indugi, la mia esitazione valse solo a misurare l'intensità del conflitto in cui il sentimento del dovere finì col prevalere. Risposi al telegramma che, per doveri di ufficio, non potevo in quel momento allontanarmi da Roma. Se, difatti, fossi partito per Rodi, al mio posto, automaticamente, sarebbe subentrato proprio quel gentiluomo di Favori, strettamente legato al fascismo e pronto a seguire il volere di quella gemma preziosa di magistrato che era Vincenzo Crisafulli. Indubbiamente, costoro, il giorno dopo la mia partenza avrebbero convocato la Sezione di accusa e fatto emettere la dichiarazione di incompetenza, rimettendo gli atti alla Commissione istruttoria del Senato, composta tutta di Senatori asserviti a Mussolini, i quali in breve volger di tempo avrebbero distrutto il nostro alacre lavoro, facendo sfumare il processo in una bolla di sapone ed operando il salvataggio degli assassini e dei loro mandanti e complici. Il 10 luglio, a quattro giorni di distanza dal primo, mi pervenne un secondo telegramma con l'annunzio della morte del mio caro fratello. Tenni a tutti celata la sventura che mi aveva colpito: la comunicai soltanto a Tancredi e Scagnetti. Ma cinque o sei giorni dopo, ignoro come e ad opera di chi, l'avvocato Bisceglie, cronista giudiziario della Tribuna, il più assiduo fra i giornalisti a seguirci quando l'ufficio si recava a Regina Coeli, venne a conoscenza del mio lutto. Apparve sulla Tribuna un trafiletto con le più vive condoglianze da parte del giornale e fu così che la signora Velia Titta, vedova Matteotti, apprese la triste circostanza. Ella si affrettò ad inviarmi una lettera di cordoglio, nella quale esprimeva pure la sua viva soddisfazione per il fatto che io, in quel grave e doloroso momento, non mi ero mosso da Roma ed avevo fatto prevalere, agli affetti familiari, il mio dovere di Magistrato. 136 Biblioteca Gino Bianco
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