Carlo Gide - Della abolizione del profitto

IO non si tratta d'altro), entra nelle spese di produzione esattamente come l'affitto dell'immobile: che l'immobile sia del padrone o semplicemente in affitto, ciò non importa; si conta l'affitto nelle spese generali. Nelio stesso modo si fa figurare l'interesse del capitale sia esso preso a prestito o sia di proprietà del padrone non importa. Un industriale o un commerciante che non ricavasse dalla sua azienda che il solo interesse del suo capitale non riterrebbe di avere realizzato un profitto. Egli riterrebbe giustamente di aver fattò meglio il suo interesse investendo il suo capitale in rendita dello Stato o in obbligazioni ferroviarie o non importa iin qual altro modo e vivendo così di rendita. Non conta come profitto che quello che si realizza in più - in eccedenza - dell'interesse. Gli economisti cercano un'altra spiegazione del profitto dicendo che esso è il compenso dei rischi. Ma noi non possiamo ripetere qui che ciò che abbiamo osservato per le precedenti spiegazioni. Il compenso e la previsione dei rischi contano nelle spese di produzione: essi costituiscono ciò che si chiama 1'ass-icuraz-ione. Salta subito agli occhi che il premio di assicurazione non fa parte del profitto ma del costo cli produzione. E' evidente che un imprenditore che non ritirasse dalla sua industria che la somma necessaria per pagare l'assicurazione contro i rischi, riterebbe di non avere realizzato alcun profitto. Ed egli avrebbe completamente ragione. E allora se il profitto propriamente detto non è nè il salario di un lavoro, nè l'interesse del capitale, nè il premio cli assicurazione, che cosa è dunque? Esso è il risultato di un monopolio, o, se questa parola vi urta, di una situazione privilegiata, cli una fortunata combinazione che permette all'imprenditore di vendere i suoi prodotti al disopra del prezzo di costo e di guadagnare la differenza. Ma guardate che la parola monopolio non svegli

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