UOMO - Anno III - n. 1 - febbraio 1945

disperdendo la corona di rose. I ragazzi torna– rono prigionieri. Cominciai a parlare di cose assolutamente insi– gnificanti, anche gli altri parlavano: ma dentro mi nasceva un odio esanime, come venendo a galla in lamine sottili distaccate dal mio vuoto interno, da una dimora vertiginosa. Poichè era nata una discussione in cui dominava la voce del– l'Elisabetta, mi gettai a capofitto nella questione, contraddicendola con ferocia. Quanto più il mio odio affluiva con crudeli parole ed io mi osser– vavo tanto spietato, venivo accorgendomi che esso non era diretto contro la mia interlocutrice, ma contro altri, forse l'Adriana di cui udivo solo il respiro un po' accelerato 1 o anche me stesso; ma come il riflesso d'un fuoco sul ghiacchio, quell'ira impersonale trascorreva lasciandomi poi gelido e viscido. I compagni tacevano stupiti da tale scop– pio: d'un tratto, senza che nulla potesse farlo pre– vedere, l'Elisabetta cominciò a piangere. Pian– geva con infantile compostezza 1 come remota, di là da sè: ma tanto più patetico quel dolore sprov– veduto, inerme. Anche oggi penso che con ogni probabilità non piangeva per le mie parole, per una quotidiana e banale ragione d'umiliazione; ma altro scioglieva in lei tanta angoscia. Mi sen– tii subito vuoto e stanco; a lungo restammo tutti in silenzio, seduti a semicerchio. Riaccompagnan– do a casa le nostre amiche, mi misi a fianco del– l'Elisabetta, senza tuttavia osare parlarle; solo quando ai piedi della scala ben conosciuta ci sa– lutammo, le chiesi scusa, evitando di guardarla in volto. « Non è nulla» disse l'Elisabetta con un leggero sorriso « non è colpa tua~- L'indomani venne presto l'ora della partenza. Parte degli amici lasciavano R. insieme con me: tra gli altri l'Adriana e sua sorella che avrebbero viaggiato sul mio stesso treno fino a B... Le stan– ze smorivano deserte nella debole luce dell'autun– no, ma noi avevamo ricoperto la nostalgia del di- 37

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