L'università libera - n. 10 - dicembre 1925

l'UN I vrns 1T ÀLI8EAA RIVISTA MENSILE DI COLTURA SOCIALE N. 10 - Dicemb1re925 - MILANO - VialeMonza7,7 ' GLI UNNI E ATTILA t Coloro che oggi sono uomini maturi ricordano come, agli inizi del secolo corrente, all'epoca della spe.dizione europea contro i « Boxers » cinesi, il Kaiser, l' imperatore Guglielmo II, ordinasse ai suoi soldati di comportarsi con i nemici così come si comportavano gli Unni: senza remissione é senza pietà, distruggendo e massacrando. Tutti poi rammentiamo come, nella guerra mondiale alla quale ahbiamo assistito, i nemici della Germania chiamavano « Unni » i tedeschi per sintetizzare in una sola parola le accuse di crudeltà loro rivolte. Infine, non v'è persona colta che non abbia sentito nominare come « flagello di Dio » il più famoso dei re unni., Attila, colui che si vantava che l'erba non crescesse più colà dove egli era passato. E per tutto il Medio Evo il nome degli Unni restò associato indissolubilmente alla nozione di ferocia senza pari, di barbarie senza limite. Questa triste fama passò poi ai loro tardi nepoti cui trasmisero il nome, agli Ungari ·(Ungari ed Unni sono una stessa parola), tanto che la lingua francese da « hongre >> (un- ' garo) fece « ogre », orco, e le madri per far paura ai bambini . cattivi li minacciavano di chiamare l' « ogre », l'uomo-demonio, : il nemico del genere umano. • · Chi furono realmente questi Unni, donde vennero, e conie si sparse per tutta Europa il terrore del loro nome? E qual è, secondo le indagini storiche più recenti (perseguite specialmente in Germania, dove Attila è popolare come uno dei personaggi dei Nibelungi) la vera figura del loro terribile re, del flagello di Dio? . L' antichità ci tramandò le opere di tre cronisti, contemporanei o di poco posteriori alle grandi invasioni unne del quinto secolo dell'era volgare, le cui pagine formarono sin quasi ai nostri tempi le sole fonti della storia unna: il greco Priscos, il goto Jordanes, il latino Prospero. l\fa gli antichi scrittori poco si occupavano del problema delle origini, e per lo più si·. limitavano a riferire vaghe leggende, senza controllarle al lume della critica; privi di documenti autentici, accettavano quanto i varii popoli narravano sulle prime età della loro v'ita:. nazionale. Soltanto la critica moderna fu in grado di rifare· dalle origini la storia degli Unni, come rifece quella di tanti altri

290 L' U N 1 V li R S l 'f À l'.. l B E R A :popoli antichi: gli Assiri, gli Egiziani, i Caldei, i Fenici: traendo, per quanto riguarda ·gli Unni, lumi e indicazioni copiosissime dagli annali cinesi. I cinesi furono per lunghissime età confinanti con gli Unni, i quali, come ora è assodato, sono originarii dell'altopiano degli Altai, catena di monti che separa la Cina dalle pianure siberiane: fra le due nazioni finitime si annodarono nel corso dei secoli numerose relazioni di pace o di gue!ra, e gli annali vetusti dei Cinesi ci tramandarono ogni sorta di notizie in merito ·ai loro vicini. Con l'aiuto di queste, e di altre fonti di cui oggi si dispone, si è ora in grado di accompagnare gli Unni dalla loro culla asiatica fino ai luoghi dove quasi improvvisamente si verificò la loro. scomparsa dal novero delle nazioni, la loro definitiva dispersione. Stirpe di sangue mongolico, abitatori antichissimi delle regioni altaiche e di quelle situate a settentrione del grande deserfo di Gobi, nel terzo secolo prima di Cristo gli Unni, cre- _sciuti in popolazione, ruppero i secolari rapporti di buon vicinato con la Gina e invasero questo paese. Lo occuparono, e vi _rimasero da padroni per circa duecento anni. Verso il 50 avanti ·Cristo, i cinesi' scossero il loro giogo, e scacciarono gli invasori; i quali, usciti dalla Cina, errarono per qualche tempo nelle steppe dell'Asia settentrionale, nei deserti della Tartaria, occupando quelle terre che oggi chiamiamo il Turkestan. Vi rimasero quasi un secolo: poi, sospinti dall'espansione cinese (la Cina, liberata dagli Unni, era diventata alla sua volta conquistatrice) ne uscirono e lentamente si avviarono verso l'Europa. Il loro cammino verso occidente fu lentissimo: a quel tempo, l'Europa e l'Asia anteriore formavano parte dell' impero romano, e fin quando questo si mantenne forte non fu facile ad alcun popolo barbaro violarne le frontiere. Ma dopo il secondo _secolo dell'era volgare la '})otenza romana si andò progressivamente indebolendo; i confini furono male difesi, e si iniziarono le grandi infiltrazioni barbai'iche, che a poco a poco si h'asformarono in immigrazioni in massa e finirono con travolgere e sommergere l'impeizo dei Cesari. Nei fasti romani, nella storia dell'occidente europeo, gli Unni fanno la loro prima apparizione dopo la metà del terzo s~colo dell'Era volgare. La romanità aveva già abbandonato il paganesimo per il cristianesimo, si era già scissa nei due imperi, d'occidente con sede in Roma,- d'oriente con sede in Costantinopoli. I capitali nemici dei romani, i Goti, divisi nei due rami dei Visigoti e degli Ostrogotì, occupavano le rive del Volga e stendevano il loro dominio fino al Danubio .. Un popolo bellicoso, gli Alani, possedeva le terre fra il Volga ·e gli Urali. Nella loro irresistibile marcia verso l'Europa, gli Unni si imbatterono dapprima sugli Alani: in parte li distrussero, in parte _li §9ttomi§_ero, ~ggregando ai proprii ~sercJt~ la giove!_1tì1al~1_1~.

L'. U N l V E I\ S l 'l' À L I B E R A 291 Così rafforzati, si lanciarono contro i Goti, li vinsero, e li costrinsero a varcare il Danubio: un accordo con l' imperatore rç,mano permise ai Goti di stabilirsi nelle provincie romane situate a sud del gran fiume. Ma non era possibile agli Unni lìestare tranquilli nelle nuove sedi conquistate: mandarono di là spedizioni in Asia, devastando e saccheggiando l'Armenia e l'Anatolia; mentre altre loro schiere entravano nella penisola balcanica, desolavano la Mesia e la Tracia, portando dappertutto la strage e l'incendio. Usavano radere al s1Ìol6 le città prese d'assalto, sgoz.zare l'intiera popolazione, tranne le donne e i fanciulli che traevano in schiavitù; sottopone~ 11"0 i prigionieri di guerra ai più raffinati e mostruosi supplizi; tramutavano in deserti le floride regioni dove si erano abbe-<ierati i loro cavalli. Nessuno dei popoli barbari che li aveva preceduti nell'invadere le provincie romane lasciò un ricordo così spaventoso come quello che si accompagnò alle loro gesta: i .Goti, gli Avari, gli Alani, i Vandali parvero angeli in confronto dei diabolici guerrieri unni. Le stesse" donne degli mrni gareggiavano coi loro mariti nel dare prova di ferocia, nell'infierire sui vinti: e le leggende raccontav mo che dopo la vittoria bevevano il fresco s~ngue dei vinti scannati. · •ì Quando già una serie di re abili e fortunati li aveva condotti ad un alto grado di potenza, quando già dagli Altai originarii erano giunti al Danubio, il destino diede loro un capo che fu uno dei più valorosi e dei più accorti conquistatori dell' antichità: Attila. Egli, e suo fratello Bleda, salirono al trono l'anno 434, alla morte del re Rua loro zio: per otto anni Attila si adattò a dividere il trono col fratello: poi, avido di regnare solo, uccise Bleda e si trovò capo unico e incontrastato del suo popolo. Quand_o Attila iniziò il suo regno, lo Stato di cui si trovò padrone occupava già una immensa estensione. Obbedivano al re unno gli Ostrogoti, i Gepidi, gli Eruli, i Rugi. Appena cinta la corona, Attila vinse i Burgundi, domò tutte le nazioni che vivevano fra il Mar Nero e l'Adriatico, spinse le sue armi fin nella Svezia e nella Scandinavia. I Longobardi e i Marcomanni si riconobbero suoi vassalli. Cosicchè ormai egli, come scrisse Chàteaubriand, << dal fondo della sua città di legno, fra le praterie della Pannonia, non sapeva quale delle sue due braccia stendere per impadronirsi dell'impero cl' oriente o idi quello d'occidente, e se gli convenisse cancellare Roma o Costantinopoli dalla faccia della terra».' Intorno all'anno 440, cioè quando Attila fu unico re degli unni, lo riconoscevano per loro signore tutti i nomadi delle steppe tartare e: sarmatiche, tutte le tribù slave, quasi tutte le razze germaniche, insomma il mondo barbarico quasi intiero, dal Caspio e dal Mar Nero fino al Baltico e al Reno. Dopo Roma, non si era visto mai un impero così ~~sto e p_oJ~!_1J~E--ra fatai~ che esso si urtasse cori J.{oma

292 L'UNIVERSITÀ LIBERA - con la Roma del Tevere e con quella dell'Ellesponto: e Attila si. preparò al colossale conflitto, armando ed equipaggiando i cinquecento o seicentomila guerrieri che si tenevano pronti ~d accorrere sotto le sue insegne. Dapprima l'Unno diresse il suo attacco contro l'impero bizantino, dove regnava un monarca debole e dissoluto, Teodosio II: respinte facilmente le imbelli truppe greche, giunse. fin sotto le mura di Costantinopoli; e soltando cedendo l' Illiria e pagando un gravoso tributo Teodosio comprò dal suo vincitore la pace e una precaria esistenza. Sbarazzatosi così di uno dei suoi rivali, non fece più mistero del suo proposito di scagliarsi sull'occidente, assoggettando le Gallie per poi ~operare le Alpi e puntare su Roma. Come si diffuse in occidente la notizia dei propositi e dei preparativi militari di Attila, un indicibile terrore pervase le popolazioni minacciate .. Gli abitatori della Gallia, direttamente minacciati dall'ambizione unna, ravvisavano i. più fune.sti presagi in ogni fenomeno del delo e della terra. Troppo noti erano questi barbari,' che la fantasia popolare diceva generati nei deserti scitici da accoppiamenti di streghe e di spiriti infernali, troppo nota l'implacabilità loro, perchè le Gallie non credessero giunta la loro ultima ora. Nei decennii precedenti, bande di soldati mmi, nelle tregue fra l'una e l'altra delle loro guerre nazionali, si erano arruolate al servizio di Roma, combattendo sotto le insegne cesaree contro altri barbari aggressori dell'impero: e così i romani avevano imparato a conoscere non solo di f:,una ma anche coi p ·oprii occhi quei selvaggi dall'aspetto truce, quei cavalieri dall'orrendo volto, dalla pelle livida, dai piccoli occhi profondamente infissi nella testa, dal naso schiacciato, dalla- barba rara ed ispida, che vivevano di carne cruda e di latte acido e quando difettavano i viveri bevevano il sangue dei loro cavalli. Di fronte alla grandezza del pericolo, l'imperatore romano, Valentiniano III, comprese la necessità di collegare contro Attila tutti i popoli che ancora non gli obbedivano. Valentiniano aveva una sorella, Oqoria, che qualche anno innanzi, cedendo alle imposizioni di Attila, aveva promessa in isposa a costui: ma quando Attila era parso meno terribile, l'imperatore aveva dimenticata la promessa e concessa Onoria in moglie ad un patrizio romano. Per trovare un pretesto a rompere in guerra contro Roma, Attila chiese a Valentiniano l'adempimento dell'antica promessa. Valentiniano rispose che Onoria non era più libera, e che un matrimonio fra cristiani essendo indissolubile, egli non poteva togliere la principessa' al marito per unirla in matrimonio al re unno. Questi replicò che sarebbe venuto in persona, alla testa del suo esercito, a prendersi la sua fidanzata; dichiarò guerra a Roma, e passò il Reno, che allora formava il confine tra i possedimenti unni e quelli romaJt,

L' U N I V E R S I T À L I B E R A 293 Valentiniano affidò la condotta della guerra e la preparazione diplomatica di essa ad un prode generale che in passalo più di una volta, quando Roma pareva presso a soccombere all'urto dei barbari, l'aveva salvata con la sua spada: ad Ezio. Ezio strinse alleanza coi Visigoti e con le altre nazioni barbare della Gallià, della Spagna, della Germania meridionale non sottomessa agli unni; addestrò le milizie romané,, raccolte da tutte le superstiti provincie d~ll'impero; ma non 'potè evitare che, prima che egli si trovasse pronto ad affrontare in battaglia campale Attila, questi avesse agio di devastar gran parte della Gallia. Le orde unne, aumentate dei contingenti dei popoli soggetti, ridussero le ricche campagne e le popolose città, della Francia settentrionale in un mucchio di squallide rovin_e. Parigi fu rispa:rmiata, e i suoi abitanti attribuirono la s.alvezza al miraco- 'loso intervento della _peleste. patrona della città, santa Genevieffa. Meno ·fortunata, Orléans, dopo un duro assedio dovette aprire le porte ad Attila. Il vincitore la mise a fuoco e a sangue. Ma mentre ancora una parte dell'esercito unno si attardava nella città occupata, ecco giungere Ezio con le legioni romane. Il presidio unno fu tagliato a pezzi, e Attila col grosso del sùo esercito si accampò nella pianura di· Chalons, ché allbra portava il nome latino di Campi Catalaunici. Colà avvenne lo scontro decisivo fra Unni e Romani, colà si combattè una delle più importanti battaglie dell'occidente. Era in giuoco il destino dell'occidente; si doveva stabilire se questo sarnbbe diventato mongolo o rimasto latino. « Fu - scrive lo sto1:ico Jordanes -, una lotta orribile, immensa, inaudita; una carneficina senza pari; l'antichità non racconta nulla di simile, e vi si compirono tali imprese che nu_Ila era al confronto tutto quanto _fino allora s'era visto. Un piccolo ruscello che attraversava il campo di battaglia si gonfiò di sangue e inondò i prati vicini ». La vittoria arrise decisamente ai Romani: Attila si rinchiuse tn un quadrato formato dai suoi carri di guerra,. pronto a perire tra le fiamme . piuttosto di cader prigioniero; ma nella notte successiva alla battaglia i principali alleati dei Romani, i Visigoti, ritènendo _ terminato il loro còmpito con la sconfitta degli Unni, si separarono da Ezio e presero la via del ritorno verso le loro sedi. Così Attila ebbe agio di riordinare le sue schiere; e, abbandonato il disegno di conquistare la Gallia, passò le. Alpi ed entrò in Italia. Desolata la Lombardia indifesa, le orde unne marciarono sulla città ,di Aquileja, e dopo un lungo assedio la presero e !a rasero al suolo. Fu in quella occasione che numerosi abitanti delle terre venete, cercando scampo e fuggendo dinnanzi all'invasore, si rifugiarono nelle lagune dove fondarono Venezia. Da Aquileja, Attila puntò su Roma. Tirò fuori ancora una yoJta le sue pretese sulla principessa Onoria, l'antica sua fidan-

294 1,' u N I V E n s I T À I, I n E R A zata, sorella <lcll' imperatore: e mandò a intimare a Valentinia..._ no I TI di consegirnrgli Onoria, con metà dell'impero a titolo di dote, se non voleva che Roma cessasse di esistere. L' imperatore gli mandò incontro il papa, Leone, con ricchi doni e con la promessa di un ingente tributo se consentisse ad uscire ~• Italia: e Attila, le cui forze erano indebolite da epiùemie, dopo essersi fatto alquanto pregare accettò i doni e il tributo, e ritornò al suo paese, - la Pannonia, che oggi chiamiamo Ungheria. Coli.i, mentre celebrava le sue nozze con una nobile fanciulla destinata ad accrescere il numero delle sue spose, durante una notte di orgie, Attila fu colto dalla morte. I suoi guerrieri gli fecero funerali quasi divini. Ma con lui perì la sua nazione, e il terrore del nome unno. Divisi in tribù innumerevoli, si fusero a poco a poco coi popoli vicini; e dopo d'allora non comparvero più nella storia. Uscito dalla storia, Attila entrò nella leggenda. Col nome di Etzel figura, come già dicemmo, nel grande ciclo germanico dei Nibelungi-:" L' alto Medio Evo gli dedicò dei poemi in lingua latina. Il francese Corneille e il tedesco W erner intitolarono a lui una lÒro tragedia. E per lunghi secoli egli personificò nel mondo occidentale la crudeltà più efferata e l'astuzia più scellrrata. Crudeltà e astuzie che, del resto, sono indicate dalla storia come le caratteristiche non del solo Attila, ma di tutti i conquistatori di razza mongola o tartara. A mille anni di distanza, un capo della stessa stirpe doveva empire di spavento l'Europa. Fu questi il famoso Tamerlano, del quale parleremo un altro giorno ai nostri lettori: Tamerlano, che coi cranii dei guerrieri vinti coslrusse nel Turkestan piramidi più alte di quelle che con massi di granito elevarono i Faraoni in Egitto, ANGELO TREVES In prepctra:zione: PIETRO KROPOTKIN E T I e A ORIGINE ED EVOLUZIONE DELLA MORALE Pritna edi.zione itaUana a cura di Lnigi FalJlJri .Prenotazioni a· L. 8 dall'Italia; dall'estero L. ro CASA EDITRICE SOCIALE, Viale Monza, 77 - MILANO

LA FILOSOFIADI lBSEN ci) 'Il Francese esige verità bell'e fatte, semplici e stabili. Avido di precisioni affermative o negative, la sua impazienza defini ce il sole_dai pallori dell'alba. Non appena conobbero un sol lavoro d'Ibsen, i nostri critici si fecero dell'autore un ritratto preciso ed immutabile. Più tardi, quando altri drammi non si lasciarono rinchiudere nel loro sistema, dichiararono -intrepidamente che Ibsen si contraddiceva, che lbsen si confufa'Va e si canzonava da sè. Falsa d'arida povertà e di precisione hhmobile, l'immagine che costoro si fanno d'Ibsen lo tradisce come, una traduzione goffa ed insieme infedele. Un uomo che vari pubblici ascoltano perchè la sua natura volgare e la sua educazione raffinata gli permettono d'essere ad un tempo il discepolo di Sar~ey e il discepolo di Renan, Jules Lemaitre, s'ostina a non vedere ·in Ibsen che un George Sand tardivo .9 un Dumas nipote. Ora, tra George Sand, individualista di passione che canta, grida o balbetta, ed Ibsen, individualista di ragione, soltanto le differenze sono interessanti. E, per paragonare •a Dumas figlio (2), consigliere d'assassino e moralista di schiavitù, il grande Norvegese liberatore, ci vuole tutta la scempiaggine d'un critico di professione. D'altra parte, George Sand e Dumas figlio hanno scritto lavori a tesi. lbsen compone, se mi è lecito dirlo, lavori a probl(;!ma. I due Francesi ci raccomandano: « Sii questo» o « Sii quello». Lo Scandinavo dice soltanto: « Sii te stesso » o meglio: « Quel che tu- sei, siilo pienamente ». Egli dichiara in un poema: « Io non faccio che porre dei problemi, la mia missione non è· di rispondervi ». Il suo Rosmer, nell'ora delle più alte ambizioni e delle pit'1 vaste: speranze, non pensa a guidare gli uomini.· « Io voglio soltanto: destarli - dice; - dopo, a loro tocca d'agire». · Senza dubbio, i problemi che lbsen ci propone, egli se li pone e li risolve per sè. Ma la soluzione deve quasi sempre variare con ognuno, e persino le rare e semplicissime verità morali applicabili a ~utti gli uomini, io non posso scoprirle che in me stesso. I problemi possono esser posti dall'esterno; le risposte, Ibsen non lo dimentica mai, debbono venire dall'intimo. Non solo i critici francesi ci presentano come universali queste risposte che hanno un valore esclusivamente personale, ma per di più quasi sempre un frammento della risposta o magari del problema vien preso da essi per la soluzione totale. lbsen è un genio del Nord, tiene alla complessa ricchezza del pensiero (1) Conferenza tenuta alla Coopération des ldées, a Parigi, all'indomani di una rappresentazione di Casa di Ba~ibola. (2) Dumas figlio è forse lo scrittore arrivalo intorno al quale i critici siano andati a ragliare gli elogi più strepitosi e i paragoni più ridicoli. Paul Bourget non lo paragonò a . . . Mosè?

296 L' 1, N I V E R S I T l L I B E R A più che alla sua apparente precisione e, per arrivare a una conclusione precisa e rassicurante, non sacrifica, alla moda dei dogmatici latini, tutto un lato del problema. Seguendo il metodo di Hegel, che sembra tradurre filosoficamente il processo naturale del pensiero germanico, tiene alla tesi quanto all'antitesi e dalla sintesi, sia provvisoria o definitiva, sognata o affermata, esige soprattutto che nulla lasci perdere delle ricchezze più contradittorie. I critici semplicisti considerano quindi come capricci senza importanza, o come l'espressione di scoraggiamenti pas- . seggieri, lavori - Peer Gynt e L'Anitra selvatica, per esempio, - che dicono tutto un lato del pensiero d'Jhsen, un lato, altrettanto prezioso quanto l'altro. Codesta gente lascia perder molto di ciò' che le si dà; non comprendono un pensatore che privandolo della metà di sè stesso e immobilizzando l'altra metà in non so quale paralisi di perpetua ripetizione. * * * Esaminiamo· rapidamente qualcuno dei problemi che Ibsen si pone e ci propone. Dapprima, il piit urgente forse e che stringe tanti esseri nei 1 odi d'un'angoscia continua, il problema dell'unione de]"uomo e della donna. Eccolo posto ne La Donna del mare, in Casa di bambola, ne L'Anitra selvatica. Ellida, la donna del mare, ha fatto col serio Wangel un matrimonio di convenienza. Il suo pensiero appartiene a un fidanzato misterioso, che venne un giorno e poi scomparve con la sua nave. Ora, il fidanzato di mistero e di desiderio torna e ricorda a Ellida l'antica promessa. Serlotta dal sogno e dal mare, sta per seguirlo. WangeI non cerca di trattenerla nè con la forza nè con argomenti. Le dice: Tu sei libera, fa quel che vuoi e sii l'unica responsabile dei tuoi gesti. D'allora, il misterioso fidanzato cessa di rappresentare l'infinito della libertà; è una determinazione come un'altra, una possibilità altrettanto indifférente quanto un'altra. Ed Ellida resta con "'angel. Perchè questi ha compreso che nulla è sacro e inviolabile, salvo la spontaneità degli esseri, e non ha fatto appello alle convenzioni sociali o alla menzogna dei diritti apparenti. In Casa di bambola, ecco Nora, che, dolorosamente e fieramente, si libera dalla menzogna. La vera unione non può esser fondata che sulla verità, sulla piena e reciproca conoscenza di due esseri. Come potrei accettare per valido_ ciò che ignoro? Come potrei dare liberamente ciò che ignoro? Nora fugge via, perchè, nella casa di bambola; nella gabbia di scoiattolo o d'allodola che le hanno fatta, la vera unione è impossibile. Dei due esseri che una menz.ogna teneva esteriormente vicini, l'uno si risveglia -a•stento, in un gran bisogno di solitudine; l'altro dorme sempre. Il banale Helmer resta un ammasso informe di preI

L' U N I V E R S I T À L I B E R A 297 giudizi e di convenzioni. Non è un individuo determinato da ' un'attività personale; è, uno qualsiasi, -l'animale sociale. Perchè non sa nulla di sè stesso, osa giudicare gli altri. Osa condannare quella che il ritmo della sua respirazione sonnacchiosa addormentava. E lui che cade sotto tutte le sprezzanti indulgenze, spinge l'oltracotanza sino a perdonare o assolvere. Ora, egli condanna, e assolve - tale è il caraU:et·e ,della scempiaggine sociale - secondo i risultati. Qui c'è-, lègato a un cadavere, un essere che sente il primo appello del~a vita. Fragile ancora, povero abhozz,o incert"o, Nora, che dovrà•frearsi tutta quanta, ha anzitutto bisogno di spezzare il vincolo ir).fame e di staccarsi con la fuga dalla compagnia asfissiante. Ma ecco, ne L'Anitra Selvatica, un'altra; faccia del pensiero d'Ibsen. Il fotografo Hialmar ignora che la_ moglie Gina abbia avuto un amante e che la relativa agiatezza òella famiglia sia dovuta a quest' an ica colpa. Gregorio "r erle, ingenuo idealista, gli fa sapere la verità che, secondo lui, creerà nei due esseri una .nobile e salutare crisi d'anima e permetterà loro di fondare la vera unione. •Ma Gina resta_ nella sua massiccia incoscienza, bestialmente innocente. Il vanitoso Hialmar, chi:! prima declamava frasi soddisfatte, pensando ora all'atteggiamento che conviene a un uomo come lui in una tale situazione, declama frasi dure o dolorose. Presto la vita ricomincerà press'a poco qual'era prima, altrettanto superficiale e più ignobile, con qua e là ore d'acrimonia e gi_ornate d'odio srgreto. Ma la crisi ha ucciso l'essere più incantevole e più affettuoso, Edvige, la figlia di Gina. Davanti al compassionevole cadavere, Hialma·r varia le sue declamazioni. E il medico Relling spiega a Gregorio, tra: i meritati rimproveri, che la maggior parte degli uomini ha bisogno della <( menzogna vitale » e che è un ass_assinio volergliela strappare. Meraviglia dei critici francesi. Questo Ibsen, che vo\eva la verità alla base di tutti i rapporti umani, eccolo che fa l'elogio della « menzogna vitale,,. Jbsen, mettendo in ridicolo ~ condannando Gregorio vV~rle, canzona e confuta sè stesso. Niente affatto. Nora ha ragione perchè agisce su sè stessa. Gregorio ha torto perchè cerca di agire su altri. Nora ha ragione d'essere .un'individualista. Gregorio ha torto d'essere un apostolo e un riformatore. A me solo, io ho il diritto e il dovere di dire le verità pcrsonnli e di rivolgere gli appelli dell'ideale. Appena parlo ad un altro, sono forse davanti a un fan-· tasma formato d'abitudini e di menzogna vitale. Non ho che il diritto di dire le verità generali. Queste basteranno a destare quelli che possono sopportare la veglia. Resteranno incomprese dagli altri. O, se preoccupano per un momento ed irritano contro di me, saranno il fardello a tutti profferto, su nessuno caricato, da cui il rlebole si allontana subito con indifferenza.

298 L' U N I V E R S I 1' À L I B E R A Tutti i problemi si pongono nella m:nte d'Ibsen in modo altrettanto originale e genialmente complesso. Il problema sociale non sarà risc:>ltonè dalla menzogna conservatrice, nè dalla menzogna rivoluzionaria, nè dalla verità. La fonte avvelenata, che uccide gl'individui, è proprio quella che permette al gruppo di persistere. Chi la segnala salverà forse un uomo, ma diventa certamente il Nemico del popolo. Le organiz.zazioni sociali, fantasmi nutriti di menzogna vitale, non sono che nocive; non bisogna temere qui l'essere indiscreto ed io ho il dovere, verso di me, e verso i pochi che forse mi comprenderanno, di proclamare tutta la verità antisociale che conosco. La verità religiosa fa ugualmente di colui che osa dirla un nemico del popolo. Brand, finchè s'inganna, ·fiuchè cerca semplicemente d'abbattere una Chiesa per costruirne un'altra più grande, ha molti seguaci. Quando, finalmente, riconosce ad alta voce che ogni Chiesa è una menzogna, il popolo l'ascolta ancora e persino Io segue sulle alture. Ma è malinteso d'un'ora. La folla ha seguito colui che aveva l'abitudine di seguire, ma l'ha seguito perchè JlOn l'ha compreso. Non ha compreso che la via è l'unico fine; e ingenuamente crede d'essere avviata ad una Terra Promessa. Ecco che presto reclama il premio dei sacrifici. Ascolta la risposta con indignazione. Abbandona iri fuga l'apostolo maledetto appena sente che il sacrificio non ha altro premio che sè stesso, che non vi sarà ricompensa esteriore e che non si sale sulle vette nella folle speranza di trovarle materialmente fertili; ma per vedere più cielo e piì1 spazio. Così, la folla non sarà salvata ed ogni ~postolato resta un'ingenuità. Il problema della salvezza collettiva è insolubile. Che .il popolo accetti quindi a caso questa o quella « menzogna vitale » e saluti dei redentori successivi nei più diversi ciarlatani. Ma l'individuo come si salverà? Ci sono, nei lavori d'Ibsen, dei poveri esseri coscienti ma già in preda alla morte, miseri uomini già uccisi dalle colpe della ·razza. Tale il dottor Rank in Casa di hambola. Tale Osvaldo ne Gli Spettri. Costoro non avrebbero il tempo di crearsi una vera vita morale. Possono appena carpire il giorno, godere quel poco della gioia di vivere che è loro consentito. Mai realizzeranno il loro sogno: Rank non sarà amato da Nora; Osvaldo non sposerà Regina. Si divertiranno con un po' di tabacco e un po' di vino. Se saranno savi come il dottor Rank, ameranno i leggieri piaceri e saranno riconoscen_ti a chi riempirà il loro bicchiere o ofTrirà loro il sigaro e il fuoco. Ma gemeranno, grideranno, chiederanno « il sole», se, come_ Osvaldo, agonizzano nella forza folle della gioventù. Che farà l'essere che ha davanti a sè qualche durata probabile e che aspira a diventare un individuo? Anzitutto, si libererà da ogni pregiudizio, respingerà tutte le « missioni » che gli si vorranno imporre dall'esterno, anche

L' U N I V E R S I T À L I li E RA 299 quelle' che la sua ignoranza d'ieri ha creduto d'accettare. Sfuggirà alle tirannie, come Nora o come Erhart_ Borkman. Erhart respinge il dovere estraneo, la « missione » di cui pretende incaricarlo la madre; allontana la zia che, in nome dell'affetto, l'immobilizzerebbe per qualche tempo in un passato amabiYe, ma che· si strugge; fugge il padre che lo trascinerebbe in un'attività apparente il cui principio non è in lui., Parte per vivere la sua vita. Parte con un'avventuriera. Che bnporta? Coglierà un poco della gioia di vivere, e verrà domani una delusione che forse gli farà conoscere 1~ sua anima. Fugg!'fldo tutte le tirannie esteriori che si proclatnano doveri, conserva qualche ,probabilità di diventare un individuo. Ma questa rottura col passato eh-~ non si è creato non basta a costituire l'individuo. Qual uso fare della libertà? Rinchiudersi indefinitamente in sè stesso, è egoismo, non individualismo. L' individuo scende in sè stesso per trovare i veri motivi dell'azione ma, non appena li ha liberati dai moventi esteriori, li lascia agire. La sua armonia si crea tanto all'interno che all'esterno, e le parole che Solness pronunzia sulla cima delle torri sono sentite dal basso come caqti d'arpa. Uno dei lavori più intricati e più curiosi d'Ibsen, Peer Gynt, è dedicato alla satira dell'egoismo. Vi troviamo degli esseri che l'egoismo abbrutisce sino alla più fangosa stoltezza, degli altri esasperati sino alla pazzia. I trolls, che vivono sotterra, hanno per massima: « Limitati a te stesso». Il che vuol dire: « Ciascuno per. sè » ed altresì: « Non ricevere nulla d'estraneo ». Noi conosciamo dei· trolls di Francia che si danno una duplice missione, forse contradittoria: di.fendere lo spirito francese contro gl'influssi dell'estero; dimostrare che l'estero non fa altro che rimandarci idee francesi. - Peer Gynt penetra persino_ in un manicomio, in cui si proclama: cc Qui ognuno si rinchiude in sè stesso come in una botte. Nel pozzo di sè stesso se ne stagiona il legno. Col tappo di sè stesso vien chiusa. E vi si fa fermentare sè stesso )). Questi pazzi acclamano Peer Gynt « imperatore· del sè stesso», perchè si è sempre sforzato di• vivere -il suo io gyntiano, il suo io egoista, il suo io di passioni e di brame. Però questo io superficiale varia a seconda dei tempi e degli ambienti, ·porta il segno di mille impronte successive ed obbedisce a tutti i venti. Il vero io è più profondo, attività e non passività, ragione e non bramosia, costanza ed armonia e non capriccio o impazienza. Soltanto la superficie del mare è sollevata dalle tempeste; le profondità restano calme. E tutti i grai1di individualisti sanno che solo nella parte stabile e ragionevole del nostro essere possiamo trovar· rifugio e costruire il tempio sereno. Non meno di chi si rinchiude in sè stesso per farvi fermentare passioni e follie, è da disprezzarsi chi cerca d'ingrandirsi e di moltiplicarsi a spese delle personalilà vicine e che degli altn

300 L' U N I V E R S I T À L I B E R A uomini vuol fare banali monete coniate con la sua effigie. Nessuno ha questo diritto regale che osano arrogarsi conquistatori e apostoli. Conquistatori e apostoli saranno vinti e distrutti dal loro stesso tentativo. Gian· Gabriele Borkman non risveglierà « gli spiriti dormienti dell'oro», ma, « Napoleone ferito alla prima battaglia », vivrà isolato nella sua camera angusta, Sant'Elena d'impotenza e di follia malinconica. E, per ottenere i mezzi onde dare l'inutile battaglia, per correre all'irrimediabile disfatta, ha dovuto uccidere in sè stesso e in colei che amava tutto ciò che fa la vita degna d'esser vissuta. Il semplice tentativo di conquista ha annientato due individui e il conquistatore è l'uno dei due. Imprese pit1 modeste di quella çli Gian Gabriele Borkman non sono meno mfoidiali. Edda Gabler sogna d'int1uire su di un sol uomo, di pesare su di un solo destino. Ogni influenza è nociva per chi la subisce e per chi la esercita. Non appena cerco di pesare su di un destino estraneo, faccio pesare questo destino sullà mia medesima sorte. Il tentativo d'Edda Gabler finisce logicamente con l'uccidere, dopo Eilert Lovborg, Edda Gabler. Abbiamo visto qual male ridicolo crei un apostolo quando si chiama Gregorio Werle. Se poi è, come Brand, una grande intelligenza, diventa ancor più pericoloso. Brand sacrifica la vita della moglie e la vita del figlio a una Chiesa in cui domani vedrà una menzogna. E il suo apostolato non ha su lui altro effetto che di ritardare l'ora in cui conoscerà la verità. Conquist~tori ed apostoli sono vinti prima di combattere perchè sono ritardatari. Appartengono a forme umane che bisogna sorpassare. Il conquistatore è un fenomeno atavico che deriva dal « primo regno », dal « regno della materia e della gioia di vivere >i, Anche l'apostolo è uno spettro; viene dal « secondo regno», dal « regno della croce e del sacrificio,,. L' individuo è già entrato nel terzo regno, in quella patria che Ibsen descrive sempre con commossa oscurità. « Il terzo è il regno del gran mistero, il regno che deve esser fondato tanto sull'albero ·della conoscenza quanto sull'albero della croce, perchè li odìa e li ama entrambi, perchè le fonti della sua vita sono nel paradiso d'Adamo e sul Golgota». C'è una certa confusione, con equivoci forse volontari, nei termini che lalYolta usa Ibsen per designare i tre regni. Tuttavia mi pare di cor1.1prendere perchè l'individuo ami la croce e la detesti, ami la gioia e la detesti. Nè l'una nè l'altra è sufficiente. Gioia continua e dolore continuo sono ugualmente sonniferi. Entrambi sono necessari, e il loro urto, e il loro conflitto, pe_r destare una coscienza. Chi fu dapprima felice non ha probabilità di comprendere che nella sofferenza; chi dapprima soffrì non vedr~t che al sole della gioia. lbsen, figlio delle brume e rleìle persecuzioni, prese coscienza di sè stesso nella luce italiana. La vera vita non scorre tutt;i quanta nè dalla sola fonte del p;.iradi:;o, ni.· ùnlla sola fonte del Gol-

L' U N I V F. R S I T l L I B F. R A 301 gota. Sorge nel nobile e ampio paesaggio dove s'incontrano le due vallate, dove s'urtano e si mescolano i due ruscelli per formare il gran fiume umano. Talune delle parole con cui lbsen definisce il terzo regno mi fam~p temere che il suo idealismo sia adulterato da un poco di materialismo e che ci sia sul suo sogno non so quale pesantezza eudemonistica. Sembra proprio che annunzi all'individuo la potenza materiale insieme allo slancio spirftuale. Forse che la felicità è una forma la cui materia non ha alèuna importanza, una statua che non ò meno bella o meno preziosa per esser scolpita in una pietra povera. ' ( Forse - non so - crede anche che gli uomini dell'avvenire entreranno tutti o quasi tutti in questo terzo regno. Se lo crede s'inganna ancora. Anche la sua cronologia, se è più di un simbolo o d'un semplicismo d'espressione, diventa ~n altro errore. Pochi uomini, in qualsiasi epoca, hanno pienamente posseduto la conoscenza e la gioi-a di vivere. Pochi uomini furono, nei secoli piì1 devoti, perfetti e completi cristiani, appartennero potentemente al regno della croce. Taluni, da molto tempo, sono entrati nel terzo regrlo: non fu chiuso ai Socrate, agli Epicuro, agli Epitteto. E sempre qui, come nei paesi meno l'argamente umani, ci saranno molti chiamati e pochi eletti. Saranno eletti soltanto quelli che sentiranno venil'e, non dall'esterno, ma da sè stessi, il nobile appello, la vocazione, l'ordine efficace di ,respingere le costruzioni esteriori, interessi o doveri che siano, per obbedire solo alla costruzione interiore e per diventare. pienamente ciò che sono. HAN RYNER ALESSANDRO BLOK: L'amore, la Poesia e lo Stato. Dialogo. Prefazione di Paolo Flores. Edizioni di «Fede», Casella Postale Orlac 14, Roma. L. 1,25. In un elegante volumetto, adorno di. una copertina deliziosa di Vinicio Paladini, in stile romantico, è pubblicata la prima traduzione italiana di un dialogo ironico e sentimentale del grande poeta russo, morto appena qualche anno fa. Lo scritto risale al 1907, cioè subito dopo-la prima rivoluzione 1 ussa, e i motivi politici che in ·esso sono drammatizzati, presentano in sintesi la crisi degli intellettuali e degli esteti di fronte ad una affermazione degl'ideali di rinnovamento sociale. Ma non c'è un preciso intento di prop11ganda, e neppure si tratta di un lavoro teatrale; al più potrebbe essere paragonato per l'ispirazione e per le conclusioni di amaro scetticismo ai dialoghi delle « Operette morali » del nostro Leopardi; con quel tanto, e non poco, di diverso che nasce dalle preoccupazioni sociali e dallo spirito decadente dell'autore russo. Si ritrova qui la stessa arte che i lettori italiani hanno già ammirata negli « Sciti » e nei « Dodici »1 ; e anzi la forma dialogica dà maggior risalto al sarcasmo profondo e all'ironia sottile che svelano l'essenza di ogni regime autoritario. La traduzione, accurata e fedele, nulla. toglie alla perfezione del testo; la prefazione si estende opportunamente a tracciare un profilo del poeta e della sua opera, con i necessari accenni .ad avvenimenti politici recenti e lontani, e vi è da segnalare una originale interpreta:tione del misticismo rivolu:donario del poeta.

DIZIONARIOFILOSOFICO Ateo, Ateismo Un tempo, chiunque aveva un segreto in qualche arte, correva il rischio di passare per uno stregone; ogni nuova setta era accusata di sgozzare dei. fanciulli nei suoi misteri; ed ogni filosofo che si scostava dal gergo della scuola era accusato di ateismo dai fanatici e dai furfanti, e condannato dagli imbecilli. Anassagora osa pretendere che il sole non è affatto condotto da Apollo montato su di una quadriga? Lo si chiama ateo, ed è costretto a fuggire. Aristotele è accusato di ateismo da un p·rete, e, non potendo far punire il suo accusatore, egli i ritira a Calcis. ìVIa la morte di Socrate è ciò che la storia ha di più odioso. Aristofane (quest'uomo che i commentatori ammirano perchè era Greco, senza pensare che Socrate pure era Greco), ArL stofane fu il. primo che abituò gli Ateniesi a considerare Socrate come ..,un ateo. Codesto poeta comico, il quale non era nè comico nè poeta, non sarebbe stato ammesso fra noi a recitare delle farse alla fiera di Saint-Laurent; egli mi sembra molto più basso e più spregevole di quel che non lo dipinga Plutarco. Ecco ciò che il saggio Plutarco dice di quel burlone: « Il linguaggio di Aristofane risente della sua miserevole ciarlata·- neria: sono i punti più bassi e più disgustanti; non è nemmeno piacevole per il popolo, ed è insopportabile alla gente di giudizio e di onore; non si può solTrire la sua arroganza, e la gente per_ bene detesta la sua malignità ». Per dirla in breve, è dunque l'istrione, « le Tabarin », che la ·signora Dacier, ammiratrice di Socrate, ammirava in Aristofane: ecco l'uomo_ che preparò da lontano il veleno con cui giudici infami fecero perire l'uomo più virtuoso della Grecia. . I conciatori, i calzolai e le cucitrici di Atene applaudirono ad una farsa nella quale si rappresentava Socrate elevato in aria, in un paniere, annunziante che non vi era nessun Dio, e vantantesi di aver rubato un mantello insegnando la filosofia. Un popolo intero, il cui cattivo governo autorizzava tali licenze infami, meritava bene ciò che gli successe, di diventare schiavo dei Romani e di esserlo oggi dei Turchi. Valichiamo tutto lo spazio di tempo che separa la repubblica romana da noi. I Romani, molto più saggi dei Greci, non hanno mai perseguitato nessun filosofo per le sue opinioni. Non è invece così tra i popoli barbari che sono succeduti all'impero romano. Dacchè l'imperatore Federico II ha delle questioni con i papi, lo si accusa di essere ateo, e di essere l'autore del libro Dei tre impostori, insieme al suo cancelliere de Vinea. Il nostro grande cancelliere de L' Hopital si dichiara contro le persecuzioni? Yiene sitbito accusato di ateismo. I·Iomo clocius,

L' U N I V E R S I T À L I B E R A 303 s?d verus atheos. Un gesuita altrettanto al disotto di Aristofane quanto Aristofane è al disotto di Omero; un disgraziato il cui nome è diventato ridicolo tra gli stessi fanatici, il gesuita Garasse in una parola, trova dovunque degli ateisti: è così ch'egli nomina tutti coloro contro i quali si scaglia. Egli chiama ateista Teodoro di Bezo; è lui che ha indotto il pubblico in errore intorno al Vanini. - . .': La disgraziata fine del Vanini non ci muove affatto all'indignazione ed alla pietà come quella di. Socrf te, perchè Vanini non era che uno straniero pedante e senza m'erito; ma infine Vanini non era affatto ateo, come si è preteso: era precisamente tutto il contrario. Era un povero prete napoletano, predicatore e teologo d,i mestiere, disputatore ad oltranza sulle quiddità e sugli universali, et utrzzm chimera /Jaml,inans in vacuo possit comederè secundas intentiones. Ma d'altronde in lui non c'era niente che tendesse all'ateismo. La sua nozione di Dio è della teologia la più sana e la più approvata: « Dio è il suo principio e la sua fine, padre dell'una e dell'altro, e senza bisogno nè dell'una nè dell'altro; eterno senza essere nel tempo; presente dappertutto senza essere in nessun luogo. Per lui non vi è nè passato nè futuro; egli è dovunque e fuori di tutto, governante tutto, e avente tutto creato; immutabile, infinito senza parti; il suo potere è - la sua volontà, ecc. » Vanini si piccava di rinnovare quel bel sentimento di Platone, abbracciato da Averroè, che 'Dio aveva creat<i una catena di esseri dal più piccolo fino al più grande, il cui ultimo ·anello è attaccato al suo trono eterno: idea, veramente, più sublim~ che vera, ma che è pure lungi dall'ateismo quanto l'essere d~l nulla. Egli viaggiò per far fortuna e per disputare; ma disgra·- ziatamente la disputa è la stfada opposta alla fortuna: ci si fanno altrettanti irreconciliabili nemici per quanti sapienti o pedanti si trovano e contro i quali si argomenta. Non vi furono altre cause deila disgrazia del Vanini: il suo colore e la sua grossolanità nella disputa gli valsero l'odio di qualche teologo; ed avendo avuto una questione con un tal Francon, o Franconi, questi, amico dei suoi nemici, non mancò di accusarlo d'essere ateo e d'insegnare l'ateismo. Quel Francon, o Franconi, aiutato da qualche testimone, ebbe la barbarie di sostenere in un confronto ciò che aveva inventato. Vanini, sul banco qegli accusati, interrogato su ciò che pensava dell'esistenza di Dio, rispose che adorava con la Chiesa un Dio in ,tre persone. Raccattando una paglia, disse: « Basta questo fuscello per provare che vi è un creatore. » Poi pronunciò un discorso bellissimo sulla vegetazione ed il movimento, e sulla necessità di un Essere supremo, senza il quale non vi sarebbe nè movimento nè vegetazione .. Il presidente Gramtnont, che era allora a Tolosa, riporta quel

304 l.'l!NIVERS!Tl LIBERA discorso nella· sua Sloria di Francia, oggigiorno tanto dimenticata; e questo stesso Grammont, per un inconcepibile pregiudizio, pretende che Vanini dicesse tutto ciò per vanità o per timore, piuttosto che per una interiore persuasione. Su che cosa può essere fondato questo giudizio temerario e atroce del presidente Grammont? È evidente che per la sua risposta Vanini doveva essere assolto dall'accusa di ateismo. Ma che s_uccesse? Quel disgraziato prete straniero s'immischiava pure di medicina; si trovò un grosso rospo vivo, ch'egli conservava presso di sè in un vaso pieno d'acqua: non si mancò di accusarlo d'essere stregone. Si sostenne che quel rospo era il Dio ch'egli adorava; si diede un senso empio a molti passaggi dei suoi libri, il che è molto facile e molto comune, prenqendo le obbiezioni per le _risposte, interpretando con malignità qualche frase sospetta, corrompendo una innocente espressione. Infine la fazione nemica che l'opprimeva strappò ai giudici la sentenza che condannava a morte quel disgraziato. Per giustificare quella morte, occorreva bene accusare quel malcapitato di ciò che vi era di più orribile. Il minimo e minimissimo Mersenne ha spinto la demenza fino a stampare che Vanini era partito da Napoli con dodici dei suoi apostoli per andare a convertire tutte le nazioni all'ateismo. Quale pietà! Come avrebbe poluto un povero prete aver dodici uomini al suo servizio? Come avrebbe potuto persuader·e dodici napoletani a viaggiare con grandi- spese per diffondere dappertutto quella dottrina abbominevole e rivoltante col pericolo della loro vita? Un re s~rebbe abbastanza potente per pagare dodici predicatori di ateismo? Prima di padre Mersenne nessuno aveva avanzato una assurdità così enorme. Ma dopo di lui si è ripetuta, se n'è infettato i giornali, i dizionari storici; e il mondo, il quale ama lo straordinario, ha credulo questa favola senza esaminarla. Bayle stesso, nei suoi Pensieri ·diversi, parla di Vanini come di un ateo. Egli si serve di questo esempio per appoggiare il suo paradosso che una società di atei può sussistere: assicura che Vanini era un uomo di costumi regolatissimi, e ch'egli fu il martire della su~ opinione filosofica. Ma s'inganna lo stesso su questi due punti. Il prete Vanini nei suoi Dialoghi, fatti ad imitazione di Erasmo, ci fa sapere che aveva avuto un'amante chiamata Isabella. Egli era libero nei suoi scritti come nella sua condotta; ma 'non era affatto ateo. Un secolo dopo la sua morte, il dotto La Croze, e quegli che ha preso il nome di Philalethe, hanno voluto giustificarlo; ma, come nessuno s'interessa alla memoria d'un disgraziato Napoletano, autore molto cattivo, quasi nessuno legge quelle apologie. · Il gesuita Hardouin, più sapiente di Garasse, e non meno temerario, nel suo libro Athei detecti, accusa di ateismo i Def \

L1 U N I V E n S I T l L 1 B E R A 805 cartes, gli Arnaua, i Pascal, i Nicole, i Malebranche: fortunatamente essi non hanno avuto la sorte di Vanini. Da tutto ciò, io passo alla questione morale posta da Bayle, cioè se una società di atei potrebbe sussistere. Notiamo subito, a questo proposito, qual'è l'enorme contraddizione degli uomini nella disputa: quelli che si sono elevati contro l'opinione di Bayle con maggior impeto, quelli che gli hanno negato con molte ingiuri,e la .possibilità di una società di atei, hanno poi sostenuto con la stessa intrepidità che l'ateismo è la religione del Governo della Cina. Naturalmente essi si sono ingannati intorno al Governo cinese; non avevano che a leggere gli editti degli imperatori di quel vasto paese, ed avrebbero visto che quegli editti sono dei sermoni, e che dovunque vi si parla dell'Essere supremo, governatore, vendicatore e rimuneratore. Ma nello stesso tempo essi non si sono meno ingannati sull'impossibilità di una società di atei; ed io non so come il signor Bayle ha potuto dimenticare un esempio sorprendente che avrebbe potuto rendere vittoriosa la sua causa. In che cosa una società di atei appare impossibile? Si giudica che degli uomini i quali non avessero dei freni non potrebbero mai vivere insieme; che le leggi non possono niente contro i delitti segreti; che occorre un Dio vendicatore che punisca in questo mondo o nell'altro i cattivi sfuggiti alla giustizia umana. Le leggi di Mosè, è vero, non insegnavano affatto una vita a venire, .non minacciavano punto dei gastighi per dopo la morte, non insegnavano affatto ai primi Ebrei l'immortalità dell'anima; ma gli Ebrei, lungi dall'essere atei, lungi dal credere di sottrarsi alla vendetta divina, erano i più religiosi di tutti gli uomini. Non solo essi cred·evano all'esistenza di un Dio eterno, ma lo credevano sempre presente in mezzo a loro; essi tremavano d'essere puniti in loro stessi, nelle loro donne, nei loro figli, nelle loro proprietà, fino alla quarta generazione; e questo freno era potentissimo. Ma presso i gentili, diverse sette non avevano alcun freno: gli scettici dubitavano di tutto, gli accademici sospendevano su tutto il loro giudizio; gli epicurei erano persuasi che la divinità non poteva immischiarsi negli affari degli uomini, e, in fondo, essi non ammettevano nessuna divinità. Erano convinti che l'anima non è affatto una sostanza, ma una facoltà che nasce e che perisce cpn il corpo: per conseguenza, essi non avevano alcun giogo oltre quello della morale e dell' onore. I senatori ed i cavalieri romani erano dei veri atei, giacchè gli dèi non esistevano per degli uomini che non temevano e non speravano niente da essi. Il Senato romano era dunque realmente una assemblea di atei del tempo di Cesare e di Cicerone. Questo grande oratore, nella sua arringa per Cluentio, dice a tutto il Senato riunito: « Che male gli fa la morte? Noi respin-

306 L' U N I V E R S I T À L I B E R A giamo_ tutte le favole inette degli infermi. Cos'è dunque che la morte gli ha toll'o? Nient'altro che la sensazione dei dolori.,, Cesa1·e, amico di Catilina, volendo salvare la vita del suo amico contro lo stesso Cicerone, non gli obbietta che non è affatto punire un criminale il farlo mç_rire, che la morte non è niente, che è soltanto la fine dei nostri mali, che è un momento più felice che fatale? E Cicerone e tutto il Senato non si arrendono a queste ragioni? I vincitori e i legislatori dell'universo conosciuto formavano dunque visibilmente una società di uomini i quali non temevano niente dagli dèi; erano dei veri atei. Bayle esamina in seguito se l'idolatria è più pericolosa dell'ateismo, se è un crimine più grande il non credere affatto alla divinità o avere di essa una indegna opinione; ed in ciò è del sentimento di Plutarco: crede che valga meglio non avere nessuna opinione piuttosto che una cattiva opinione; ma, non spiaccia a Plutarco, è evidente che per i Greci valeva infinitamente meglio temer~.Cerere, Nettuno e Giove, che non temere niente del tutto. È chiaro che la santità dei giuramenti è necessaria, e che ci si deve fidare di più di coloro i quali pensano che un falso giuramento sarà punito che non di coloro i quali pensano che possono fare con impunità un falso giuramento. È indubbio che, in una città civile, è infinitamente più utile avere una religione (anch~ cattiva) che il non averne affatto. Sembra dunque che Bayle doveva esaminare piuttosto cos'è più pericoloso: il fanatismo o l'ateismo. Il fanatismo è certamente mille volte più funesto, giacchè l'ateismo non ispira affatto delle passioni sanguinarie, mentre il fanatismo sì; l'ateismo :non si oppone ai delitti, ma il fanatismo li fa commettere. Supponiamo con l'autore del Commentarium -rerum gallicarum che il cancelliere de L' Hopital fosse ateo: egli non ha fatto che delle sagge leggi, e non ha consigliato che la moderazione e la concordia; i fanatici commisero i massacri della Saint-Barthélemy. Hobbes passò per un ateo: egli coJ1dusse una vita tranquilla· e innocente; i fanatici del suo tempo inodaronq di sangue l'Inghilterra, la Scozia e l'Irlanda. Spinoza non solo era ateo ma insegnava anche l'ateismo; non fu certo lui che prese .p_arte all'assassinio giuridico di Barneveldt; non fu lui che straziò i due fratelli de Wilt in pezzi, e che li mangiò sulla gratella. Gli atei sono per lo pii'.1 dei sapienti arditi e smarriti che ragionano male, e che, non potendo comprendere la creazione, l'origine del male ed altre difficoltà, hanno ricorso all'ipotesi della eternità delle cose e della necessità. Gli ambiziosi, i voluttuosi, non hanno molto tempo per ragionare, e per accogliere un cattivo sistema: hanno altro da fare che comparare Lucrezio con Socrate. È così che vanno le cose tra noi. Ngn era così del Senato di Roma,· il quale era quasi tutto composto di atei teorici e pratici, cioè che non credevano nè alla

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