica come sono in generale le grandi moltitudini, in confronto dei gruppi poco numerosi, come specialmente sono gli insoddisfatti rispetto a quelli che hanno poco o nulla da desiderare; ma anche perché in realtà questa moltitudine si è abituata, dopo numerose esperienze, a pensare che bene della Patria e del Paese (specialmente se scritti col P maiuscolo) vuol dire bene di ristrette consorterie animate dal piu gretto e abietto egoismo. Io che non sono neutralista al modo che è comunemente inteso oggi, credo di poter parlare spassionatamente e dico che, se è doloroso per quanti aspirano a vedere accresciute nelle classi operaie quell'abitudine di studio e quel patrimonio di coltura che le rendano atte a padroneggiare, nel loro vantaggio, gli avvenimenti e le situazioni, viceversa è estremamente ridicolo e assurdo lo sdegno che certa stampa affetta per quello che qualcuno ha chiamato panciafichismo, del partito socialista e delle organizzazioni operaie. Ma vorreste proprio sul serio che costoro si commuovessero a sentir parlare di patria? ma che cosa avete offerto loro in questi cinquantacinque anni di vita nazionale, perché a questa patria si sentissero affezionati? E come volete che credano alla sincerità di chi parla in nome del vantaggio nazionale, dopo la volgare e indegna truffa della spedizione tripolina? e come volete che senta gli stimoli o si pieghi spontaneamente ai cosi detti doveri della solidarietà nazionale chi ha visto la borghesia italiana sottrarsi con cosi sfacciata disinvoltura agli oneri finanziari che da quell'impresa di Tripoli derivarono al bilancio delìlo Stato e della nazione; chi ha visto, anche piu recentemente, cosi misurati e lenti i palpiti di solidarietà e di pietà delle classi dirigenti italiane verso i miseri connazionali che lo scoppio della guerra ricacciava in patria? Questa folla ha centomila ragioni a rifiutar credenza a coloro che le parlano oggi di interessi nazionali; ha centomila ragioni di ritenere che annettere 1·rento e Trieste all'Italia significhi chiamare le classi operaie di quelle terre a soffrire le stesse miserie, ad esser vittime dello stesso egoismo, sotto cui soffre già in Italia tanta moltitudine di popolo. Ecco perché a qudla folla oggi dobbiamo prospettare il problema della guerra sotto un diverso punto di vista, piu confacente agli interessi suoi e soprattutto meglio riconnesso ai suoi ideali. Dobbiamo pertanto cercar di studiare un po' piu le conseguenze che la guerra potrà darci e i risultati che da essa possiamo proporci di trarre, non nel ristretto ambito della vita nazionale, ma in un'orbita piu vasta di interessi e di idealità: dire per esempio, che vogliamo che l'Italia propugni nel futuro congresso la riduzione degli armamenti e l'abbassamento delle tariffe doganali; e a queste condizioni, se deve intervenire, subordini il suo intervento; e dobbiamo spiegare perché pensiamo che éluesti risultati possano scaturire dalla guerra presente. Con questo intento io mi propongo di esaminare prossimamente sull'Unità alcuni aspetti de:lla questione doganale. Muc. 496 BibliotecaGino Bianco

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