Una città - anno VI - n. 49 - aprile 1996

un ALLA FI DELLA PRO ESSA Ripartire dalla molecolarità sociale capace di mediare fra locale e globale. La stretta fra populismo e globalizzazione e la saga dei "parametri di Maastricht". La fine della promessa infinita della crescita. Il futuro nel "servizio e manutenzione", dove conta l'arte della ripetizione. Un'istituzione non paralizzata da procedure e competenze. Verbale di un seminario con Guido Bolaffi, Aldo Bonomi e Giuseppe De Rita. Riportiamo parti del verbale di un seminario svoltosi presso l'Aaster di Milano. Partecipano Giuseppe De Rita.presidente del Censis, Guido Bolaffi, capo- dipartimento del Ministero degli Affari Sociali e Aldo Bonomi, direttore dell'Aaster. Bonomi. La discussione può svilupparsi innanzitutto intorno a cosa significhi per il nostro impegno di animatori dello sviluppo locale il passaggio da un'azione esclusivamente orientata all'economico a un'azione a fianco della pubblica amministrazione per creare momenti di interconnessione nel sociale, nelle forme di convivenza, nella costruzione di reti tra città. Questa sfida ci era stata lanciata tempo fa dallo stesso De Rita: "Forse si è chiuso il ciclo in cui bisognava fare animazi9ne nelle aree deboli e occuparsi solo dei problemi dello sviluppo; nelle città si sta deii"- neando lentamente un embrione di classe dirigente; si può cominciare a fare accompagnamento tramite una figura di ricercatore-operatore di comunità". Secondo me, era una pista di lavoro che aveva a che fare con il problema dell'anomìa, quell'assenza ormai di norme sociali provocata dall'incapacità di una serie di istituti intermedi, dai partiti alle grandi agenzie culturali, di metabolizzare i grandi processi di mutazione che l'economico e la tecnica producono. Ci sembrava che lavorare attorno ali' anomìa potesse orientare un ulteriore sviluppo del nostro lavoro di ricerca sociale. Due dubbi. Lo stesso De Rita ci disse allori: "Ma quando fai le missioni di sviluppo il successo o l'insuccesso di un' operazione riesci a quantificarlo, hai dei parametri per misurarlo. In un'area a sviluppo difficile si presume che hai avuto successo se avrai formato alcune imprese giovanili, se avrai lasciato dei beni, se avrai prodotto inclusione. Se tu, invece, lavori su una forma astratta come l'anomìa, quali sono gli indicatori di successo?". L'altro, più che un dubbio è una messa in guardia dai fraintendimenti intorno al nostro successo. C'è oggi un'aumentata attenzione su questi temi, che si può ricondurre essenzialmente al fatto che ormai questa società deve produrre artificia~mente ciò che la tiene insieme; deve, cioè, pagare operatori che vadano a ricostruire elementi di relazione sociale. E' una valutazione un po' triste, ma frutto proprio della crisi profonda dei luoghi intermedi che facevano da sé, gratuitamente, interconnessione sociale. Il secondo punto di discussione è la crisi del we/fare. Uno dei temi su cui abbiamo molto ragionato in questi anni dentro l 'Aaster è stato proprio la transizione dal fordismo al postfordismo, che vede imporsi l'egemonia culturale del lavoro autonomo o indipendente. Non c'è dubbio che se la forma del lavoro diventa individuale, se il soggetto corre libero nella gara delle opportunità, vengono meno anche quegli elementi di solidarietà, di azione collettiva che prima, automaticamente, erano incorporati dentro il lavorare. Non è un cambiamento da poco. Legato a questo, poi, la forma dell'impresa sociale, del cosiddetto terzo settore, che ripropone alcuni comportamenti solidaristici dentro la crisi del welfare, ci pare un tema importante su cui URSULA BARZAGHI SENZA VERGOGNA UNA STORIA DI CORAGGIO CONTRO L'AIDS ragionare. DeRita. Se abbiamo avuto un potere negli anni 70 e 80, era perché abbiamo cantato la saga della piccola impresa e del localismo. Oggi, la saga è quella della competizione, dell'organizzazione, dell'efficienza a tutti i costi, della mondializzazione: è la saga di Maastricht. Una saga che non si sa dove nasca, se a Wall Street o alla Borsa di Londra o in quella di Tokyo, ma che alla fine arriva pure nella nostra piccola aziendina di 15 persone, arriva pure nel più piccolo paese del Sud Italia, perché, come ricorda spesso Aldo, questo è il vero potere, il potere delle parole, il potere dei concetti, il potere del racconto. E il racconto di oggi è quello dei "parametri di Maastricht". Può darsi che io sia vecchio e che questa saga sia la migliore del mondo, ma non ne sono convinto. Resta il fatto che quella della competizione, dell'efficienza globale, della mondializzazione, insieme a quella della comunicazione di massa, sono le due saghe che attualmente vengono raccontate. Tutto questo significa, da una parte, una cultura di massa che in assenza di conflitto sociale, di dialettica sociale crea populismo e potere dei Cesari, potere della televisione e annullamento dello spirito critico, dopodiché nulla di strano che in piazza a Napoli, a uno che dice: "A chi l'Italia?", loro, come una massa inerte, rispondano: "A noi!"; mentre, dall'altra, il racconto dell'efficienza e della crescita globale a tutti i costi, ricade su di noi in termini di chiusura di qualsiasi gioco. L 'efficienza assoluta significa eliminazione dello stato sociale, diete magre per tutti, dalle imprese fino agli istituti di ricerca e porta alla fine di ogni ridondanza. Altro che nuovi Adriano Olivetti! Pensate, per esempio, cosa fu I'Ibm quando arrivò in Italia: aveva il 10-15% in più di personale, doveva essere ridondante, perché la ridondanza è ricchezza, perché c'è qualcuno che può studiare, può parlare, può ragionare, può ricercare quello che serve all'efficienza quotidiana. Un mondo che non ha ricchezza non ha neppure bellezza. Nella cultura italiana, nella cultura europea, non si dà una ricchezza estetica che non sia legata ali' abbondanza, al mecenatismo, alla cultura dell'in più, della ridondanza. window 94, window 95, window 2077. Poi? Ancora window? Qualche volta anch'io ho detto: "Bisogna ricontrattare Maastricht". Ma la gente sorride, perché il racconto vuole altro, perché il racconto è già scritto. A quel punto potremmo anche andare a migliorare la qualità della vita nel Comune di Guardia Greca, provincia di Chieti, ma non è che poi sia una cosa meravigliosa, ci possiamo mandare davvero i parroci e i volontari. II primo punto è quindi questo: in che modo contrastare la crescita del populismo e il racconto della globalizzazione. Vediamo il secondo punto: il we/fare. Il we/fare è certamente l'elemento che viene toccato principalmente e prioritariamente da questi due processi. Rispetto al we/fare una cultura populista fa scattare o la difesa acritica dell'esistente: "Guai a chi mi tocca la pensione, vado in piazza!", oppure fa scattare l'emozione dei volontari: "Vado e faccio tutto io!", e in mezzo non resta niente. Il populismo rivela qui la sua doppia anima: quella, incazzata e nervosa, da casseurdi strada, e quella, nobile, di chi va dagli handicappati la domenica mattina in parrocchia. Dopodiché le polizze salute, le polizze sanità, le polizze integrative di pensione non funzionano, i fondi pensione sono ancora di là da venire e sono tutti lì a combattere: saranno le banche, saranno i sindacati o saranno le società di assicurazione? Gli stessi corpi intermedi, pensate al sindacato, alla fine non riescono a gestire altro che la difesa della realtà di fatto. Ma ~sGorso dellçQizzazione esprime valori che sono tutti antiwelfare: il valore del l'efficienza, iI valore del la competizione, cioè quella sorta di darwinismo sociale che sta dentro la saga della competizione globale e che dice: "Si cresce o si muore e, siccome molta gente non può crescere, non sopravvive e muore". Terzo ed ultimo punto: il passaggio dalla ricerca-azione per lo sviluppo locale alla ricerca-azione per la convivenza collettiva, alle reti di città. Per carità, è il trend naturale di sviluppo del vostro lavoro, non mi sentirei proprio di modificarlo. Ma c'è un però: la ricerca-azione per lo sviluppo locale aveva forza sia nella parola "ricerca-azione" che nelle parole "sviluppo locale". "Ricerca-azione" è una parola che aveva in sé forza di potere: significava militanza, fare autocoscienza di gruppo, significava autodominio, autoprogrammazione della comunità. Così come c'era una forza notevole nell'espressione "sviluppo locale", perché "sviluppo" e "locale" sono parole che hanno segnato gli anni 60-80. Invece, espressioni come "convivenza collettiva", "qualità della vita", "servizi locali", mi sembrano più deboli perché non hanno dentro di sé il germe della crescita. E senza quella parola, "crescita", non avremmo avuto lo sviluppo imprenditoriale, la ricchezza, l'esplosione del Nordest. Dire: "Ritorniamo nella città, risistemiamo la nostra vita, facciamo dei buoni servizi per gli anziani, per i ragazzi, eliminiamo l'inquinamento, ecc.", per carità, ha una tensione razionale, ma non quella sorta di psichismo collettivo che ha accompagnato la crescita del locale, lo sviluppo locale. Allora o a tutto questo si dà una spinta diversa, perché diventi, non dico una svolta epocale, ma una svolta culturale notevole o, altrimenti, resta solo razionalizzazione, difesa dell'esistente, "viviamo al meglio". E sappiamo che non si vive al meglio, perché i processi, quelli grandi, compreso il populismo, crescono anche nelle città' ben organizzate, non solo in quelle scombinate. Allora mi domando se, come dice Hillmann nel suo ultimo libro, non si debba concepire il potere non più legato alla doppia frase "crescita ed efficienza, efficienza e crescita", ma legato a un'altra doppia frase: "servizio e manutenzione". Mi chiedo, cioè, se non si debba, noi ricer- \ catori, sottolineare il fatto che con questi anni 90 finisce il continuo upgrading, la promessa infinita dello sviluppo, della crescita, del nuovo sviluppo, della nuova crescita e comincia invece un ciclo di downgrading in cui diverrà sempre più attuale il servizio, la manutenzione. Questa è l'ipotesi su cui in parte mi muovo io. Del resto, Io sapete che il Censis, da tre o quattro anni, e a differenza di tanti altri, ragiona di downgrading. Chi ha letto Confucio nel computer di Furio Colombo, sa che la tecnologia che innerva il capitalismo moderno, cioè la telematica, vive di promessa infinita. E' la sua grande forza, ma anche la grande debolezza perché prima o poi I' upgrading finisce: ti do questo, ma fra due anni ti posso dare quest'altro. Window '94, window '95, window 2077, puoi navigare in Internet, puoi avere tutto, il contrario di tutto. Per noi, sul piano politico, l'upgrading è stato Berlusconi: ha promesso, ha rilanciato, è fuggito in avanti, però, poi, abbiamo i dati sui consumi: sono tre anni che c'è downgrading, abbiamo i rapporti sulla tecnologia, che ci dicono che siamo di fronte a una tecnologia media. Allora, forse, non si tratta neanche di contrastare 1'onda di Maastricht, perché se ne andrà via da sola. Per stare dentro iIprocesso storico devo sapere qual è l'onda successiva, a meno che non si scelga di fare i gestori di una residualità. D'altra parte, questa è, nientemeno, la scelta della Chiesa: i poveri, i volontari, il terzo settore, le parrocchie, la comunità locale. A mio avviso, ma questo riguarda me come cattolico, non è giusto che un grande soggetto collettivo come la Chiesa scelga di non stare al l'interno del processo per prendersi cura soltanto dei cascami, dei poveri residui, dei dolorosi residui, quello che sia. La scelta privilegiata per i poveri va benissimo, ma così non si è più soggetto di storia. Se invece noi vogliamo avere un po' di potere, dobbiamo aver l'orgoglio di ricominciare il racconto da un altro punto di vista. Allora dire "servizio e manutenzione", significa ad esempio andare in giro per le città e dire: "non vengo a gestirti il terzo settore, ma a spiegarti cosa significa oggi fare le opere pubbliche pensando a come saranno manutenute". Significa andare a dire: "vi proponiamo una riflessione sui servizi, non sui servizi sociali, ma sul modo in cui iIcomune o la provincia fanno servizio, predispongono servizi". se anche il più grande soggetto collettivo della storia, la Chiesa.•• Naturalmente c'è il rischio che l'onda dell'efficienza e della crescita, l'onda di Maastricht e della globalizzazione, siano più forti e rendano, fra cinque anni, del tutto marginale una logica di questo genere. Male che vada, ci resterà da fare quello che diceva Aldo: il problema della convivenza collettiva, il terzo settore, poiché l'organizzazione del welfare sul territorio resterà comunque. Se accetta di essere subalterna al ciclo storico la Chiesa, che è il più grande soggetto collettivo che esiste al mondo ... Bolaffi. Credo che il problema sia riprendere i fili di un ragionamento su una cultura di centrosinistra in Italia, perché lì sta il possibile punto d'incontro del meglio di questo paese. Un meglio che deve contemperarsi, e questo penso di averlo misurato personalmente: la mia cultura socialdemocratica è tendenzialmente istituzionale. A me non piace molto il sociale; sono, quindi, su posizioni opposte a quelle di De Rita, almeno per come penso di averle capite studiandole fin dagli anni 60, e di quelle di Aldo, con cui abbiamo avuto tante discussioni. E infatti sul tema dell'immigrazione ci siamo incontrati partendo da due punti di vista diametralmente opposti e credo che questo sia un segno dei tempi. Credo che una cultura di centrosinistra sia quella in cui l'alto e il basso, il sociale e l'istituzionale possano incontrarsi proficuamente senza avere la reciproca presunzione di comandare l'uno sull'altro. E veniamo ad alcuni punti. Innanzitutto, non c'è dubbio che questa fase, che Aldo chiama "postfordismo", sia caratterizzata da un elemento di fondo: il sistema industriale ha garantito, e comunque ha fatto sognare a tutti di diventare classe media. Si ha voglia a dire, ma il proletario aveva il frigorifero, poteva mandare a scuola i figli, ha conosciuto una fortissima mobilità sociale. Io, che sono nato nel '46 sapevo certamente che, se proprio la sorte non mi fosse stata contraria, sarei stato meglio di mio padre. Oggi questo non è più vero. Mentre, al Iora, un 20% si trovava in condizioni peggiori del padre per propria incapacità o per sorte avversa, oggi è l'opposto: solo il 20% riesce a vivere meglio. La molla che aveva prodotto quella crescita oggi non c'è più. L'immagine della famiglia americana con la bottiglia di latte, il frigorifero, il verde tutt'intorno, che aveva messo in movimento i sogni del pianeta oggi non c'è più. Che si debba partire da qui siamo d'accordo, dopodiché, però, si pone il problema della specificità di ogni paese. Maastricht è lo stesso per l'Olanda, per il Belgio, per la Francia, per la Germania e per l'Italia, ma poi bisogna vedere qual è il modo e la cultura con cui la classe dirigente italiana affronterà il problema Maastricht. Anche iImercato funziona e ha regole ferree in tutto il mondo, ma la risposta giapponese non è quella di Detroit, il sistema sindacale italiano non è quello francese. Voglio dire, cioè, che ci sono margini di autonomia che producono un surplus o un minus rispetto a un quadro strutturale di ristrettezza, quello sì, per molti aspetti, surdeterminato. Qui, però, cominciano le discussioni. Faccio un esempio: oggi mi ha fatto piacere leggere su/' Unità un articolo di Massimo Paci sull'apertura domenicale degli uffici postali. Una considerazione mi è parsa particolarmente significativa: "dovete tenere presente" -dice- "che si presenta sul mercato dei tempi una generazione formatasi non secondo i modelli fordisti". Questi l'offerta della domenica la prendono al volo. Poi non so se ha funzionato o non ha funzionato, questo è un altro discorso, ma l'episodio è significativo. Contemporaneamente, in un altro punto dell'universo sociale italiano, a Torino, di fronte a un contratto che prevede la possibilità di agganciare i salari agli andamenti aziendali, i sindacati si spaccano per l'ennesima volta. Di fronte allo stesso fenomeno, alla stessa Italia sfasciata, di fronte a Maastricht, i primi cercano di dare una risposta contro la crisi dell'occupazione a carattere tecnologico di tipo terziario: l'apertura alla domenica significa occupare degli spazi, come dicono i sindacalisti significa "spalmarsi", gli altri continuano a dire: "riduzione dell'orario di lavoro". Ecco, credo che il minus o il plus ce li giochiamo in questo. E' vero che ci troviamo di fronte a una crisi fiscale dello stato sociale nazionale. Ma è anche vero che se è transnazionale l'impresa, è ormai transnazionale anche lo stato sociale, nel senso che a Bruxelles si stanno concentrando quantità enormi di risorse; si sta costruendo un modello che vede la città locale collegarsi direttamente a Bruxelles, perché le risorse stanno là. Allora, il nodo decisivo è avere istituzioni che siano in grado di interloquire con la dimensione metanazionale: se l'istituzione resta subnazionale, come è oggi, non abbiamo scampo. Sarà vero che Monti, Commissario italiano alla Cee, è cattivo, sarà vero che Monti è l'anima nera, io non so come andrà a finire Maastricht, però sono convinto che il problema della ricontrattazione può avere un senso se si rilancia, non se si torna indietro. E' come per Schengen: ci sono stati elementi di giusta critica della cultura di sinistra e cattolica, però andiamo avanti, non torniamo indietro. Altrimenti, come si costruirà l'Europa dei cittadini, un 'Europa che non abbia semplicemente il problema dei rendiconti? Come costruiremo un sistema in grado di rispondere alla paralisi di cui parlava De Rita, quella prodotta dalla stretta populismo-globalizzazione? Io credo, in questo ammetto la mia vecchia radice illuminista e socialdemocratica, che le sfide vadano accettate. E credo che proprio Schengen sia esemplare: Schengen è un topos, un confine della mente, non un confine fisico. Quando in Italia sentite dire: "C'è una manifestazione sabato", state certi che uno dei temi sarà Schengen. Ma perché? Fate attenzione, perché su questo punto destra e sinistra insieme si trovano d'accordo. A molti sfugge il fatto che tutta la destra europea, Le Pen in testa, ha sempre posto come primo, fondamentale, punto del proprio programma elettorale quello di ridiscµtere e ricontrattare Schengen, perché è il primo passo verso il superamento del controllo nazionale dell'emigrazione. Un passo casomai rozzo, fatto con in testa il berretto dei tedeschi, fatto con le cose tecnologiche, che può non piacere, ma il passaggio è quello di cercare per la prima volta di arrivare ad un 'autorità non più nazionale, ma metanazionale. Bene, una sinistra che dice solo: "Ecco l'Europa delle fortezze, ecc." va a incontrarsi con Le Pen. Credo che l'ultimo punto toccato da De Rita, "servizio e manutenzione", sia il punto chiave delle questioni perché mostra il lato più critico della capacità della classe dirigente attuale. Mi auguro che sappiano fare quello che promettono per il Giubileo, per le Olimpiadi, ma francamente credo che non ce la facciano. Per il semplice motivo che si dice: "le pratiche, la lentezza dei finanziamenti ...". Sono orn1ai convinto che questi siano alibi mentali di una classe dirigente che non è capace o ha paura di affrontare un problema, che da trent'anni non fa più servizi di manutenzione, che non riesce a pensare contemporaneamente a programmare come le cose si mantengono, una classe dirigente che ha perso il gusto di cambiare una città. Quel gusto che avevano negli anni 50 e 60, oggi non c'è più. A Roma tutti gli anni, con le prime piogge tra la fine di settembre e i primi di ottobre, c'è un dibattito in Consiglio comunale sul traffico, tutti gli anni, più o meno nella stessa settimana, che si conclude con le stesse invocazioni delle stesse misure d'emergenza e I' assicurazione che sicuramente le faranno. Insomma, il dibattito come oppiaceo. Ora, mi sono convinto che questo passaggio dal dire che "bisogna fare" al fare non è un elemento

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