Una città - anno VI - n. 49 - aprile 1996

ro I Il rischio che la riabilitazione diventi un'altra tecnica, dopo la psicoterapia degli anni 70 e gli psicofarmaci degli 80. Il meccanismo manicomiale lo si può ritrovare anche fuori. Lo scambio, e la capacità negoziale del malato-cittadino, viene prima della relazione. La falsa complessità della malattia mentale e la preminenza del contesto. L'importanza della conquista della banalità della vita quotidiana. Intervista a Benedetto Saraceno. Benedetto Saraceno, psichiatra, è responsabile del laboratorio di Epidemiologia e Psichiatria Sociale dell'Istituto Mario Negri di Milano. Lei è molto critico con la psichiatria e la riabilitazione. Sostiene che sono forme di intrattenimento e autoriproduzione. Perché? Questo gran parlare di riabilitazione rischia di fatto di essere una nuova arma dentro un armamentario spuntato epuò essereun 'importante occasione storica persa, nel momento in cui la psichiatria sene riappropria facendo della riabilitazione la tecnica degli anni 90, come la psicoterapia è stata la tecnica degli anni 70 e la farmacologia quella degli 80. Rompere questo rischio significa allargare lo scenario del processoriabilitativo; significa fare, dentro i servizi territoriali, quello che Basaglia ha fatto dentro i manicomi, ovvero rompere l'ordine del discorso psichiatrico che non è detto che si esprima sempre attraverso i muri e le porte chiuse. Si può esprimere semplicemente ancheattraverso una seriedi altre.,.scemenzeche sono però altrettanto invalidanti ai fini della cittadinanza del paziente. Quindi, io credo che gli psichiatri siano estremamente bravi nel sapereco- .gliere dal cambiamento del costume, dalla cultura del momento, ciò che è funzionale all'autoriproduzione di sestessi.E non serve ripescare slogan abbastanza cretini come quelli di un'antipsichiatria un po' stracciona; si tratta invece di recuperare uno slogan che, secondo me, sarebbemolto più cogente: non è la malattia mentale a non esistere, è la psichiatria che non esiste. La malattia mentale esiste,- esiste come risposta, esiste in forme autoriproduttive. Oggi il disagio mentale è definito dalle risposte che ad esso si danno, per cui il disagio mentale di un matto dei servizi di Trieste èdiverso dal disagio mentale di un matto di un altro servizio. E' quindi pericoloso oggi pensare che basta aggiungere una cooperativa o un servizio territoriale per poter dire: è fatta. E' fatto niente, nel sensoche la cooperativa può essere un ennesimo luogo di invalidazione del paziente e di negazione dei suoi diritti di cittadinanza. Non voglio parlar male della riabilitazione, ma bisogna prendere con le pinze questa ubriacatura che c'è oggi in Italia. Per questo ho parlato di intrattenimento, nel duplice senso di intrattenere e di tenere dentro, proprio perché dà l'idea del mantenimento del paziente dentro un 'istituzione, dentro· una macchina, che non necessariamente è il manicomio, ma può anche essere la psichiatria, che lo delegittima senzamai legittimarlo. Ci sono ancora 23 mila pazienti in manicomiopubblico,cenesono 15 mila in strutture private. Peresempio il modello emiliano di superamento del manicomio, sedaun lato ha diminuito la popolazione manicomiale -oggi sono circa 900 i pazienti in manicomio-; dall'altro, però, ha incrementato le cliniche private in modo impressionante. Evidentemente, lechiusure dei manicomi andrebbero guardate più da vicino, non tutte sono vere, autentiche. La Regione Emilia ad esempio ha avuto nel '94 unaspesadi 37 miliardi solo per le cliniche private. Ho seri dubbi riguardo ad ospedali psichiatrici che sono di fatto scomparsi, come nel casodel Roncati di Bologna. Non sempre questo non esserci più equivale davvero ad una storia di riabilitazione vera e di reinserimento comunitario degli ex degenti. Nel sensoche ci sono strutture poco distanti dal Roncati che non sono formalmente "il manicomio", che sono strutture "altre" dal manicomio, ma che di fatto sono "il manicomio". E lo sono sia a livello di strutture, sia a livello delle procedure, dell'organizzazione e quindi lo sono a livello degli esiti. Possono riproporre una ripartizione degli spazi dove vivono i pazienti in termini di camerate, di letti, lettini, di puzze, di contenzioni, di riproduzione di gerghi manicomiali, anche semagari in contesti un po' più civilizzati. Ma soprattutto colpisce l'impermeabilità di questi scenari rispetto alla comunità reale circostante, ai programmi di ricostituzione di unacontrattualità dei pazienti. Questo tipo di meccanismo manicomiale lo possiamo trovare in molte strutture cosiddette protette; ci possono esseredei manicomi, che sono ancora formalmente tali, molto più in trasformazione rispetto a strutture che, pur essendo collocate al di fuori del manicomio, riproducono dinamiche molto vecchie. Tutte queste etichette: ospite, dimesso, ammesso, alla fine dicono molto poco, bisogna andarea vederequestestrutture da vicino equando ci si va, si scoprono cose pesanti, nel senso che ci sono "stili di lavoro" degli operatori ancoraestremamente arretrati, anchesemagari in contesti scenografici non particolarmente arretrati. Cosa intende con stile di lavoro? Credo che sia qualcosa di non riconducibile a dati quantificabili, qualcosa che negli anni della grande innovazione fu chiamato appunto "stile di lavoro", che è il modo quotidiano che ha un' équipe di rapportarsi asestessa,con I' esterno, con i pazienti, con i problemi. E' concetto di difficile definizione lo stile di lavoro. Per esempio abbiamo osservato, facendo delle ricerche sugli ospedali psichiatrici, che non c'è sempre un'automatica coincidenza tra arretratezza e fatiscenzadel lestrutture e arretratezza e fatiscenza degli stili. Abbiamo visto manicomi arretrati sul piano delle strutture ma piuttosto evoluti per quanto riguarda lo stiie di lavoro così come abbiamo visto situazioni ospedaliere dignitose sul piano strutturale e arretrate sul piano dello stile di lavoro. C'è il rischio infatti di pensare che si possano contare i numeri e basta. Allora dire: io ho solo cento malati mentre tu ne hai duecento, io ho avuto trenta dimissioni, tu ne hai avute dieci, io ho cinque bagni tu ne hai due, sì, certamente è illuminante, ma non cambia la sostanza.Ora ci sononuove figure professionali che vengono da esperienze non tradizionalmente psichiatriche che portano sicuramente qualcosa di nuovo rispetto a figure come il vecchio infermiere o il vecchio psichiatra. lo però amo pensare che alla fine gli operatori buoni o cattivi dipendono dallo psichiatra nel sensoche ogni psichiatra ha gli operatori che si merita. Questo non per attribuire allo psichiatra dei poteri taumaturgici, però certamente la presenzadi un corpo medico estremamente arretrato determina stili di lavoro arretrati anche negli infermieri. Non penso che gli infermieri di Trieste siano più intelligenti o più buoni degli infennieri di Bologna, maè la loro cultura che è cambiata perché è cambiata la cultura complessiva dei servizi equindi della direzione. Alla fine, sono gli elementi direttivi i responsabili. Lei parla del lavoro come produttore di senso. Cosa ne pensa del discorso dell'impresa sociale come strumento riabilitativo? Anche qui va chiarita unasemplificazione. Non è che se i matti lavorano allora va tutto bene. C'è stata ad un certo punto una giusta protestada parte degli operatori rispetto al lavoro falso. Si è detto: il lavoro vero, le cooperative, la gente che produce, èmeraviglioso. Pensoche però, una volta che si è tutti d'accordo che il lavoro falso, il fare le bambolette in manicomio, sicuramente non è la soluzione, bisogna anche cercare di misurare la redditività riabilitativa dell'esperienza di lavoro. Perchése io ho una cooperativa con dentro 300 pazienti di un manicomio che fa le pulizie dei gabineni -e ho quindi trecento pulitori di gabinetti- può anche darsi che questa cooperativa abbia un fatturato interessantesul piano economico e i lavoratori abbiano un guadagnocongruo, maamequesto potrebbe anchenon interessarepiù di tanto. Nel sensoche la redditività riabilitativa di questaesperienza può esseremolto b~ssae proporre soluzioni lavorative molto omogeneizzate e appiattite sui livelli bassi, senza porsi il problema di una diversificazione dei bisogni dei pazienti. Con dei ragazzi giovani psicotici di borgata, per esempio, probabilmente la risposta non è la cooperativa di pulitori di gabinetti ma la cooperativa di rock&ro/1, che ----------------------------dogana forse guadagnameno o addirittura essere in perdita. Può anche darsi che si debbano avere delle cooperative non particolarmente produttive sul piano economico, ma ad alta redditività riabilitativa. E' molto pericoloso usarela redditività economica come unico indicatore per valutare una cooperativa. Questo si traduce in una selezione pazzescadei pazienti, per cui quelli più scassatinon possono fare niente. Allora credo che ci siano esperienze di cooperative povere emalmesse sul piano economico che però sonoestremamente importanti sul piano della riabilitazione. E' illuminante il caso dei pazienti di un manicomio toscano che avevano un atelier di ceramica. Queste ceramiche erano molto brutte, venivano mandate nei negozi per turisti enaturalmente nessunolecomprava. La redditività di questeceramiche era bassissima. Dopo un po' di tempo questi pazienti ottennero dal Comune un negozio nella piazza della città. Alla domanda: "Ma voi, adesso che avete il negozio, vendetepiù ceramiche?". La risposta fu: "No, le ceramiche fanno sempre schifo e nessuno le compra". "Ma allora qual è la differenza?". E il paziente intervistato diede una definizione implicita di riabilitazione secondo me molto acuta: "La differenza è che prima eravamo dei pazienti che producevano delle brutte ceramiche, oggi siamo dei commercianti che hanno un negozio in centro che non vende". Dal punto di vista della redditività economica apparentementenonera cambiato niente, zero prima, zero dopo; dal punto di vista della produzione di valore sociale era cambiato tutto, perché è molto diverso essere un commerciante che non vende o un matto che fa ceramiche. Perché di commercianti che non vendono ce ne sono tanti, senza bisogno di essere matti. Questo paziente aveva perfettamente colto il salto, in tem1ini di valore sociale, di senso, di identità, di autostima, dall'avere un atelier in manicomio ad avere il negozio. Anche se, misurato in termini di soldi, quel passaggio non era avvenuto. Quindi credo che sulla questione del lavoro bisogna stare molto attenti perché sicuramente la redditività economica dell'impresa coi pazienti è importante, però bisogna anche chiedersi cui prodest? Non mi interessacreare tanti piccoli commercianti. Mi interessacreare delle situazioni in cui ci siascambio.Scambio di affettività, scambio di identità, di valore, produzione di senso;il lavoro ha senso perché produce senso, oltre che plusvalore economico. La produzione di senso è decisiva nell'esperienza lavorativa dei pazienti. Altrimenti facciamo delle squadre di spalatori di merda e gli diamo dei soldi del Comune. Perché non vogliamo fare una roba di questo genere?Perché attribuiamo ali' esperienza lavorativa una funzione di promozione dello scambio. Laddove tale promozione non si dà, amedi avereduemila pulitori di gabinetti importa poco. In che senso lei afferma che lo scambio viene prima della relazione? C'è una sottile polemica con la cultura psicodinamica, secondocui la riparazione del deficit delle capacità relazionali del paziente è precondizione allo scambio, quindi al suo ingresso nel tessutocomunitario attraverso il lavoro, gli appartamenti protetti o quant'altro. Nella sequenza della riparazione della macchina, c'è l'idea che la riparazione del deficit relazionale sia la precondizione perché il paziente vada al "negozio", alla negoziazione. E' interessante invece, invertire questa cosa: è il negozio che precede la relazione; la gente viene messanel bazar, nel mercato, dove vende il formaggio, grida, piange. Basta andare a vedere un bazar indiano, dove appunto i matti stanno insieme ai sani, l'handicap sta insieme alla normalità; ciò che accomuna tutte queste personeè lo scambio, cioè la negoziazione: di un granellino di granoturco, di una stoffettina, di una patata, di qualche cosa. Dentro questo grande negozio, dal latino "negazione del1 'ozio" -l'ozio della condizione manicomiale- si innescano delle possibilità relazionali. La psichiatria ci ha fatto vedere che l'ipotesi contraria è perdente perché si può ancherimanere per anni nelle mani e nelle braccia di un servizio che ti fa la psicoterapia cercando di ricostruire la tua capacità relazionale prima che questa tua incapacità venga registrata come un insuccesso clamoroso. Da lì il gioco di parole "il negozio precede la relazione" o precede l'ozio sostanzialmente. Credo che la prima cosache hanno fatto gli uomini, fin dall'età della pietra, sia stata scambiarsi i prodotti. Poi, su questo, conoscersi, parlarsi, innamorarsi, perché si cambiava villaggio e si andava a vendere il prosciutto e il formaggio. Le culture più antiche ci fanno vedereche la negoziazione, il mercato, è il luogo di fondazione dello scambio di identità; non è che c'è un salotto prima dove la gente se la racconta, poi dice: adesso sono pronto, sono capace di andare al mercato ascambiare. Questa è una visione borgheseeoccidentale; credo invece che sia importante ridare centralità alla piazza del mercato come luogo di fondazione del- !' identità e non al gabinetto del- !' analista. Qual è il ruolo dell'epidemiologia nella psichiatria? L'epidemiologia serve, per esempio, a farci vedere quali sono le variabili che detem1inano un'evoluzione favorevole o sfavorevole di unapatologia per cui ci costringe a modificare le nozioni di risorsa e di ricchezza. Non è detto che la povertà di risorse visibili determini una povertà di risorse di azione e trasformazione. Questo è particolannente evidente se si analizzano esperienzedi innovazione psichiatrica fatte in paesipoveri, con risorse veramente miserabili, ma con risorsenon istituzionali enormi: reti familiari, reti comunitarie,che sono poi quelle che davvero giocano un ruolo decisivo. Per spiegarmi meglio voglio fare un esempio che, anche se non riguarda la malattia mentale, mi sembra significativo. Quando, durante il regime sandinista in Nicaragua i sandinisti disseSto ancora aggirandomi -sono un valtellinese testone- intorno al tema del confronto tra morale laica e morale religiosa, nel nostro caso religioso cristiana, esemplato da ultimo nel dialogo tra il cardinale Carlo Maria Martini e Umberto Eco, ma vivo, e non da ora, a tanti altri livelli, meno illustri e meno strillati, della vita associata e di quella dei rapporti privati, interpersonali. Mi sia permessa, a modo di esempio, una citazione che riguarda una storia, anche mia, che viene da lontano. Nel libro di Gianfranco Petrillo di qualche anno fa La capitale del miracolo (Franco Angeli), che ricostruisce la storia sociale, politica, culturale della Milano degli anni '50 e '60 (ahimè quanto lontana da quella di oggi e quanto amaro il confronto per chi l'ha amata), si legge, a proposito della Corsia dei Servi: "un circolo di cui erano animatori due frati serviti, Camilla De Piaz e Davide Turoldo ... sprezzanti di ogni sbarramento ideologico verso i noncattolici. .. Accanto a loro, in questa opera culturale non "cattolica" ma "fatta da cattolici" -come laicamente impararono e insegnarono a dire- si ritrovarono altri intellettuali milanesi". Ciò valga anche a mente mutuato da san Paolo, della scorsa puntata di Dogana: laici sunt? Et ego, sono laici? Anch'io lo sono. S'intende che una simile affermazione la si può capire solo rifacendosi, come io mi rifaccio, a una certa immagine della chiesa, vista come una compagnia, una risorsaoffertaall'uomo nel suocammino, e quindi innanzitutto rispettosa delle scelte storicamente via via occorrenti, se vogliamo una chiesa serva (ma non asservita), anziché a una certa altra, che la vede come una potenza portatrice di egemonia sulla società civile. Unica portatrice secondo taluni movimenti che si sono sentiti particolarmente favoriti nel corso del vigente pontificato. Una visione dunque della chiesa, quella a cui mi rifaccio, secondo la quale la sua libertà (sacrosanta libertà) non deve valere di più o indipendentemente dalla libertà di tutti, gruppi movimenti partiti persone, né la condizione di cristiano -o di prete o di appartenente a una confraternita religiosa- essere costruita su una manomissione o sottrazione della propria qualità originaria di uomo, di laico, di cittadino, all'occorrenza di compagno, o la fortuna della chiesa sulle defaillances o rovine alttui. Rischio, questo, quanto mai attuale e incombente, in un momento di oscuramento dellegrandi ideologie otto- novecentesche e di crisi della stessa, e siamo in tema, cultura laica. Sarebbe comunque una fortuna viziata all'origine e di dubbia consistenza, oltre che fonte di disagio morale, di ripugnanza e di nuovi rigetti per ogni coscienza retta e illuminata. Così come appare destinato a vita breve un Dio, già dato per morto, che si ripresentasse sulla scena issato sugli scudi di una sorta di revanscismo culturale e politico (già, la Revanche de Dieu}. Un pastore saggio e nutrito di esperienza storica, "esperto di umanità " secondo la bella espressione di Paolo VI, dovrebbe stare in guardia e mantenersi alla larga da siffatte tentazioni. Ci siamo un po' allontanati, ma solo in apparenza, dal nostro tema. Il fondo del problema, si diceva nella prima puntata di Dogana, consiste nel fatto che morale laica e morale cristiana sono inseparabili. Inseparabili perché risalenti, in origine, alla stesse Fonti bibliche, e si citava, in proposito, Ilgrande Codicedi Northrop Frye. Intento, questi, a una ricognizione delle categorie bibliche sussistenti e riconoscibili alla base delle grandi letterature occidentali; ma un discorso e un percorso analogo potrebbe essere fatto per le culture in generale del nostro mondo, sia sul versante religioso che su quello laico, e rispettive morali. La stessa secolarizzazione è impensabile senza un riferimento alla tradizione ebraico cristiana, e la riprova sta nel fatto che essa è caratteristica delle società che si sono incontrate con detta tradizione. Se fa problema, lo fa per ambedue, e ambedue dovrebbero sentirsi chiamate ad affrontarlo congiuntamente, ognuno con le armi di cui dispone. Convergenze parallele. Anche qui la tentazione è forte di scaricare il fardello sull'altro, anziché farsene carico, o condividerne il peso. Capisco le obiezioni che sono state fatte, anche di recente, alla famosa affermazione di Benedetto Croce, maestro di generazioni di laici: "non possiamo non dirci cristiani", e posso anche condividerle, ma, pronunciata come fu in un momento di grande emergenza ebbe una sua funzione illuminante. E' nei momenti di emergenza che si ricercano e si ritrovano le giuste parentele. Ma gli esempi potrebbero moltiplicarsi, dall'una e dall'altra sponda dell'unico fiume. W CarrdaeRi irparmdiFi orlì s.p.A. ,, •• • da O a 10 anni da11a19ann1 Carni/lo de Piaz B spiegre qu1 mio inciso, li~ o Perloroil migliorfuturopossibile

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