Gaetano Salvemini - Come siamo andati in Libia

Perché dovevamo andare in Libia Ritengo fermamente - ha detto il Labriola, e ha detto benissimo - che l'impresa di Libia non costituirà mai un'opera colonizzatrice, come da alcuni si è voluto far ere• dere e anche dal capo del Governo, il quale, in un suo discorso, disse che in Libia avrebbe potuto andare un milione di italiani. Se questo il Governo ritiene, esso è stato tratto in errore, ed ha tratto in errore gli alltri. Complessivamente, vi sono 177.000 italiani sparsi nel bacino del Mediterraneo: assai scarso numero in confronto dei sei milioni e mezzo di italiani sparsi per il mondo. E queste cifre hanno una ragione molto ovvia, del resto, che sta nella genesi del fenomeno dell'emigrazione. L'emigrante italiano va ndlle città, non nelle campagne. Cosi avviene in America, in Algeria, da per tutto. La fatica pesante dei campi non lo alletta. U contadino lascia la terra non per prendere un'altra terra, ma per vivere in città. Del resto, basta consultare le pubblicazioni del Ministero e aa relazione della Commissione agrologica in Libia. Essa rileva che in Libia manca assolutamente l'acqua; biso• gnerebbe scavare dei pozzi, ma si otterrebbe in questo modo l'acqua solo a patto di impoverire le sorgenti delle oasi e di isterilire queste. La terra africana, eccettuata fa zona piu mediterranea, non potrà mai prestarsi ad una colonizzazione. Essa non vi si presta nemmeno dal punto di vista climatico ed igienico. La Libia non si presta ad essere meta di gruppi o di correnti di emigrazione. È un 'illusione il credere che ih Libia possa in un avvenire piu o meno lontano trovar posto un milione di italiani. Ciò posto, l'acquisto di quella miserabilissima regione, come non ha aggiunto nulla alla ricchezza dell'Italia - anzi l'ha diminuita, imponendole un permanente salasso annuo in pura perdita di almeno un centinaio di milioni - cosI non avrebbe aggiunto nulla alla forza economica di quell'altra nazione che l'avesse occupata, anzi l'avrebbe diminuita, imponendo ad essa piuttosto che a noi la detta passività. E dato che il male altrui sia veramente un bene per noi, la debolezza altrui sarebbe stata tanto di guadagnato per noi. Messo da parte il valore economico della Libia, avrebbe essa per noi un valore rhilitare? A questo sembra pensare il Labriola, allorché afferma che l'occupazione della Libia ha "reso impossibile che si accumulassero su l'altra sponda quelle forze nemiche, che potevano agire sulla parte meridionale del paese": e qui una magnifica dissertazione pirotecnica-sociologica sul mare che crea rivalità e non amicizie, sull'attrazione delle sponde opposte, sugli sviluppi verticali e orizzontali, ecc. ecc. Ma se cerchiamo di non lascia-rei abbagliare dalle grandi formule sintetiche, le quali spiegano tutto e perciò non spiegano niente, non possiamo fare a meno di domandarci: "Quali forze potevano accumularsi in Libia e di qui minacciare l'Italia meridionale? " Non certo le forze della popolazione indigena, cresciuta e addensatasi sotto un'amministrazione civile europea. Il paese - ripetiamolo - è miserabilissimo; e non ci sarà mai amministrazione cosI civile, che riesca a trasformare il deserto in giardini, e a sfamarvi molta piu gente di quella che oggi vi abita con tanta pena. Le forze minacciose, dunque, potrebbero essere solamente quelle forze militari, che la nazione padrona della Libia potrebbe ammassarvi, portandole dal di fuori, per minacciare di li il Mezzogiorno d'Italia. Ora quest'affermazione può, forse, valere per la Tunisia con la posizione 313 BibliotecaGino Bianco

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