L'università libera - n. 6 - giu./lug. 1925

L' u NlV rns Il À LIBrnA RIVISTA MENSILE DI COLTURA SOCIALE N. 6 - lilugno-Lugt1l9o25- MILANO - Vlalé Monza, 77 Il processo di Dayton. Anche quel processo americano in cui era accusato un giovane maestro imputato di insegnare l'evoluzione degli esseri viventi non precisamente secondo le ingenuità della Bibbia, è un altro sintomo di quel désarroi morale e intellettuale che tutto inquina. Pare che dovunque, dopo la guerra europea, sia diventato cosi difficile ragionare che anche una pura questione d'insegnamento debba prendere l'aspetto di una battaglia con-' tro qualcuno. Nel caso di Dayton tutti gli strali erano rivolti contro Darwin e le scimmie, e ciò in onore dell'uomo, della sua spiritualità e intelligenza superiore. Un illustre uomo- politico americano si era eretto a paladino di questa nuova crociata antievoluzionista in nome dell~ moralità e dell'ordine. In tempi meno brutti di questi un simile avvenimento ci avrebbe condotto a considerazioni allegre. Ma invece anch'esso ci sembra un indice non trascurabile di quel generale regresso intellettuale che lamentiamo e che non può non impensierire quanti hanno avuto fede nel cammino della civilità. Ci sarebbe facile m.ostrare, ad esempio, che l'opera di Darwin è soffusa di un'ardente spirituàlità che non lascia dubbio sul valore morale della sua dottrina. Egli ha dato delle spiegazioni di fatti che avvengono in un dominio non influenzabile, in quello cioè della natura, e dalla conoscenza di tali fatti non ha risentilo affatto una diminuzione della sua personalità. Egli ha .anzi continuato a credere, ma onestamente voleva che si comprendesse come << la scienza non ha nulla a che fare con Cristo. Y> Altrettanto facile ci sarebbe paragonare gli istinti di solidarietà di tanti animali, comprese le bistrattate scimmie, con le abitudini di egoismo proprie della maggioranza degli uomini, SJ?ecialmente dei. buoni credenti e praticanti di_ ogni religione. Lo stesso Darwin scriss~: « Per parie mia prefe1:iseo discendere da quella piccola scimmia eroica che •ho visto sfidare un giorno un terribile nemico per salvare il suo guardiano, o da quel vecchio babbuino che vidi un altro giorno portare trionfalmente in ispalla il suo giovane compagno dopo averlo strappato ad una muta di cani sbigottiti, anzich·è da un selvaggio che si diverte a torturare i suoi nemici, che offre sacrifici sanguinosi,

162 L' U N I V E R :; I 'f À L I B E R A che pratica l'infanticidio senza rimorso, che tralta le sue donne come schiave, che ignora ogni pudore e che rimane tutta la vita lo zimbello delle più grossolane superstizio1~i ... » I quattro anni di guerra europea e lo svolgersi di certe rivoluzioni testimoniano ancora incontrovertibilmente della superiorità dell'uomo! Il lato però più ameno di questa controversia sta nel fatto che la teoria dell'evoluzione che poggia sulle ricei•che e le ipotesi darwiniane non ha affatto bisogno della scimmia come termine di prova. In una recente pubblicazione del professor Luigi Montemartini (Biologia, compendio .di un corso di lez.ioni), edita dall'Università Proletaria _di Milano, la questione del posto dell'uomo nella natura è stata così chiaramente spiegata: " Si attribuisce a Darwin, e molti ritengono sia questa la teoria -di Darwin, l'affermazione che l'uomo sia figlio della scimmia. Non si deve dire cosi. Questa della parentela dell'uomo cogli altri mammiferi è una conseguenza della teoria di Darwin; certamente è la conseguenza che fu più vivamente ed appassionalamenle e talvolta violentemente discussa, ma non è tutta la teoria. Darwin lavorò a dimostrare che tutte le specie animali_ e vegetali che Linneo aveva descritto come sp~cie distinte provenienti da altrettanti atti del Creatore, dovevano invece essere considerate come derivate le une dalle altre per trasformazione graduale di specie stipiti primitive; p_oi i cranioti e, tra questi, prima certi gruppi di pesci, poi gli anfibi, poi certi gruppi di rettili, che da una parte hanno dato i rettili attuali e gli uccelli, d~ll'altra i .mammiferi monotremi, da cui i marsupiali, indi i carnivori e le scimmie. Queste, a grandi tratti, le tappe principali dell'evoluzione del regno animale fino all'uomo, il quale non sarebbe dunque figlio di questa o di quella scimmia, ma avrebbe, come alcune scimmie, progenitori comuni, oggi scomparsi. Che il corpo dell'uomo sia fondamentalmente come quello· degli animali superiori che più gli assomigliano, è cosa nota. Lo scheletro nostro è formato delle stesse ossa, disposte nel medesimo modo, e che, nel bambino, si sviluppano come si sviluppano le ossa degli altri mammiferi. Tutti i visceri sono gli stessi in questi e nell'uomo ed è il medesimo, negli uni e n'ell'altro, il modo onde funzionano: ormai la anatomia, la fisiologia, la patologia, la terapia dell'uomo la studiano, nei nostri laboratori, sopra gli animali, e nello stesso· studio della struttura microscopica e delle cellule delle quali anche il corpo dell'uomo, a somiglianza di quello di tutti gli animali e delle piante, è composto, ci gioviamo moltissimo di quanto si può osservare in l(Ul'Sll ultimi. Niun ctuhhio adunque che sim110 ,1: fronte w organistni affini, pei quali valgono le medesime leggi genernli della biologia. La differenza principale sta nel cervello, che è l'organo dell'intelligenza. Esso pesa in media, nell'uomo nor-

I/UNIVERSITÀ LIBERA 163 male di nostra· razza, quasi grammi 1500, mentre pesa solo gr. 475 nel gorilla: nell'uomo rappresenta 1/50 del peso di tutto il corpo; negli altri animali rappresenta una parte molto minore. Ed è colla sua intelligenza, non per la forza bruta dei suoi muscoli, che l'uomo primitivo potè difendersi e vincere i grossi animali, molto più forti di lui, coi quali si è trovato a vivere, che oggi sono scomparsi, ma <li cui rinveniamo gli avanzi insieme a quelli dei primi uomini comparsi sulla terra .... Credemmo un tempo in una Umanità posta al centro del mondo e degradante verso posizioni più basse; la Scienza ci ha mostrato invece una Umanit:'.1 che è parte del mondo vivente, che faticosamente e lentamente è salita sopra di esso e lo domina. È salita e do1iiina coll'intelligenza, no·n colla forza bruta dei muscoli. » · Insegnare una simile scienza è un delitto in uno Stato americano ed è una eresia appena tollerata in Italia. Eppure ormai anche tutli gli altri rami delle scienze, non esclusa la filosofia, sono penetrate da questo incontenibile spirito di ricerca che alimenta il progredire delle scienze positive. Processare, punire, proscrivere e, peggio ancora, fingere di ignorare una così vasta parte dell'attività intellelluale di ogni nazione, solo perchè ciò non è gradito da un uomo politico o da una- casta di emeriti ignoranti, testimonia solo del lento affermarsi della verità e della tenacità delle superstizioni. Quando poi a questi ostacoli si unisce l'interesse politico e materiale per cui si cementano cosi bene anche le più stridenti colorazioni religiose e letterarie, è facile creare una mentalità di pseudo-scienziati e di educatori che tutto manipolano allo scopo di spiritualizzare l'uom.o tenendolo nella più degradante ignoranza persino sulle sue origini. In compenso gli si affibbiano delle missioni e lo si costringe anc_he a delle a.zioni che sono la negazione di ogni spiritualità: Su queste scienze che sono la parte più preziosa del patrimonio in~ tcllettuale dell'umanità, vi è del resto una rigogliosa letteratura che ogni giorno si alimenta <li nuove geniali inlerprclazioni, testimoniando veramente così la perenne vitalità dello spirito umano. JrJ G. DELCHI ARO. In 1>reparazio11e: 7 , I I PI.l!JTlW KHO POTKIN E T I· C ORfGINE ED EVOLUZIONE DEfJfJA MORALE P.r·ima edizione 'tl<tlianct<tcura di Lnigi Fahbri Prenotazioui a L. 8 dall'Italia; dall'estero L. 10 CASA EDITRICE SOCJ.11LE, Viale M,inza, 77 ... MILANO

Necessità e Libertà Trattando dei rapporti tra il pensiero e la volontà abbiamo dello che << quando ho cosòenza di quel che voglio, quel volere particolare me lo trovo imposto dall'intelletto, e, pensandoci su, mi accorgo di averlo dovuto pensare » e che « la volontà ... acquista coscienza di sè nel passare dall'idea al fatto». Con la prima affermazione abbiamo riconosciuto il determinismo del pensiero, con la seconda abbiamo affermato la libertà del volere. La volontà; prima di essere pensiero, è indistintamente complesso di tendenze; cioè non è volontà vera e propria. Diventa specifica quando si riconosce come possibilità di trapasso dall'idea all'azione. La coscienza della proprja libertà non è, quindi, che la coscienza della propria forza. Abbiamo due termini, nel problema del libero arbitrio: libertà, necessità. La volontà pare ad alcuni libertà, ad altri necessità. Mentre i due termini non sono che aspetti della forza. Ogni volontà è forza, e come forza ogni volontà è finita, cioè necessitata dal suo essere. Ma una forza che non fosse finita non potrebbe essere, quindi la necessità è la libertà della forza. La libe,rtà maggiore si identifica con la necessità maggiore. Supponiamo due automobili in piena corsa. li più veloce sarà quello che possiede il motore più potente. La libertà del più veloce si identifica col suo essere maggiormente spinto a correre. Fra Tizio. e Caio, il più libero nel sollevare i pesi sarà il più forte. Se Tizio è debole e vorrà sollevare un quintale non potrà, quindi la sua libertà sarà subordinata alla potenzialità fisica. Ma Tizio potrà, mediante il pensiero, porsi, con appositi esercizi, nella condizione di libertà di Caio. La sua necessità negativa fisica può esser,e •superata, in quanto possiede un'altra forza: quella intellettuale. Tizio ha fatto i I proponimento di irrobustirsi perchè a questo l'ha portato il pensiero, nece:ssariamente. Ma il suo pensiero in questo necessitar·e il proponimento ha affermato la propria forza, cioè la propria libertà. Tizio è libero, in un primo tempo, nella possibilità di pensare il suo proponimento; in un secondo tempo: nella possibilità di adattare la propria vita in quel proponimento; in ultimo, nella possibilità dì alzare il quintale. La sua libertà consiste nella possibilità di sviluppare, mediante la coscienza della ne- ·cessità, le proprie forze. · La coscienza dell'impossibile genera l'idea del possibile. L'idea della necessità è la condizione della libertà. Se · Tizio pensa di potersi rendere simile a Cnio nel sollevare il quintale egli è che ha coscienza della necessaria conseguenza, rafforzamento, .degli esercizi. Ma il proposito di curare il proprio sviluppo Jisico è nato dalla constatazione che gli era impossibile imitare

J.' U N I V E R S I T À L I B E R A 165 Caio. Il suo ragionamento è stato questo: ·Caio può sollevare quel peso; io non lo posso soHevare;··ma se io potrò sviluppare le mie capacità muscolari alla pari di Caio potrò sollevare quel peso.· Nell'atto in• cui Tizio ha formulato il suo proposito •era necessitato dall'idea di rendersi simile a Caio. Quest'idea non ha potuto volerla avere; l'ha avuta. Ma l'ha avuta perchè altre volle s'è proposto miglioramenti di se stesso, e la tendenza al perfezionamento s'è affermata in lui. La libertà del volere non va, quindi, considerata nella stretta cerchia di un determinato pensiero od atto di volontà. TI determinista, infatti, pur sapendo di non volere che ciò che può volere, vuole. Cioè vuole porsi in condizione di poter volere sempre di più. La coscienza della .necessità è in lui la coscienza della libertà. Dico nel determinista, per rilevare come il determinismo si concigli col volo~tarismo, ma è così di tutti. Dicendo èhe dalla coscienza dell'impossibile nasce l'idea del possibile, siamo entrati nel campo dell'azione come det,erminante del pensiero, cioè della volontà indistinta che acquista coscienza di sè mediante lo sforzo. Affermava il Vico che « la praxis è attività creatric·e, per cui Veritas et factum convertuntur, la verità si scopre facendola, il fare è la condizione impreteribile del conoscere )). Kant scriveva: « tutte le forze_ vengon riconosciute soltanto per gli impedimenti ch'esse valgono a superare )). E il :Maine de Biran considera lo sforzo come il fatto psicologico centrale, per cui è possibile la conoscenza di noi e delle cose: l'io si rivela a se stesso con la coscienza dello sforzo, che l'anima intuisce com,e determinato dalla propria volontà, e si perviene alla conoscenza del non-io per l'urto dell'auto-attività in un ostacolo o in una resistenza. Il bambino acquista la coscienza dei rapporti spaziali non solo mediante la vista ma anche col tatto. La vista gli presenta un oggetto dai vivi colori. Egli si sente attratto da essi, e compie dei movimenti per afferrare quell'oggetto. Ma non riesce. La sofferenza del mancato possesso lo spinge a perfezionare i propri movimenti. La sua volontà si affina mediante lo sforzo. E i successivi risultati lo portano a distinguere il possibile dall'impossibile: lo portano cioè al giudizio discriminativo, cioè alle prime forme di economia dello sforzo. L'azione non crea la volontà, poichè qualunque atto è un risultato di una forza volitiva. Ma la volontà istintiva si fa sentimentale e razionale. Cioè acquista sempre più numerose e varie necessità. Concludendo: la volontà scaturisce da un complesso di necessità che essa non crea, ma che, come pensiero, conosce. Conoscendole, crede di averle volute. E credendo di averle vo·

]6(ì 1,' u N l V F. n s I T À I, I Il F. n A Iute nel pensiero cr'('de di poterle mutare in fatto. L'illusione della libertà del pensiero porta alla libertà del volere. L'idea del possibile permette di potere. Ma l'idea della possibilità di volere nasce dalla coscienza oscura della necessità della volontà stessa. L'uomo dice: Io voglio! - perchè intuisce che la sua volonU1 vuole in lui. E quando l'uomo agisce, non è perchè ha eletto n se stesso: Io yoglio, ma perchè la volontà che gli si è rivetata ern così forte da cleterminare, necessariamente, la sua azione. La libertà è, quindi, la necessità dell'impulso che diventa pensiero, ed intuendo la propria necessità, la disconosce, :1ITermandosi come volont:'.1 creante la necessità dell'azione. Il pensiero, intuendo le necessità del processo di formazione <lella volontà, rende possibile il pieno effettuarsi di tali necessità come azione. Abiamo· visto come la somma delle singole necessità rende possibile una data necessità maggiore. Vedremo come la somma delle necessità individuali si potenzi (e il superamento della necessità costituisce la libertà) mediante la società. CAMILLO BERNERf. In corso di sfnmprt: PAOLO GILLE l'rnfessore all'lstitnto 1lt•gli Alti Studi del Belgio Abbozzod'una Filosofia della Dignità umana Prima edizione italiana a cura di L. FA!lllRI Prefazione di SAVERIO i\lrmLINO. lnlrodnzionc: IL SOFISMA ANTJ-IDEALISTA DI MARX. Prima pal'te: IL PROBLEMA DELLA LlBERTA'. 1. Il problema. - 2. I fondamenti cosmologici della libertà - 3. Fisiologia del progresso -- 4. Libertà e solidarietà - 5. Conclusione: La forza morale e la libertà. Seconda parte: ANARCHIA O AN-ARCHIA. 1. Pragmatismo o umanismo - 2. Il magistero della ragione - 3. L'avvento del diritto umano. Terza parte: L'INTEGRAZIONE Ui\ifANA. 1. Considerazioni preliminari - 2. L'autonomia - 3. La sociabilità - 4. La giustizia umanitaria - 5. Conclusione - Il regno umano. Conclusione: PROPOSIZIONI 1• ONDAMENTALI D'UNA FILOSOFIA DELLA DTGNITA' UMANA. Un bel volume di lGO pagine erandi, L, 6 franco di porto ovunque.

La Repubblica Romana del 1849 E LA SUSSEGUENTE REA'ZION'E IN ITALIA NEGLI SCRITTI DI GIUSEPPE MAZZINI. III. Il segreto delln inYincibilità mazziniana, malgrado tutti gli in5uccessi e le sconfitte, di quella instancabilità meravigliosa con cui, fallito un tentativo Mazzini ne cominciava un altro, spezzata una trama un'altra ne intesseva, finito un giornale un altro ne fondava, spenta nel martirio una congiura od un'insurrezione, passava a preparare un'insurrezione nuova od una nuova c"oilgiura, il segreto del rinnovarsi in lui del miracolo di Anteo _(che percosso e mutilato dagli dei riacquistava tutto il vigore e la fòrza appena toccava a madre Terra) lo s'intuisce assai più dall'Epistolario (I) che dagli scritti che l'autore stesso destinava al pubblico. · Bisogna leggere, specialmente, le lettere durante la sua ·permanenza nel Triumvirato Romano (quando la sua attività giornalistica restò interrotta) per comprendere quanta forza fosse nell'uomo, benchè egli non si facesse troppe illusioni sul successo finale. Il carattere magnanimo, poi, e la sua grandezza d'animo ne risaltano con una vivezza tale da commuovere profondamente. Talvolta poche righe bastano a darvi l'idea dell'altezza del suo spirito. Leggete, per esempio, queste poche righe alla madre,' che vo-. leva smentire pel figlio un attacco di Gioberti, il quale, prendendo pretesto da una lettera contro di lui (che non era di Maz.zini, ma di Gustavo Modena), scendeva sino a giudicare l'agitatore genovese come « il maggior nemico d'Italia, maggiore dello stesso Austriaco, che senza lui saria vinto .e per lui vincerà. ,, - « Ricevo la vostra' del 21 (scriveva Mazzini il 26 marzo 1849 alla madre). Per l'amor di Dio, non profanate il vostro carattere di madre e di repubblicana con entrare in polemiche. Gioberti è matto; nè io scendo mai a difese personali, se non per fatti come quei degli scritti che mi s'apponevano. La mia risposta starli, spero, nella durata della Repubblica ... ,, ecc. (2). E quale fervore nel corso della lotta! Quando i francesi cominciarono in forza l'attacco di Roma, già circondata da quasi tutti i Iati, e l'eroica resistenza dei repubblicani riportava il. 30 aprile una vittoria fulgida di gloria, egli ne tiene al corrente la mamma sua: « Cara madre (scrive il 30), la lotta è impegnata; finora con vantaggio nostro. Eccovi l'ultimo proclama fatto da me: una mezz'ora fa .... » (1) Scritti edili ed inediti di Giuseppe Mazzini. - Volume XL (Epislo~ lario, voi. 21°). - Edit. Cooperativa Tipografico-Editrice Paolo GalPati, Imola, 1924. - L. 7. (2) Idem, idem - pag. 40 e 41 (vedi il testo è la nota),

168 J.' u N I V E n s I T À J, l B E n A E più sotto: « L' Ass·emblea è riunita qui nel palazzo, del Govemo, ov'io sono. Addio: fede e coraggio. Amate il figlio Giuseppe». E poi ancora: « Garibaldi si fa onore. La- città è tutta provveduta di barricate». E l'indomani: « Mia cara madre, Vittoria. - Ieri abbiamo avuto combattimento tutta la giornata: la sera i francesi erano respjnti.., » e dopo aver date notizie più particolareggiate dell'esito della lotta, a proposito di cose personali aggiungeva: « Vi par-lerò qi tutto, appena avrò tempo. Ora non posso. Vi sono notti I).elle quali sono andato a letto alle· sette e mezza della, mattina. E nondimeno sto benissimo. Addio, madre mia. La Gazette de France diceva ch'io era già scappato a( primo giungere dell'intervento francese. » (1)_. * * * - Pieno d'interesse drammatico, storico e psicologico insieme, è lo scambio di lettere in Roma tra Mazzini e gli altri uomini del governo e della difesa, specialmente quelle con Garibaldi. Mazzini conosce i suoi u01pini, sa Garibaldi ombroso ·e indocile come il puledro più generoso, e conosce anche se stesso, autoritario e invadente di quell'invadenza e autoritarismo che viene ·dalla sicur"ezza di sè; e si frena, comanda e prega nel medesimo tempo, si sdegna e accarezza, dà il suo parere ma poi si rimette al parere altrui, purchè si faccia, purchè non si perda tempo, purchè si salvi la repubblica o almeno la gloria e l'onore. Anche quando vede inevitabile la sconfitta, egli bada a tutto perchè in Roma si scriva con l'eroismo, col sacrificio, col sangue una pagina di storia che domani sia titolo di tale onore e di tal gloria per l'Italia, che la sconfitta non sia più tale, che l'ignominia ~ia tutta del nemico, e s'accumuli nel fragore della lotta e tra le macerie delle mura squarciate dal cannone francese un tesoro di ricordi cosi . .fulgidi da diventare una delle più potenti armi della ri:virtcita. . V'è una lettera del due giugno (a Garibaldi, che pel noto suo dissenso col gen. Roselli voleva dare le dimissioni) che strappa le lacrime, cosi vi si vedono cozzare i sentimenti più forti coi più forti affetti; ·e.vigile sovra tutto la coscienza del-la causa buona da difendere ad ogni costo. contro 1~ comune debolezza umana come contro tutte le difficoltà .dell'ora tragica. Basti riportarne, per brevità, due o tre righe, da cui si comprende il resto: « Garibaldi! Io impazzisco e mi vien voglia di smettere la difesa della Città e ogni cosa, e andarmene a Fuligno o a casa del diavolo a finirla con un fucile in mano ... » E termina: « Scrivete ciò che esigete per la difesa; sarà fatto. Io non posso dirvi più di questo. Ma in nome di Dio non pensate ad allro che a salvare Roma e il paese. Credetemi vostro G. Mazzini. n (2). Una quantità di lettere allo stesso Garibaldi, al Roselli, ad (1) Idem, idem - pag. 72, 73, 75 e 77. (2) Idem, idem, - pag, 127-131.

L' UN I V E I\ s·J T À L I BE I\ A 169 Avezzana, a Manara, a Mameli, a Zambeccari, al Forbes, ecr, e poi ai vari agenti diplomatici, a personaggi illustri stranieri, op.- pure a uomini modesti e oscw·i ma utili, mostrano come Mazzini pensasse a tutto e di tutto si preoccupasse: dell'armamento, degli ospedali, dei prigionieri, dei feriti, dell'ordine interno, delle difese esterne, delle trincee, delle sortite, dei rapporti con l'estero, dei moti di Francia, delle trattative diplomatiche e militari, e via dicendo. E con ciò trova modo di tenere, passo passo, informata -di tutto' sua madre e i suoi amici di Londra, di Lugano e di Francia. Attraverso l'epistolario si segue lo svolgersi del dramma romano quasi meglio che in una narrazione sistematica .... Il 28 giugno Mazzini scriveva a George Sand: « Amica mia,. assisto all'agonia di una grande città ed il mio cuore agonizza; con lei. Dal 20.... i soldati del generale Oudinot sono sulla brec_-, eia». Ed il 3 luglio alla madre: « •... Roma ha ceduto. Ceduto• mercè l'Assemblea ... Io oggi ho dato la mia protesta in iscritto al-. l'Assemblea; ì francesi hanno alcune porte e stanno trattando, col. Municipio ... ». Il 7, sempre alla madre: - « Due linee per tenei:vi tranquìlla. Sto bene di salute. Ecco tutto. Dei francesi non ho voglia di parlare; trattano qui peggio assai dei Croati. .Stato d'assedio; a· casa alle nove e mezza; disarrnamento; commissioni militari; arresti. Nessun onesto vuol servirli. L'ufficialità dà la sua <limissione. La truppa è in disfacimento. Gli impiegati buoni ab-. bandonano. Essi si circondano di spie, ladri, vecchi agenti, di Gregorio ... » Alla sua amica Emilia Hawkes a Londra conferma: « •.•• La Guardia Nazionale è disciolta. Viene esibita sempre, in modo vile· e feroce, la forza bruta .... Il Consiglio municipale ha dato le sue•· dimissioni. I governatori francesi si circondano di spie, di l;:tdri, di malfattori. Il popolo ne uccide alcuni qua e là. Questo è lo stato attuale di Roma. » (1 ). Notevole, sempre da Roma, il 10 luglio, una lettera di prese~1'"· tazione a favore di Pisacane, partito per Londra, ad Emilia Hawkes: « Pisacane è un amico, uno dei nostri. È stato capo- di. Stato maggiore nel nostro esercito di Roma, e si è comportato da uomo forte, coraggioso e da vero patriotta. A me piace moltissimo· e sono certo che piacerà anche a voi. » {2). L'ultima lettera scrjtta da Roma, a Nicola Fabrizi, è del 12 luglio; ed il 13, dieci giorni dopo l'occupazione francese, partiva clandestinamente dalla città• ov'era giunto, accolto sì festosamente, quattro mesi prima. Si trattiene in segreto fino al 17 a Civitavecchia, e di qui salpa in incogn_ito per Marsiglia, passando dinanzi a Genova; ed iJ 20 riparte per Ginevra. Egli riprende così la malinconica-vita deJL'esule; ma da Ginevra scrive a George San<l: « Non mi credete scoraggi_ato; ricomincerò <lomani a lottare, se l'occasione se ne presente- (l) Idem, idem. - pag. 173, 181, 183 e 186. (2) Idem, idem. - ·pag. 205 e 206.

, 170 L'UN t V E I\ S t T À LI BE l\.A rà.;. » (Ì). Infatti il 30 luglio gìil annunziava alla madre d'aver deciso di riprendere le pubblicazioni dell'Italia del Popolo, sotto la fòrma di· rivista quindicinale. ., ,___ ; .._,_..,.., \ * * * V'è nella corrispondenza di Mazzini durante la Repubblica, in quella degli ultiiiìissimi giorni, qualche cosa che riguarda un fallo su cui si è sempre soffermata l'attenzione degli storici: la repressione degli attent~ti ed omicidi politici in Ancona, di cui la Hepubblica incaricò Felice Orsini, il quale vi spiegò grande energia, procedendo a molti arresti. Da due lettere di Mazzini, l'una allo Zambeccari del 20 giugno, e l'altra a Garibaldi del 26, appare che non tutti erano animati dal medesimo zelo di reprimere e di punire. Mazzini lodava lo Zambeccari per il complesso della sua attività a pro' della Repubblica; ma poi, a un certo punto, aggiungeva: << 01:a mi duole di dovervi biasimare per un fatto del quale voi non potevate calcolare la conseguenza; ed è la dimand·a fatta dei detenuti di Ancona. I fatti d'Ancona furono fatti terribili e che hanno danneggiato più d'un intervento la Repubblica. Conosco benissimo gli elementi; so che molti degli uomini promotori o esecutori di quegli omicidi credevano compit:re una opera politica ed utile alla Repubblica. Non però è meno vero che Ancona è stata preda d'un assassinio sistematizzato, d'ogni giorno, con ferocia inaudita, indegna di noi; ... qui da tutti fummo accusati d'essere complici ·d'assassini, e il liberarli farà e fa già credere a molti che l'arresto non fu se non una far!>a tra noi ed essi... '> E, a proposito della evasione di alcuni di loro mentre erano trasportati a Roma, nggiungeva: « Guai se in Ancona risapessero il fatto! » (2). __ Gli arrestati erano stati tolti ~Ila loro scorta presso Narni da un distaccamento di garibaldini comandato dal colonnello Haug, e si erano rifugiati a Roma. Garibaldi chiese a Mazzini di poterli prendere .con sè, affermando che poteva trarne <e partito decorosamente e di modo proficuo alla causa »; ma Mazzini gli rispondeva: << Voi non sapete il n1.ale che fate a noi ed alla repubblica, volendo ritenere quei d'Ancona con voi. È il colpo piii forte che possa in questo momento darsi al governo. Ignorate i fatti. Se fosse altrimenti, non rompereste il corso della legge. Riceverete una lettera di disapprovazione nostra. » (3 ). In questi brevi accenni si rileva tutta la diversità di psicologia tra Mazzini puritano e dommatico, e Garibaldi indulgente e disposto ad utilizzare le' forze più diverse per la causa: due tendenze, ambedue utili ma a·mbedue pericolose, perchè l'una può portare all'immobilità, a cozzare contro il muro, a coartare la stessa natura umana, (1) Idem, idem. - pag. 225. (2) Idem, idem.·- pag. 151 e 152. (3) Idem, id('llr. - Letler:i e nol:i a p:ig. 165 e 166.

L' l: N I V E R S i T À i. i B È R· A 171 e l'altra può invece· tràschtare aH'opporttltii$mlJ; foori strada e a risultali completamente opposti ài d~sideraH .. Una particolarità curiosa dell'epistc'.1la-do di i\Iatzini é la cori'ispm1denza di questi col principe Girolamo rapoleone BonalJtltlE/1 cugino del futuro Imperatore di Francia, 11111 che conservò ÌH!f pntt~chio tempo sentimenti rivoluzionari e repttbblicani, ed era sfato àssàf ~vVHSo alla spedizione francese su Roma. DC'Iresto if-_Mhè 1111 altro della: flliniglia Bonaparte, il principe Canino, a Ifoffilì lii dei principali agitatoti popolari prima e durante la Ifopubblica, m~ffibt~ della Costituente e 1.;uopresidente, e ammiratore di Mazzini. Al prinèÌpè Girolamo, il Mazzini scriveva, fra l'altro_, da GineTra il 3 agosto 1849, t~cèontandogli le ragioni deJia resa di Ruma ed esprimendosi in questi tei'mini sul Principe-Presidente: 1, Perdonatemi; ciò che vostro cugino ha fatto è indegno; ciò che la: Francia ha lascialo compiersi é indegno e assurdo; questo delitto é a11che un fallo grossolano . .Ricordate la letter.a che vi scrissi quando vostro cugino fu nominato? Oggi ve lo ripeto: vostro cugino è perduto. Come le dinastie, come le grandi istituzioni, è un grande ricordo che si fa perire nel fango. A voi il s~lvare dal naufragio l'onore della vcstra famiglia ... » ( 1). Dall'esilio M.azzini tendeva ansioso l'orecchio ad ogni notizia da Roma, sperando sempre qualche cosa di nuovo e fors.e illudendosi sull'importanza di fatti minimi. Per esempio, a proposito d'un fortuito incendio nella cappella di S. Luigi del Collegio Romano dell' 8 agosto, scriveva alla madre: « Le cose di Ròma vanno come devono andare. Avrete udito l' incendio del Convento dei Gesuiti. Possono far quel che vogliono, ma il popolo è nostro. » (2) Il 30 agosto ad Emilia Hawkes a Londra scriveva: ,« ••• E 1 cosi l'Ungheria è caduta; Venezia è caduta ... A Roma arrestano, costringono all'esilio, condannano ai lavori forzati a vita ... A Bologna e a Terni, sotto il regime austriaco e spagnuolo, fucilano i nostri giovani. A Milano bastonano uomini, donne, fanciulli. A Civitavecchia, centinaia dei nostri, cacciati da Roma· ... stanno letteralmente morendo di fame. La moglie di Garibaldi è morta lungo la via, vicino a Ravenna, di dolore e di malattia. Noi saremo, secondo l'espressione d'un uomo di Stato francese a Parigi, traqués comme des bétes fauves. E poi parlano di pace e di ordine; e abbiamo a Parigi dei Congressi per la Pace! ... Io sento sorgere in me, cli quando in quando, dei veri accessi di furore per questo trionfo in tutto il mondo della forza bruta sopra il Diritto e la Giustizia. Noi saremo migliori di loro: lo saremo fino alla fine; ma immaginand.o che si reagisca - che io diventi quello che asseriscono che ~ono, - immaginando che si (1) lde111, idem. - Pag. 2-15. (2) Idem, i<le111, .- Pag. 267 (testo e nola).

172 L' U N I V E R S I 'f À L I B F. R A, ricorra al pugnale e che si organizzi una vasta lega di vendiéatori, - chi potrebbe giustamente dichiarare che siamo dalla parte del torto? Credete a me: è per l'amore che porto a Dio, alla madre e alle sorelle, che non mi metto a capo d'una lega come quella; della loro vita poi, non ostante tutti i discorsi inutili che si fanno nei Congressi per la Pace, m'importerebbe molto meno della vita di un cane. Eppure, è assai doloroso di dover assi"stere a tutto questo, di dover lottare contro sentimenti di odio pei quali noi non siamo nati» (1). La « caccia » cui si riferiva in questa lettera il Mazzini, data ai rivoluzionari italiani raminghi per tutta Europa e in America, prendeva di lì a poco di mira i\Iazzini medesimo. E' questi fin dal 12 settembre (1849) annunziava, in altra lettera alla stessa sua amica inglese: « C'è già un ordine del ConsigJio Federale che mi dice cli abbandonare, non soltanto il Cantone, ma anche la Svizzera » (2). E con la madre esprimeva tutto il suo sdegno per la caccia data a Garibaldi, il quale, scampato miracolosamente.agli Austriaci traverso l'Appennino, veniva.arrestato e poi bandito dal governo Piemontese: « È bene che si veda che un uomo che onora . l'Italia, che soffre per essa e perde quanto ha di più caro piuttosto che rinnegarla, trova meschina persecuzione da un governo monarchico i Laliano che si dice liberale. A forza di smascherarsi, a forz.a di mostrarsi bassi, codardi, antinazionali, stancheranno i sudditi. .. » (3). * * * Non manca nell' Epistolario qualche cosa che può interessare coloro che si occupano ancora, ed a ragione, delle polemiche che Yi furono, specie dopo il 1848, fra gli unitari (mazziniani) e i federalisti (seguaci di Cattaneo e Ferrari) del partito rivoluzionario e repubblicano italiano. Ci riferiamo ad una lettera di Mazzini a Giuseppe Ferrari (4) del 2 ottobre 1849. I repubblicani federalisti _erano una ·minoranza e i loro sforzi naufragarono o quasi, pel sopravvento delle correnti unitarie monarchiche e repubblicane. i\fa indubbiamente la ragione, dal punto di vista rivoluzionario, era dalla parte dei federalisti. Eppure nel leggere queste lettere (specialmente la corrispondenza fra Mazzini e Ferrari, di cui in questo volume si pubblica solo una lettera del primo, ma che sono note per pubblicazioni speciali fattene altre volte) non si può non riconoscere eh~, malgrado ave,sse torto e lavorasse spesso senza accorgersene a beneficio dei (I) l<ie111, idem. - pag. 277-27!). (2) Idem, idem. - pag. 291. (3) Idem, idem. (pag. 2!H). O) Idem idem. - pag. 321-3'.H. ~ A proposito di tali. polemiche consultare il libro Un dramma tra gli esuli di A. l\'lonti (Casa Editrice Sociale, ~lilano) dove tra i documcnt~ è riportala questa lett'era di Mazzini insieme ad altre dello stesso, di Fenari, di Cattaneo, ecc.

L' U N I V F. R S I T À I. I n E R A 173 moderati della rivoluzione italiana -e dei monarchici, Giuseppe Mazzini vinceva e trascinava dietro di sè maggiori consensi per l'evidente sincerità delle intenzioni, per l' ardore e la tenacia della sua fede, per la costanza instancabile della sua attivib'.,, pel senso d'amore e di bonìtt che traspariva da ogni sua parola e per lo spirito di sacrificio da cui era animato. Giuseppe Ferrari, ingegno acutissimo, giudicava assai meglio dal punto di vista rivoluzionario gli uomini e le cose e s' ingannava di meno - benchè avesse anche lui degli apriorismi, come la fiducia nell'iniziativa rivoluzionaria francese, che lo trassero in errori evidenti - ma era una forza troppo cerebrale e troppo poco spirituale, troppo uomo di gabinetto; capì gli errori politici di Mazzini, ma non ne comprese il cuore e fu ingiusto con lui più d' una volta. Gli mancava ad ogni modo quel senso d' almegazione, che in Mazzini era tanto forte; e certo in lui assai minore fu la forza di resistenza ali' ambiente e la costanza, se lo vediamo finire, in. contraddizione con tutto il suo pass_ato, senatore del Regno e cavaìiere del Merito Civile di Savoia, mentre Giuseppe Mazzini, hicrollabile, moriva dopo di lui « esule in patria» ma sempre fedele alle idee difese, predicale e tentate d'attuare senza stancarsi mai fino dagli anni dellà giovinezza. Certo assai migliore del Ferrari, ugualmente lontano in teoria ed in pratica da Mazzini, ma più vicino a ·questo per superiorità d'animo e di cuore, fu Carlo Cattaneo. Ma non divaghiamo. La_ lettera di i\Iazzini a Ferrari, dell' ottobre 1849, invitava quesli a collaborare nell'Italia ciel Popolo risorta a Losanna, e tentava amichevolmente di vincerne ·]e riluttanze, di spiegare il passato, di confutare le obiezioni con accenni di cui l'uno e l'altro comprendevano il significalo. ?\fa forse prevedeva che Ferrari si sarebbe rifiutato, perchè annunciandogli come Cattaneo gli avesse gii, risposto di non calcolare su di lui, aggiungeva malinconicamente: « E questo è il male supremo. O inerzia o individualità che si ritirano come Achille nella tenda. L'influenza che s'acquisterebbe pel bene, se ci mo- . strassimo tutti unili, associati ed attivi, non l'intendo che io» (1). Ed aveva ragione. Ma d'altra parte bisogna convenire che, con una personalità dell'imponenza di Mazzini, - che ormai riempiva di sè il movimento rivoluzionario italiano, ---:-era troppo difpcile collaborare, avendo idee diverse, senza lasciarsi assorhire e trascinare nella sua orbita al di là dei propri intendimenti. Nè a ciò potevano facilmente ~-assegnarsi clclle forti individualità come quelle di Cattaneo e Ferrari. Ad ogni modo Mazzini fece I' Jtctlia del Po polo tu tla da sè o con quelli ch'erano già suoi fedeli seguaci. Vi collaborò, è vero, Carlo Pisacane che dissentiva radicalmente da lui ed era all'incirca sulle stesse direttive di Catt::lneo e Ferrai:i (anzi si spin- (1) Idem, idem. - pag. 324.

174 1.1 V N I V R R S I T À L I R F. R A geva molto più in là); ma Pisacane, indipendentemente dal dissenso dottrinario, in pratica e nel campo dell'azione continuò sempre a cooperare con Mazzini, d'accordo col quale doveva otto anni dopo organizzare la tragica spedizione di Sapri in cui finì eroicamente la vita. . Nell'Epistolario si seguono con interesse le vicende della fondazione della nuova 1lalia del Popolo e le difficoltà d'ogni sorta, specialmente a causa degli impedimenti, sequestri, ecc. con cui la perseguitavano non solo i governi austriaco, papale, borbonico, ecc. ma anche il Piemonte costituzionàle e la Francia repubblicana. Ma avevan tutti da fare con uno che sapeva sventare tutte le misure preventive. « È uscito il terzo numero della rivista, - scriveva egli alla madre il 26 ottobre, - ed esce il quarto il 31 di questo ,mese. In Piemonte par già proibita. In Francia una circolare di Dufaure (I) vieta l'introduzione; ne hanno fin preso un· numero alla ·cramer ch'è in Parigi. Che vili! Tutto ciò fa nulla. Con un po' di pazienza entrerà in Francia, in Piemonte e per ogni dove. Allora si volgeranno qui e vedremo; ma chi la dura la vince, e hanno anch'essi un'osso duro da rodere ». · Dopo quattro mesi appena dalla cadilta della Repubblica Romana, .Mazzini sfidava già, pieqo ùi baldanza, quasi tutti i. governi d'Europa. Strano, ma solo in apparenza: il suo linguaggio pare pii1 fiducioso, piil confortato, e quasi quasi più sorridente e giovanile attraverso le lettere che scrive dal nuovo esilio, che non il linguaggio delle lettere che scriveva quando a Roma era capo, o uno dei capi, della Repubblica. Evidentemente il suo spirito si sentiva più sereno e libero tra le persecuzioni e i disagi della sconfitta, che sotto il peso e le responsabilità del potere e tra le possibilità della vittoria. • * * * ; , Per quanto fra i tempi attuali e quelli che intercorsero tra il cader delle brevi repuhbliche italiane del 1849 e il risorgimento del 1859-G0 possa esservi più d'un motivo di confronto, non invano. son passati ben tre quarti di secolo. Troppe cose sono mutate e. avvenimenti troppo gravi ed enormi si sono succeduti da allora: la storia si svolge ormai con un ritmo diverso oltre che più accelerato; si sono addirittura rovesciate le condizioni politiche, / economiche e intellettuali d'Italia e d'Europa; mutate radicalmente le idee; diversi i costun~i, i sentimenti ed i bisogni. Sarebbe erroneo quindi cercare nei fatti di una età già così remota delle norme pratiche di azione e attuazione politica. I nostri propositi nella vita, i programmi politici e sociali che preferiamo, le idee sulla religione e sull'ordinamento degli stati, (.1) Idem, idem. - pag. 341. Il Dufaure era Ministro dell'Interno in Francia in quel momento, In altre lettere i\fazzini lamentarn che si sequestravano copie della sua rivista, ';'lnche se soltanto di passaggio attraverso le ferrovie francesi, di1·elte in Inghilterra ed in America..

.. .. t.' IJ N I V F. R S I T À J. I R E: RA. 175 la v1s1one dell'organizzazione avvenire delle nazioni e dell'umanità possono essere, e sono i!lfatti per gran parte di noi, assolutamente diversi e sotto certi aspetti avversi ai propositi, prngrammi, idee e visioni che animarono nell'apostolato e nell'azione i grandi agitatori e i pensatori delle rivoluzioni repubblicane e nazionali ed in genere dei movimenti sociali della metà del secolo scorso. Le nostre aspirazioni oggi non sono le stesse di quelle di Mazzini o di Cattaneo, di Quinet o di Blanc, di Garibaldi o •di Kossutl~. Anche se molte di esse continuano sulla direttiva della traiettoria da questi tracciata, anche se noi non ripudiamo affatto le conquiste che essi fecero, noi oggi vogliamo qualche altra 'cosa, noi vogliamo di più. La nostra critica investe gran partf dei loro programmi, noi neghiamo certe loro formule religiose o politiche, siamo fuori o contro i loro schemi determinati o quelli dei partiti che da essi derivano. Eppure, quando torniamo col ricordo. o con lo studio ad alcune di quelle figure della storia, quando pensiamo all'esempio che esse ci hanno lasciato, quando - come in queste pagine di Giuseppe Mazzini - noi riviviamo, non i freddi programmi e le aride formule più o meno sorpassate, ma la loro vita di lotta e di sacrificio, il sentimento profondo d'umanità da cui erano mossi, il desiderio di libertà che li infiammava, tutto l'amore e la bontà di cui traboccava il loro cuore, allora .li sentiamo vicinissimi a noi, piit che contemporanei, e Maestri. Sentiamo di poter cioè sempre imparare qualche cosa da essi, di poter attingere in essi ancora di che appagare la nostra sete d'ideale e di miglioramento morale, di potervi trovare un conforto ed un incoraggiamento a )}Onpiegarci sotto le sconfitte più dolorose, a resistere -perchè contro tutte le bufere l'anima resti serena e diritta ed il cuore fedele a tutto quanto crediamo vero. e giusto ed a cui abbiamo giurato amore fin dalla prima giovinezza. Noi possiamo discutere le teorie di questi Maestri; ed infatti le soluzioni ch'essi davano ai prob emi che più ci preoccupano non ci persuadono, e preferiamo altre soluzioni che crediamo migliori, più giuste, più vicine alla verità. Ma il desiderio di bene da cui essi erano animati è simile al nostro; e come Educatori essi esercitano ancora una influenza elevatrice ed un'alta 'funzione d'incivilimento. L' esempio della loro vita ed il loro· ardente apostolato costituiscono tuttora una scuola di digi;iità umana e di carattere, che può utilmente e nobilmente reagire contro i mali insegnamenti dell'opportunismo, dell'egoismo e della menzogna, che corrompono l'età nostra e minacciano precipitarla in una decadenza irrimediabile. LUIGI FABBRI,

DIZIONARIO_FILOSOFICO Antropofagi Abbiamo giù parlato dell'amore. È duro passare da genie che si bacia n gente che si mangia. Ma è purli·oppo vero che vi sono. stati degli antropofagi; ne abbiamo trovali in America; ve ne sono forse anche ora, ed i ciclopi non erano ·i soli che nell'antichità qualche volta si nutrissero di carne -umana. Giovenale racconta che lra gli Egiziani, un popolo tanto saggio e famoso per le sue leggi, e così pio che adorava i coccodrilli e le cipolle, i Tentiriti mangiarono uno dei loro nemici caduto nelle loro rriani; e non ci riferisce questa storia per averla sentita dire: questo delitto fu commesso quasi sotto i suoi occhi. Eru Giove~ale allora in Egitlo ed a poca distanza da Tentir. In qùesta occasione cita pure i Gasconi ed i Sagontini, i quali altra volta si- nutrirono _della.carne dei loro compatriotti. Nel 1725 si condussero a Fontainéblel1U quattro selvaggi del .i\lississipì, ed io ebbi l'onore d'intervistarli; tra loro vi era pure una signora del paese alla quale io domandai se aveva mai mangiato degli uomini; molto ingenuamente essa mi rispose che _ne aveva mangiati. Io mi mostrai un po' scandalizzato; e<l essa .~i scusò dic_endo che valeva meglio mangiare il proprio nemico morto che lasciarlo divorare. dalle l}estie, e che i vincitol'i meritavano di avere la preferenza. Noi uccidiamo in battaglia i nostri vicini, e per la più vile ricompensa lavoriamo ad ingrassare i corvi ed i vermi. Quivi è l'errore ed il delitto. Quando si è uccisi, cosa importa essere mangiati da un soldato o da un corvo ed un cane? Noi rispettiamo di più i morti che i viventi. Sarebbe stato necessario rispettare gli uni e gli altri. Le nazioni che "si dicono civili hanno avuto ragione di non mettere allo spiedo i loro nemi~i vinti poichè, se fosse slato permesso di mangiare i propri vicini, bentosto si mangerel:tero anche i propri compatriotti, il che sarebbe un grande inconveniente per le virtù sociali. Ma le nazioni civili non sono sempre state tali; tutte sono state per .molto tempo selvagge, e nell'infinito numero di rivoluzioni che il noslro globo ha subilo, il genere umano è stato ora numeroso, ora rado. È successo agli uomini ciò che succede oggi agli ele- .fanti., ai leoni, alle tigri, la cui specie è molto diminuita. Nel -tempo in cui una contrada era poco popolata di uomini, questi avevano pochi mestieri e vivevano di caccia. L'abitudine di nutrirsi di eiò che avevano ucciso rese pacifico che essi trattasse- . ro i loro nemici come fossero cervi o cinghiali. È stata la superstizione che ha fatto immolare delle vittime umane, è stata la necessità che le ha fatte mangiare. Quale delitto è più grave, quello di riunirsi religiosamente per ficcare un coltello nel cuore di una ragazza ornata cJi infule,

,.' u N I V F. R s I T À r. r R R R A 17? ad onore della Divinità, o di mangiare un brutto uomo che si è ucciso battagliando? ~ppur~ _noi_abbia~o molti più. esempi di rag~zze e giovanotti sacnf1cah che d1 ragazze e g10vani mangiati; quasi tultf' le nazioni ~onosc!ute l~anno sacrifica_to d~i giovani e delle giovanette. Gh Ebrei ne immolavano. S1 cluamava ciò l'anatema• era un vero sacrificio, ed al capitolo XXVII del Levitico è ordi~ nato di non risparmiare affatto le anime viventi che saranno state votate al sacrificio; ma in nessun luogo è prescritto di , mangiarne, - vengono soltanto minacciate; e ;\losè, come abbiam veduto, dice agli Ebrei che, se essi non osservano le sue cerimonie, non solo avranno essi la rogna, ma che le mamme mangeranno i loro figli. Vero è che dal tempo di Ezechiele gli Ebrei dovevano essere nell'uso di mangiare della carne umana, giacchè predice loro, al capitolo XXXIX, che Dio farà loro mangiare non solo i cavalli dei loro nemici, ma anche i c·avalieri e gli altri guerrieri. Ciò è positivo. E infatti perchè gli Ebrei non sarebbero stati antropofagi? Sarebbe stata questa la sola cosa mancante al popolo di Dio per essére il più abbominevole della terra. Ho letto negli aneddoti della storia d'Inghilterra al tempo di Cromwell che una candelaia di Dublino vendeva candele e.ccellenH fatte con del grasso di Inglesi. Qualche tempo dopo· uno dei suoi clienti si lamentava con lei pet il fatto che le sue candele non erano più così buone: « Ohimè - rispose essa - è perchè gli Inglesi questo mese ci sono mancati)), lo domando chi era pii1 colpevole, quelli che sgozzavano gli Inglesi, o quella donna che faceva le candele col loro sego? Apis , Il bue Apis era adoralo a Menfi come dio, come simbolo, o come bove? Si può credere che i fanatici vedevano in lui un dio, i saggi un semplice simbolo, é che il popolo sciocco adorav·a il bue. Fece bene Cambise, quando ebbe conquistato l'Egitto, ad uccidere con le sue mani quel bove? · E perchè no? Egli fece vedere agli imbecilli che si poteva mettere il loro Dio allo spiedo, senza che la natura si armasse per vendicare quel sacrilegio. Gli Egiziani sono stati molto vantati. Io non conosco invece un popolo più disprezzabile: occorre che nel loro carattere e nel loro governo vi sia sempre stato un vizio radicale, che ne ha fatto dei vili schiavi. Consento che in tempi quasi sconosciuti essi abbiano conquistato la terra; ma nei tempi storici essi sono stati soggiogati da tutti coloro che se ne son voluti dare la pena, dagli Assirì, dai Persi, dai Greci, dai Romani, òagli Arabi, dai Mussulmani, dai Turchi, infine da tutto il mondo, eccetto

178 J/ t; N I V F. R S I T À I. I B E R J. che dai nostri crociati, atlesochè questi erano più malaccorti di quel cl1e gli Egizia1,1i non erano vili. Fu la milizia dei Mammalucchi che battè i Francesi. Non vi sono forse che due cose passabili in quella nazione: la prima, che coloro che adoravano un bue non vollero mai costringere quelli che adoravano una scimmia a cambiare di religione: la seconda, che essi han fatto sempre nascere dei pollastri nei for,ni. Si vantano le loro pi rami di; ma sono dei monumenti di un popolo schiavo. Bisogna che vi si faccia lavorare tutta la nazione, senza di che non si sarebbe arrivati ad elevare quelle brutte masse di pietra. A cosa servivano le piramidi? A conser- • vare in una piccola camera la mummia di qualche principe, o di qualche governatore, o di qualche intendente, che la sua anima doveva riesumare in capo a mìlle anni. Ma se essi speravano -quesla resurrezione del corpo, perchè levavano loro il cervello prima di imbalsamarli? Gli Egiziani dovevano resuscitare sen- · za cerve Ho? · Apocalisse · Giustino martire, il quale scriveva verso l'anno 170 della nostra era, è il primo che abbia parlato dell'Apocalisse; egli l'attribuisce all'apostolo Giovanni l'Evangelista_. Nel suo dialogo con Trifone, questo ebreo gli· domanda s'egli non credesse che Ge·c rusalemme dovesse essere un giorno ristabilita. Giustino risponde di crederlo, così come lo credono tutti i cristiani che pensano giustamente. « Vi è stato tra di noi, egli dice, una certa persona chiamata Giovanni, uno dei dodici apostoli di Gesù: egli ha predetto che i fedeli passeranno mille anni in Gerusalem1ne ». Questo regno di mille anni fu un'opinione per m_olto tempo ricevuta fra i cristiani. Questo periodo era in gran credito presso i gentili. Le anime degli Egiziani riprendevano i loro corpi al termine di mille anni; le anime del purgatorio, in ·virgilio, erano esercitate durante questo stesso spazio di tempo,. et mille per _annos. La nuova Gerusalemme di mille anni doveva avere dodici porte, in n~emoria dei dodici apostoli; la sua forma doi veva essere quadrata; la sua lunghezza, la sua larghezza e la sua altezza dovevano essere di dodicimila stadi, cioè cinquecento leghe, in modo che anche le case dovevano avere quell'altezza. Sarebbe stato molto sgradevole abitare all'ultimo piano; ma infine è ciò che dice l'Apocalisse al capitolo XXI. S: Giustino è il primo che attribuisce l'Apocalisse a San Giovanm, altre persone hanno ricusato la sua testimonianza attesochè in quello stesso dialogo con l'ebreo Trifone egli dic~ che, secon~lo il racconto degli Apostoli, ·Gesù Cristo, discendendo )lei G10rdano, fece bollire ed infiammò le acque di quel fiume; Il che pertanto non si trova in nessun scritto degli apostoli. -

L' U N I V F. R S I T À L I R F. R A 179 Lo stesso san Giustino cita con fiducia gli oracoli delle sibille; di piit pretende aver visto i resti delle piccole case dove furono rinchiusi i settantadue· interpreti nel faro di Egitto, al tem.po di Erode. La Leslimonjanza di un uomo che ha avuto la . disgrazia di vedere quelle piccole case sembra indicare che l'autore vi doveva essere rinchiuso. Sant'Ireneo, che vien dopo, e che credeva pure nel regno di mille anni, dice di aver appreso da un vegliardo che San Giovanni aveva fatto l'Apocalisse (Libro V, capitolo XXXIII). Ma si è rimproverato a Sant'Ireneo di avere scr-itto che non vi devono essere che quattro Ev.angeli, perchè non vi sono che quattro parli del ._mondo e quattro venti cardinali, e perchè Ezechiele non ha visto che quallro animali. E questo ragionamento lo chiama una dimostrazione. Bisogna confessare che il modo con cui Ireneo dimostra, vale quello con cui Giustino ha veduto. Clemente di Alessandria, nella sua Elecla, non parla che di un'Apocalisse di San Pietro di cpi si faceva un gran caso. Tertulliano, grande partigiano del regno di mille anni, non solamente assicura che San Giovanni ha predetto questa resurrezione e quel regno dei mille anni nella città di Gerusalemme, ma pretende che .questa .Gerusalemme cominciava già a formarsi nell'ari.a~ che tutti i cristiani della Palestina, ed anche i pagani, l'avevano veduta· durante quaranta: giorni di seguito al termine della notte; ma disgraziatamente la città spariva appena era giorno. ,· · Origene, nella sua p~efazione suH'Evangelo di San Giovanni e nelle sue Omelie, cita gli oracoli dell'Apocalisse, ma cita ugualmente gli oracoli delle sibille. Frattanto San Dionigi di Alessandria, il quale scriveva verso la metà del terzo secolo, dice; in uno dei suoi· frammenti conservati da Eusebio (Storia della chiesa, libro VII, cap. XXV), che quasi tutti i dottori rifiutavano l'Apocalisse come un libro privo di ragione, e che quel libro non è stato affatto composto da San Giovanni, ma da un tal Cerinto, il quale si ~ra servito di un gran nome per dare maggior peso alle sue fantasticherie. Il concilio di Laodicea, tenuto nel 360, non contò affatto l'Apocalisse tra i libri canonici. Era ben singolare che Laodicea, che era una chiesa alla quale l'Apocalisse era rivolta, rifiutasse un tesoro ad essa destinato, e che il vescovo di Efeso, il quale assisteva al concilio, rifiutasse pure quel libro di San Giovanni sepolto in Efeso . ... Era. b_en visibile a tutti che San Giovanni si moveva sempre nella sua fossa, facendo continuamente _alzare ed abbassare la terra. Eppure le stesse persone eh~ erano sicure che San Giovanni non era morto del tutto, erano sicure anche ch'eglj non . aveva fatto l'Apocalisse. Ma coloro che parteggiavano per il regno di mille anni furono incrollabili nella lorn opinione. Sulpicio Se-

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