Gaetano Salvemini - Come siamo andati in Libia

Facce toste 1 Giuseppe Bevione scrive nella Stampa del 27 settembre: Un anno fa tutti credevano - meno forse l'on. Giolitti - che la Libia sarebbe stata conquistata senza un grande sforzo militare. La resistenza deg(li arabi distrusse tutte le previsioni... perché le previsioni, che parevano piu logiche, sieno state smentite dalla realtà, si vedrà piu tardi, quando si vedrà l'ora della critica. Tutti credevano - scrive il gran Bevione - eccettuando da quel tutti il solo on. Giolitti ... forse. Ma dimentica di scrivere che uno dei maggiori responsabili di quella falsa credenza è proprio lui, Giuseppe Bevione, il quale novellava che con poche centinaia di uomini e due o tre incrociatori la Tripolitania si poteva sicuramente occupare. E vuol fare dimenticare ai suoi lettori che non tutti bevvero le panzane messe in giro da lui e dai suoi simili: la previsione della conquista facile era cos1 poco logica, che fu risolutamente contraddetta, per non ricordare altri, dall'on. Caetani fin dal giugno e dall'on. Mosca nel settembre del 1911.Quest'ultimo calcolava che occorrevano alla conquista almeno 80.000 uomini! I bevioni del nazionalismo sentono che s'avvicina per essi l'ora del redde rationem, e cercano di intorbidare le acque confondendo nella propria responsabilità l'intero paese. "Tutti credevano," dicono. E non aggiungono: "Fummo noi che facemmo credere a tutti la ignobile e pericolosa menzogna della passeggiata militare." Errare è cosa umana e non disonora nessuno. E ai nazionalisti tripolini nessuno avrebbe il diritto di rinfacciare come azione disonorante l'errore funesto in cui trassero l'opinione pubblica italiana, finché non fosse dimostrato individuo per individuo che il suo fu inganno volontario e consapevole. Basterebbe negare ad essi per l'avvenire ogni credito come ad uomini rivelatisi incapaci di adeguare il loro pensiero alla realtà, e compiangerli per il male che hanno fatto e per il rimorso che devono sentire. Ma questa gente non si adatta ad espiare in silenzio il proprio errore. Cerca di farlo dimenticare a furia di improntitudine e di sfacciataggine. Attribuisce il proprio errore agli altri, e promette di farne la critica, allorché sarà giunta l'ora opportuna. Fra poco arriverà a lodarsi per la propria prudenza e per la esattezza delle proprie logiche previsioni; e accuserà magari la piccola minoranza che si sforzò di far argine alle loro panzane, di avere create essa le illusioni smentite poi dalla realtà! 1 Pubblicato in "L'Unità," a. I, n° 44, 12 ottobre 1912, p. 176. [N.d.C.] 246 . Biblioteca Gino Bianco

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