Una città - anno IV - n. 33 - giugno 1994

nata lenta dentro la flessibilità e il cambiamento. Significa reinventare opportunità di lavori in cui riuscire a rimettere in una prospettiva di lavoro quelle che sono visioni del mondo, radicalità, desideri di cambiamento, ambientalismo ... Si tratta in qualche modo di coniugare gli anni 70 con gli anni 80 e 90. Questa è la prima grande questione. Andare lentamente ma dentro questo grande cambiamento, avere, cioè un progetto, direi un new dea!, alternativo a quella che oggi è l'unica alternativa, quella dei rampantini berlusconiani che hanno tutti il bell'abitino, che stanno dentro a questa logica di cogliere l'attimo e l'opportunità, che vanno di corsa dentro il meccanismo Fininvest. Bisogna riprogettare una qualità della vita possibile dentro altri meccanismi. Vince chi fa questa operazione. E questo si lega all'altra grande questione, quella di riprogettare il welfare. Pensiamo alle tante energie ad esempio intellettuali di progettazione, la microfisica dei saperi, per dirla alla Foucault, che ormai è diffusa in questo paese, con capacità di progettazione e di riprogettarsi la vita dentro la crisi del welfare. Bisogna ripartire da discorsi di questo genere. Rispetto al wel fare bisogna avere il coraggio di dire anche una cosa elementare: che il welfare ormai funziona esclusivamente per chi è incluso, per chi è visibile. Abbiamo una forma di stato provvidenza, di stato assistenziale, un welfare programmato sulla città assistenziale e non sulla città imprenditoriale del lavoro autonomo, del discorso del "cogliere l'attimo", che alla fine assiste solo chi è dentro e non chi è fuori. C'è allora un problema di un welfare possibile che va riprogettato effettivamente per le nuove fasce dell'esclusione, ma anche qui, non in termini caritatevoli e penosi. Basta prendere una di queste fasce: ragioniamo, per esempio, di immigrati. la modernità del precariato dell'immigrato Gli immigrati non sono i poveri soggetti che arrivano qui e ai quali tu devi dare il piatto di minestra perché sei buono. Gli immigrati sono la stessa cosa che erano gli immigrati nel ciclo del fordismo, i primi che sperimentarono la catena di montaggio. Gli immigrati polacchi, italiani, nella grande fabbrica fordista americana. E i nostri immigrati che cosa fanno se non sperimentare il ciclo della flessibilità, del precariato continuato ecc., dentro il quale si va dal ciclo del lavavetri fino a quello dell'operaio. E' un ciclo del lavoro che inizia agli angoli delle strade con il massimo del precariato e della flessibilità, poi passa attraverso il retro di una trattoria, dove l'immigrato fa il lavapiatti, per poi lentamente arrivare al lavoro in affitto nelle cave e nel ciclo della piccola e media impresa. E' necessario reinventare un welfare rispetto alle nuove esigenze della flessibilità, un welfare posARREDAMENTO NEGOZI E SUPERMERCATI 1anco sibile. Ma questi discorsi non li sento, non li vedo come grandi questioni centrali che dovrebbero essere poste. Rispetto ai discorsi di Cacciari rispetto ai quali ti dici d'accordo, si sente un riferimento al sociale molto più forte ... Credo che la differenza sia fondamentalmente una: Cacciari crede ancora al primato forte della politica, e quindi che alcune grandi operazioni di politica siano in grado di cambiare le cose. Io credo alla bassa velocità, ai passi lenti, ho una visione di tempi lunghi, la mia visione è meno messianica, avrà meno possibilità, però certo non credo che il problema verrà risolto dalla lobby dei sindaci, per capirci, e nemmeno, come dice Cacciari, nel trovare il leader. E' chiaro che su una parte del discorso di Cacciari sono d'accordo, quando dice, o non Io dice ma si capisce, che il vero problema della sinistra in questo paese è eliminare il Partito Democratico della Sinistra, su questo sono completamente d'accordo, si passa da lì, non c'è dubbio. Perché poi, nel mio ragionamento, quella è la prima schiera, ed è la seconda che deve prenderne il posto. Quindi, per concludere: territorio e localismo, mondo e cosmopolitismo. Due tendenze che si può pensare facciano a pugni. Non fanno a pugni. Quando ragioniamo sulle due parole chiave, territorio e competizione, tendiamo a leggere le due parole scisse, e allora, o guardiamo i comportamenti che avvengono sul territorio, equindi i processi neoetnici, i processi del riapparire della tribù, della comunità, o guardiamo i meccanismi del sistema-mondo del capitalismo. Il problema è capire che queste due cose vanno assieme, che oggi come oggi i processi sono processi di territorio e quindi locali. E quindi di localismo e di cosmopolitismo. E quindi di sistema-mondo del1'economia. Il problema vero è che oggi come oggi, detto banalmente, è caduto il modello centrale, la fabbrica e le appartenenze, i soggetti si sonoritirati e hanno riperimetrato il loro territorio, dal punto di vista delle appartenenze, dal punto di vista sociale, dal punto di vista culturale. Ognuno di noi ha fatto questa operazione, tutti quanti eravamo dentro grandi movimenti sociali dispiegati, e siamo prima o poi tutti quanti tornati "a Forlì". tutti sono tornati a casa per poi ripartire A Forlì per ripartire, attenzione, ma sei tornato a Forlì, perché a un certo punto quella dimensione del movimento, della grande appartenenzaè venuta meno, è venuta meno e sei ritornato a quelle che erano le origini. Ognuno di noi è tornato, e abbiamo ricominciato a fare riradicamento. e questo non lo abbiamo fatto solo noi, l'hanno fatto anche i leghisti, l'hanno fatto tutti quanti. Poi, riperimetrato il proprio territorio, abbiamo ricominciato ad andare per il mondo. Per il mondo nel vero senso della parola perché oggi il mondo non è più la nazione, è il mondo della competizione globale. Quindi il problema è coniugare il localismo nel cosmopolitismo. Se tu li osservi scissi, cosmopolitismo vuol dire solo oligopoli finanziari, multinazionali e governo del!' economia, e localismo solo neoetnicità, tribalismo, federalismo d'identità. Bisogna mettere assieme questi elementi, cosa difficile, perché significa ricominciare ad avere la capacità di andare per il mondo, e qui va ricostruita una cultura del1'andare per il mondo che non è più l'internazionalismo proletario, il "nostra patria è il mondo intero". E' forse piuttosto una cultura dell'esodo, ma pendolare, fra dir.tensione locale e cosmopolitismo. Bisogna costruire una cultura per andare per il mondo, mezzi, risorse, ecc. Quando dicevo progetti di lavoro, intendevo proprio questo: ricominciare a fare operazioni di questo tipo ... Io credo che oggi il problema vero sia quello di fare esodo attivo, cioè attraversare questa modernizzazione che non ci piace, contaminarla dal!' interno, introdurre elementi di cambiamento in questo capitalismo che non ha alternative, oppure ridurre in micro questo berlusconismo -che pare che abbia preso tutto e tutti- o questo capitalismo. Lavorare dall'interno per una comunità possibile, attraversando le contraddizioni della modernità. Ma con la retorica non si va da nessuna parte. - luogocomune L'ALIBI ANl'IFASCISl'A Di fronte alle grandi trasformazioni è naturale cercare di risparmiare energia psichica. Meglio affidarsi a schemi consolidati che garantiscono, nell'immediato, risposte sicure. Il dubbio infatti paralizza, impedisce di agire, di scaricare la tensione. Una credenza qualsiasi è preferibile a questa irritazione neNosa. Ecco perché l'Europa, risvegliatasi, grazie al voto italiano, dal suo sonno ideologico, agita lo spettro del fascismo. Non è solo paura, ma quasi una incofessabile speranza. Se infatti quello a cui si assiste potesse almeno chiamarsi «fascismo», allora, con un po' di fatica, come guerrieri invecchiati che devono spolverare fucili dimenticati in soffitta, si saprebbe come farvi fronte, non dovremmo cioè rinunciare a quello che siamo, non dovremmo faticare in una ricerca dall'esito imprevedibile. Qualche ex camicia nera riciclata serve quindi perfettamente allo scopo, che è quello di sempre: evadere il destino, continuare nel proprio tranquillo sogno di un'Europa culla della civiltà e amica dei supremi valori dello spirito. Ma i «fascisti» su cui, riciclando fiacche frasi di circostanza, si punta il dito accusatore non sono il problema. E' quel!' «altra cosa» nuova e spumeggiante, a cui i fascisti storici si sono semplicemente accodati per soprawivere, il nuovo incubo. Guardare in faccia questo incubo assolutamente «democratico», fatto di «gente» colorata, cialtrona e soddisfatta che vuole essere protagonista, ecco ciò che spaventa, ciò da cui l'Europa spirituale distoglie lo sguardo sfruttando al meglio qualche inopportuna frase uscita dalla bocca di un improwisato sottosegretario.Chesitrattidimalafede e non di semplice ignoranza del problema è evidente. Misurarsi con questa «altra cosa» senza andare alle radici del proprio essere non sarebbé infatti possibile. Veder/a in tutta la sua potenza significa vedersi, fare i conti con il marcio delle proprie radici «moderne», ripensare le proprie rivoluzionarie parole d'ordine -libertà, uguaglianza, democrazia- che in quel!' «altra cosa» hanno trovato, non una confutazione, ma un ironico e definitivo inveramento (liberismo, omologazione, dittatura televisiva della «opinione pubblica»). I fucili dimenticati in soffitta, buoni per l'antifascismo di maniera, sono perciò, in questo caso, armi affatto spuntate. E' un coraggio inquisitorio quello che invece si richiede ai pochi che dissentono (perché tali sono e saranno: anche questo diritto dei «pochi» bisognerebbe cominciare a ripensare). E la misura della sua autenticità è data dalla crudeltà con cui questi sapranno procedere alla vivisezione della loro stessa anima, ponendosi quelle domande che fanno veramente male perché inquietano e disorientano. L'antifascismo di maniera queste domande non se le pone. Per questo esso appare non tanto una scorciatoia, quanto piuttosto un vero e proprio alibi. SeNe soltanto ad «essere altrove» e ad assicurare, così, a spiriti fiacchi una posizione sicura da cui contemplare, senza comprenderla, una battaglia alla quale non intendono o non possono partecipare. Rocco Ronchi LA FORTEZZA SINTESI s.r.l. 47034 FORLIMPOPOLI (FO) - ITALV Via dell'Artigiano, 17/19 Tel. (0543) 744504 (5 linee r.a.) Telefax (0543) 744520 UNA CITTA' 5

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