Una città - anno VI - n. 48 - marzo 1996

B1 L'odissea di una donna cecena, che vive a Mosca, per raggiungere i propri cari in un paese travolto dai carri da massicci bombardamenti. L'arrivo a Groznyi, una città morta, spettrale. La terribili spedizioni punitive d, d'assalto del Ministero degli interni russo, che non si sono fermate di fronte a nulla. Le elezioni farsa in cui p1 alcun controllo, il presidente fantoccio chiuso nell' aereoporto di Groznyi, I' indifferenza dell'Occidente di fron popolo, considerato affare interno della Russia. Una pace che resta possibile se si accetta di negoziare. lnten Zajnap Gashaeva fa parte del!' Unione donne del nord del Caucaso. Insieme a Maja Shovkalova ha partecipato, nel settembre '95, all'Assemblea dell'Onu dei Popoli di Perugia come rappresentante del popolo ceceno. Ho cominciato a occuparmi di attività sociali dopo il 26 novembre 1994, quando l'esercito russo è entrato illegalmente in Cecenia a sostegno dell'opposizione che cercava di realizzare un colpo di stato, che però non riuscì. Quando ho saputo quello che stava accadendo, dopo le prime notizie trasmesse in televisione, ho lasciato tutto e sono partita. Io vivo a Mosca, sono sposata e ho quattro figli, ho un marito, ma tutti i miei erano a Groznyj: mia madre, tutti i miei parenti, gli amici. Io sono cresciuta lì. Quando decisi di partire per Groznyj pensavo che sarei dovuta andare a cercare. i cadaveri della mia famiglia, era terribile pensare a quello che stava accadendo· 1n città. Sono arrivata il primo dicembre, ma la città era tranquilla, silenziosa: non c'era nessuno, in centro c'erano case distrutte, senza tetto, c'erano carri armati in giro e nessuno usciva di casa. Era una città morta. Non sono riuscita a trovare mia madre, perché c'era già stata l'evacuazione generale, molti erano andati via, scappando in campagna, e anche mia madre era andata a Shatoj, dove abbiamo dei parenti. Ho fatto il giro di tutti i parenti, di tutti quelli che vivevano vicino a noi e stavo già pensando di tornare a casa. Era il I O dicembre, la gente in città stava ricomparendo, la paura della guerra era già passata, si organizzavano manifestazioni, si facevano appelli ai russi. Erano soprattutto i residenti russi che rivolgevano appelli al presidente Eltsin: "Cosa state facendo? Ripensateci! Qui ci sono molti russi!". Chiedevano che Eltsin si sedesse con il nostro presidente, Djokhar Dudaev, ad un tavolo e iniziasse trattative per una soluzione pacifica. Ci furono molti appelli, manifestazioni, picchetti: la piazza del palazzo presidenziale era piena di gente, giorno e notte. Chiedevano che non si iniziasse una guerra. Avevano paura. L' 11 dicembre telefonai a mio figlio, per dirgli che sarei tornata il giorno dopo, perché la situazione in città era abbastanza tranquilla, ma lui mi rispose: "Come fai a tornare, mamma? I carri armati ~ussi sono già al vostro confine!". Quando sono uscita dal centro comunicazioni, qui a Groznyj, mi sono guardata in giro e ricordo che la gente correva, tutti andavano di corsa. Sono passata da una conoscente che abitava vicino e lei mi disse che poco prima alla televisione Gracjov aveva detto che entro due ore avrebbero cominciato a sparare. La mia casa è alla periferia della città, a 18 chilometri dal centro, e avevo l'impressione che nel tempo che avessi impiegato a raggiungerla avrei incontrato già i carri armati. Ho però raggiunto la mia casa prima che arrivassero i carri armati. Quel giorno, I' I I dicembre 1994, un esercito di più di 250 mila soldati con 5 mila mezzi corazzati è entrato nella nostra repubblica. Per il 12 dicembre era stato fissato l'inizio delle trattative, ma il giorno prima la guerra era già iniziata: noi ci siamo trovati di fronte al fatto compiuto, colti di sorpresa; tutti erano tornati a casa e nessuno poteva credere che avrebbero potuto bombardarci veramente. I nostri hanno cominciato subito ad organizzarsi, ad alzare barricate, blocchi stradali. Dove abito io, lo Staropromyslovskij rajon, c'è una strada lunga, è una delle vie d'accesso al centro, e la gente alzava barricate ad ogni incrocio. Ed era tutta gente disarmata. Non c'era nessun esercito, nessuna formazione partigiana o, come dicono i russi, "di banditi". Nessun guerrigliero. Era tuna gente che non aveva niente, a mani nude, non sapeva che fare; tutto quello cui erano riusciti a pensare era costruire barricate con tubi, elementi di prefabbricati, ciò che riuscivano a trovare in giro.Anch'io, quando già si erano organizzati i turni di guardia alle barricate, sono andata a portare caffè caldo, alle 2-3 di notte. In questo modo abbiamo affrontato la guerra. Fin dal primo giorno hanno cominciato a bombardare la città. E la gente ha cominciato a morire: ero lì e ho visto icorpi, i feriti. Sono andati avanti così, giorno e notte, "a grandine", "a uragano", sparando in continuazione, le granate cadevano senza interruzione sulla città. C'erano dei momenti in cui si fermavano per qualche minuto, allora tutti ne approfittavano per procurarsi pane e acqua, (c'è stato un forno qui, dove vivo io, che non ha mai interrotto la produzione, nemmeno durante i bombardamenti più intensi) e poi di nuovo, di corsa, ci rifugiavamo nelle cantine. Questa è stata la nostra vita per più di dieci giorni. Non appena è stato possibile, ho cercato di telefonare a Mosca, affinché cercassero di organizzare qualcosa, andassero in strada, protestassero, perché qui noi stavamo morendo tutti sotto le bombe! A Groznyj, di donne ne erano rimaste poche, perché con i bambini avevano abbandonato in massa la città, lasciando in molti casi la nostra repubblica: tutti quelli che conoscevo avevano la moglie fuori città. La sera del 18non avevamo notizie da giorni, non c'erano informazioni, quasi nessuno aveva una radio-, ero da mio fratello e a casa sua abbiamo sentito per radio: "Entro le 8 di sera lasciate la città, a mezzanotte ci sarà un bombardamento a tappeto con i razzi". Ricordo di aver pensato: "Com'è possibile? Come possono fare questo? Possono davvero bombardarci così?". Prima la "grandine", poi gli "uragani" e adesso le bombe? una guerTOiniziata il giorno prima dell'inizio delle trattative Quello è stato l'unico momento di vera paura, ma anche di vergogna per aver vissuto la mia vita in modo così stupido. Era un senso di inutilità, di aver sprecato la propria vita, perché noi facciamo crescere il futuro, vogliamo vedere il futuro dei nostri figli, e invece dovevamo morire sotto le bombe delle forze amiate russe! Quella sera non andai da nessuna parte, non scappai, mi sedetti al tavolo, a casa mia, e le ultime ore prima che cominciassero le ho passate a scrivere l'ultima lenera alla mia famiglia. Che almeno potessero trovare qualcosa di me! Il mio ultimo desiderio è stato scrivere tutto quello che non ero riuscita a dire loro mentre ero viva. Mancavano dieci minuti a mezzanotte quando abbiamo visto i primi aerei e sono cominciati i bombardamenti. Quella notte l'abbiamo passata tutti in cantina, l'avevamo già fatto anche prima, ma quella notte si trattava di bombe. Quando sono uscita al mattino, non riuscivo a credere di essere tti Quadrimestrale in libreria numero 1 marzo '96 me "Non riesco più a scrivere senza disegnare". "I miei disegni non sono dei disegni, ma dei documenti. Bisogna guardarlie comprendere cosa c'è dentro". Antonin Artaud In questo numero: Ambrosi, Arbus, Artaud, Astori, Balthus, Bianco, Onze, De Pierpont, Faton, Ghermandi,. •· Giandel!i, Groensteen: Kra_msky, ~ubin, lgort, Macé'-:~t:;t:< Mandelstam, Mattott1, Re1d, R1cc1,Semerano, ... ,.,..,., ,.. Shahn, Toccafondo, Zograf · ·.·.· · 190 pagine L. 23.000, abbonamento annuo (tre numeri) L. 55.000. Informazioni: Mano Edizioni via Montello 11, 40131 Bologna Tel/Fax 051/550990 http/www.iper.net/giardini/mano.htm ~ ~ ancora viva e che fossero vivi tutti quelli che avevano passato la notte lì con me. Di quella notte ricordo soprattutto la vergogna provata di fronte ad alcune vecchie di 70-80 anni che avevano passato tutte quelle ore a pregare, a chiedere ad Allah che i russi tornassero in sé, che non facessero questa guerra e ci risparmiassero quella violenza. Mi era difficile guardarle, guardare come chiedevano a Dio di salvarci. E' così che, sentendo la tragedia del mio popolo, sentendone il dolore, ho capito che valeva la pena battersi contro quelle forze che non consentono a noi, piccoli popoli, di vivere in pace, che calpestano la nostra vita e la nostra terra. E' stato da quel momento che ho cominciato a occuparmi di attività sociali. Da allora andiamo in giro per la repubblica, raccogliamo testimonianze, informazioni, le diffondiamo, registriamo i falli, filmiamo quel che vediamo: tutte cose che non avevamo mai fatto prima e che, però, abbiamo imparato. Sentendomi parlare, può sembrare che ci sia una grande organizzazione dietro di noi, ma non è vero, non c'è un'organizzazione, quando siamo in molte, siamo in trequattro a lavorare, senza mezzi, senza fondi. Adesso stiamo organizzando la distribuzione degli aiuti che riceviamo dall 'Occidente, andiamo in giro per paesi e villaggi e li consegnamo personalmente, per evitare che prendano strade diverse, come è già accaduto in passato. Quando sono tornata a Mosca con mia madre, abbiamo continuato a fare conferenze stampa, picchetti, manifestazioni davanti al Cremlino, e posso dire di non aver avuto un solo giorno in cui non abbia continuato questo lavoro, soprattutto per coloro che erano rimasti in Cecenia a vivere in quelle condizioni. Voglio ricordare, perché è importante, che in Cecenia erano rimasti anche molti russi, che da molto tempo vivevano insieme a noi, ma a loro nessuno ha pensato, non servivano né ai russi né a nessun altro. Sotto i bombardamenti ne sono morti tanti, e quelli che sono soprav\!issuti sono stati aiutati dai ceceni, che hanno portato loro pane, acqua nelle cantine, affinché non morissero di fame. Anche loro sono morti per mano delle forze armate russe. Intanto, a Mosca, il comitato organizzativo delle madri dei soldati, i buddhisti, i quaccheri, il movimento pacifista non riuscivano a farsi sentire. Insieme a loro abbiamo organizzato la marcia per la pJce Mosca-Groznyj per cercare di fermare questa guerra inutile e sanguinosa. Anche noi abbiamo partecipato a questa marcia, alcune sono andate in treno, altre con dei pullman che passavano per tutte le città della Russia, dove si organizzavano dimostrazioni. Dovevamo riunirci tutte a Nazran, in lnguscezija. lo sono andata in treno con le madri dei soldati russi e ricordo quando Anna Ivanovna Prishevskaja, una delle madri russe che ha perso il proprio figlio, Kolja, -e quella era già la terza volta che partiva per andare a cercarlo-, ha detto: "lo non torno finché non lo trovo". Non riusciva nemmeno a trovare il suo corpo! Lei era russa, ma a me faceva male, perché era una madre, come sono madre anch'io, e non c'è differenza: le madri sono uguali, piangono nello stesso modo, partoriscono nello stesso modo. Noi siamo madri, non vogliamo questa guerra. Questo lo dico proprio dal cuore, perché sono fondamentalmente contraria all'uso della forza da parte di tutti. Mi fanno molta pena anche i ragazzi russi che partono non di propria volontà, perché non sanno dove vanno, non sanno perché, li costringono ad uccidere e, se si rifiutano, vengono uccisi a loro volta: la guerra è un abominio. Mentre eravamo in viaggio, hanno cercato di fermarci più volte: a Martan i russi ci hanno trattenuto per 5-6 ore, hanno sparato contro di noi, ci sono stati dei feriti, qualcuno è stato prelevato e portato via, come i buddhisti; ci hanno spinto sugli autobus, hanno fatto di tutto per non farci arrivare fino a Groznyj, perché non potessimo in nessun modo farci sentire. Questo ci sembrava strano: noi eravamo tutti disarmati. Ad ogni posto di blocco eravamo noi a dare da mangiare ai soldati. E nei paesi che incontravamo, Cernovoskij, Samashki, ovunque la popolazione ci accoglieva con il pane e il sale. Le madri russe erano stupite: un 'ospitalità così grande in quelle condizioni! Nonostante quelle difficoltà, i ceceni le accoglievano con pane e sale, secondo la tradizione russa. E questo dice quanto le avessero attese! Purtroppo, non ci è stato possibile raggiungere quello che ci eravamo prefisse: volevamo metterci tra le due parti combattenti e stare lì finché non avessero smesso, finché non si fossero fermati. la ricerca del corpo del figlio mandato a morire in Cecenia Noi ceceni abbiamo una tradizione, una tradizione delle montagne, secondo cui se due uomini stanno combattendo e una donna lascia cadere a terra un fazzoletto bianco, i combattenti, in segno di rispetto per la donna, devono fermarsi. Per questo avevamo preparato striscioni bianchi, volevamo fermarci in mezzo ai combattenti con i nostri striscioni bianchi per terra. Durante la marcia, il 7 e 1'8 aprile c'è stato un episodio molto crudele: la spedizione punitiva degli Omonovcy russi, i corpi speciali del Ministero degli Interni, che hanno "ripulito" il villaggio di Samashki. L 'ordine non dichiarato era di uccidere chiunque si muovesse, chiunque respirasse, dai 14ai 70 anni. Noi siamo state testimoni di questa azione terribile, abbiamo girato un filmato, scattato fotografie, registrato le testimonianze di molte vittime e di chi aveva avuto parenti uccisi o la casa bruciata. E' stata una cosa terribile: tutti scappavano dal villaggio, neri, bruciati, nel buio, molti sono riusciti a seppellire i propri morti nelle case -da noi i morti vengono sepolti subito, non si può lasciare passare molto tempo-, poi sono scappati per non essere colpiti dal fuoco. Ricordo come ci raccontavano quello che era loro accaduto, e non riuscivano a farsene una ragione, non riuscivano a capire: "Cosa ci stanno facendo?!", "Perché ci uccidono?" "Là brucia, sta bruciando tutto!". Durante questa operazione noi eravamo al posto di blocco, il paese era stato isolato, non ci lasciavano passare, ma alla fine ci siamo riuscite ugualmente, e abbiamo visto tutto con i nostri occhi ed è stato terribile, spaventoso. La gente era stata bruciata viva, c'erano figli che cercavano i resti dei genitori. madri che raccoglievano le ossa dei propri figli. C'era un donna che stava raccogliendo le ossa dei suoi. le aveva messe tutte in una pentola da due litri. Quattro persone sono state sepolte in un secchio: erano rimaste solo le ossa! Questo per dire che avevano usato il fuoco con una intensità di calore tale che aveva sciolto tutto: forse era napalm. Venivano uccisi i feriti e anche i testimoni: chiunque si trovasse nelle vicinanze veniva ucciso. Casi come questi ce ne sono stati molti. Bambini. donne. che si trovavano nelle cantine. sono stati uccisi con le granate. Dove si sentivano rumori, dove sentivano che c'era qualcuno vivo. gli 0111011ovcy buttavano granate. In questo modo dicono di aver '"ripulito" il villaggio dai guerriglieri. In realtà, la "pulizia'' è stata fatta a spese di gente disarmata e pacifica. perché in quel momento nel villaggio non c ·era nemmeno un guerrigliero. erano andati via tutti prima che arrivassero i soldati russi perché gli anziani del villaggio avevano chiesto loro di andarsene. sapevano che i russi sarebbero arrivati e non volevano far correre rischi alla popolazione. Pensavano che i soldati avrebbero fatto solo normali controlli, che avrebbero "riportato l'ordine": la gente era disarmata, non poteva succedere niente. Quello che i russi hanno fatto a questo villaggio ha mostrato chiaramente a tutti di cosa sono capaci e quali sofferenze sono disposti a provocare nella popolazione civile: sono pronti ad ucciderci, a distruggerci! Questo che ci stanno facendo è un genocidio. Le cose che abbiamo visto, i fatti, la crudeltà che viene esercitata in questa guerra, ci confermano che c'è una precisa volontà di eliminarci tutti. E lo fanno con determinazione, questa è la cosa più spaventosa. Un giorno mio cugino era rientrato in casa mentre gli Omonovcy stavano "ripulendo" Groznyj, perché non voleva che gli sfondassero la porta di casa. L'aveva fatto nonostante i soldati russi lo avessero avvertito di non andare, perché l'operazione era fatta dai corpi speciali: se a lui "dispiaceva per la porta, poi gli sarebbe dispiaciuto per se stesso". Lui, però, aveva risposto che non potevano fargli niente perché era disarmato, ed effettivamente era una persona molto buona, incapace di fare del male. Quando arrivò a casa, c'erano già gli Omonovcy, che hanno iniziato subito a picchiarlo, a umiliarlo: "Sta in piedi! Sta seduto! Sdraiati!", -vera crudeltà da nazisti-, e quando lui ha smesso di ubbidire, gli hanno sparato attraverso la bocca. Il proiettile è passato in gola, nel petto; è ancora lì, sul lato sinistro del petto. Poi, avendo pensato che fosse morto, l'hanno buttato in cantina e hanno chiuso la porta, lasciandolo lì. In seguito sono arrivati i soldati di leva -loro vengono sempre dopo le operazioni degli Omonovcypercompletare il lavoro-, volevano andare in cantina per rubare le conserve, i pomodori, i barattoli di cibo, quando hanno aperto la porta e hanno visto che c'era un corpo, hanno richiuso e sono andati via. Alla fine l'hanno trovato i suoi parenti e l'hanno portato al villaggio di Znamenskij, poi a Mozdok, ma all'ospedale non ha avuto nessun aiuto medico, perché era un ceceno delle montagne. A Mozdok lo hanno buttato insieme ai moribondi, perché morisse, ma i suoi sono riusciti a portarlo a Nal 'cik. Anche lì, però, non gli hanno fatto niente, aspettavano che morisse. E' andata avanti così per sei giorni: non lo curavano e lui non moriva. In ospedale, a Nal'cik, accanto a lui c'era un ragazzo russo che ha visto come lottava per sopravvivere, un giorno si è alzato e lo ha fatto bere. Il ragazzo lo conosceva, vivevano insieme nello stesso quartiere, era in ospedale perché una bomba gli aveva portato via una gamba, ma si è alzato, anche se era difficile per lui camminare, si è avvicinato a mio cugino e lo ha fatto bere. I medici, evidentemente, si sono vergognati quando hanno visto questo e hanno cominciato a curarlo. Mio cugino ora è ancora vivo, ma molta gente è morta anche per la mancanza di cure mediche, non solo per la guerra. perché i russi si rifiutavano di curare i feriti. In questo anno di guerra abbiamo visto molte fosse comuni. A Groznyj abbiamo visto la sepoltura delle vittime dei bombardamenti di gennaio; dopo i bombardamenti i cadaveri sono rimasti a lungo per le strade, dove venivano mangiati dai cani. Cera il timore di epidemie e le autorità militari cecene, il 31 gennaio '95, chiesero una tregua cli un giorno al comando russo al fine di raccogliere i morti e seppellirli: i russi non hanno nemmeno risposto, così i cadaveri sono rimasti per le strade per più di due settimane. Le nostre donne andavano comunque a cercare i propri parenti e rischiavano la vita anche per raccogliere le targhette militari al collo dei soldati russi. affinché anche le famiglie dei russi potessero sapere se il proprio figlio era morto o meno. Ricordo Masakhadov. e molti altri comandan1i di brigata che organizzavano la nostra di fesa. che con tre-quattro sacchi raccoglievano queste targhette. conservandole a lungo. finché le madri russe non sono arrivate. I sacchi sono stati consegnati a loro. così molte hanno saputo che iI proprio figlio era morto. Quando, infine, è

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