che poi il controllo sociale è questo, è l'imposizione di un modello di vita sessuale di un certo genereper cui tutto ci si aspetta tranne che da lì venga il dispiacere, che da lì venga la morte, che da lì venga la malattia. Questo si pensa oggi, però. Spaventosoeassurdoèche l'uomo degli ultimi 40 anni è come se avesse perso i contatti con tutte le generazioni precedenti, con la storia, come se non ci fosse continuità. Fra la fine del 1800 e il 1940 non c'era una così grande differenza nel modo delle persone di pensarsi, di pensare alla vita, nei valori di fondo. Ma tra il '40 e oggi c'è un abisso. Si ha l'impressione di vivere in una specie di isola rispetto al resto del passato. Noi rompiamo il legame con il passato, come rompiamo il legame con i limiti della biologia, dell'umanità, con la cultura del passato, proiettati in un futuro in realtà ingran parte inesistente. Però, effettivamente, la morte scambiata ... Come in guerra la morte si dà e si riceve. Oggi apparentemente non c'è la guerra nell'occidente e quindi la guerra definita come tale, che consente anche di soddisfare tutta una serie di pulsioni e di avere buoni moti vi per esprimere aggressività e distruttività, è dentro. tutto ci si aspetta tranne che da lì venga la morte E' stato detto che si crede che nell'occidente sia superato il problema della sopravvivenza, che non ci sia più un problema di lotta per la sopravvivenza nei confronti dell'ambiente, perché l'ambiente è soggiogato, anzi distrutto, vinto. E che, però, essendo superato questo passaggio del confronto con l'ambiente, I' autosopravvivenza sia tra gli uomini. Cioè l'ambiente siamo noi reciprocamente, è l'uomo rispetto ali' uomo e quindi è lì la maggioranza dei conflitti che riguardano l'esistenza, proprio nel rapporto tra gli esseri umani e lì si insinua la possibilità di un'aggressione, di una sfiducia, di una difficoltà di intimità. Infatti c'è un'enfasi sul rapporto interpersonale, un'enfasi sulla coppia, sulla socializzazione, c'è la prescrizione di un certo modello di vita e di realizzala minaccia alla nostra sopravvivenza. Dall'altro lato, però, crea questa contraddizione assurda, per certi aspetti intollerabile, e cioè che viene direttamente da quella che penso sia la fonte principale di piacere nella vita, cioè la sessualità. Si è creduto che la sessualità potesse essere liberata da qualunque forma di censura, che potesse essere libera espressione, gioco, divertimento; invece da lì viene questo rischio quindi bisogna responsabilizzarsi, introdurre dei limiti, pensare, ridurre l'aspettativa di piacere, adattarsi a considerare che potrebbe esserci dolore e sofferenza. ripensare, ridurre l'aspettativa di piacere Che comunque sono il pane quotidiano di qualunque tipo di relazione interumana, quindi anche della sessualità. Ed effettivamente è un fenomeno che circola e quindi in quanto tale coinvolge emotivamente le persone. Questo è uno dei motivi che spiega l'insieme di circostanze che hanno creato il fenomeno in senso antropologico. Noi lo vediamo forse poco in Italia, ma esiste. Poi magari rischia di perdersi nel gruppo che fa pressione per avere più farmaci, sempre di più, quindi il sieropositivo come consumatore di sanità, che vuole dire la sua, che ha il diritto di stare al tavolo con i medici. Questo è un modo di ingabbiare l'esperienza della persona, che deve essere soltanto un paziente e in quanto tale, non perché vive un'esperienza umana importante, si può anche accettare che faccia parte di una commissione. Questo discorso in real là non interessa, perché alla fine queste cose qui sono noiose; le persone le considerano del tutto invendibili. E' soltanto quello di cui parla la letteratura; la poesia e la letteratura non parlano d'altro in tutte le epoche! Questi aspetti sono considerati del tutto irrilevanti, insignificanti, noiosi, perché non rispondono alle domande delle persone, alle esigenze e ai bisogni da soddisfare. Io, avendo una formazione cattolica, ho avuto la fortuna di pensare che la vita sia una valle di lacrime zione. E I' Aids sembra sottolineare e non intendo una concezione della questo aspetto: l'ambiente sono gli vita come punizione, martirio, caaltri, quindi è dagli altri che viene stigo. La grande tradizione cattoliB olioeca Gino Bianco ca in realtà ha degli elementi di fondo che riguardano l'uomo in generale e che nell'occidente sono i nostri punti di riferimento per identificare l'umanità. "bisogna vivere come se Dio esistesse" Anche se non sono credente questo per me ha molta importanza; è un po' come nel racconto di Fred Uhiman "Un'anima non vile", in cui dice: "bisogna vivere come se Dio esistesse". Quindi come se l'amicizia, l'onestà, l'umanità, la moralità, avessero un senso e fossero effettivamente un valore, anche se non hanno necessariamente un fondamento oggettivo. Freud, riguardo alla questione della sofferenza, diceva che le persone pensano alla felicità, o sono invitate a concepire la felicità, soltanto come presenza del piacere, di intense sensazioni di piacere, benché poi in realtà la gran parte di tutte le scuole di saggezza miri soprattutto a fare in modo che la persona riduca il dispiacere e il dolore che esiste nella vita e che è inevitabile, che è la condizione di fondo. La sofferenza ci viene dal corpo che deperisce, che ci fa morire, dal mondo esterno che ci minaccia nella lotta per la sopravvivenza, dal rapporto con le altre persone. Quindi già soltanto riuscire a ridurre il dolore che ci proviene dall'esperienza dell'esistenza, sopportare la sofferenza, agisce come felicità. Però oggi questo è un discorso che non passa, anzi oserei dire che viene considerato un discorso reazionario, proprio quasi con una connotazione politica, che costringe le persone a vivere al di sotto delle loro possibilità, delle loro aspettative, delle loro illusioni e aspirazioni. Perché l'aspettativa e l'aspirazione al piacere sembra essere immensa, impossibile da contenere, insaziabile. La nostra società va sia verso l'aumento vertiginoso dell'aspettati va di piacere, sia verso I' evitamento totale del dolore e del dispiacere.C'è I' estremizzazione di tutte e due le cose, si crea una situazione impossibile da vivere con coscienza. E' veramente disorientante, è un vortice per cui la persona perde il punto di riferimento, l'appoggio. Su che cosa un individuo fonda la sua esistenza visto che è attrailo irresistibilmente dal l'idea di identificarsi con uno che vuol godere a tutti i costi, affermarsi, realizzarsi, piacere, e che contemporaneamente deve anche cercare di disconoscere il dolore? Al contrario, nella mia esperienza personale, ali' ASA, con i gruppi di autoaiuto. la strada è quella di non pensare alla risoluzione, ma di sperimentare la possibilità di vivere con la sofferenza. Se io sono malato e soffro la sofferenza sono io, non è qualcosa di estraneo a me, altrimenti non e· è scampo. Per questo bisogna scegliere di essere nella sofferenza; cioè, io sono la sofferenza e non ho la soffere11::.a, come se fosse un parassita. Questa è la mia possibilità. Anche se è un percorso estremamente difficile, un processo di crescita complicato, faticoso, che comporta sofferenza, ma una sofferenza particolare perché dà anche della gioia e per certi aspelli, in certi momenti, della felicità. Se si sentono dichiarazioni di persone, anche che convivano già da tempo con I' Aids, si coglie questo aspe110del piacere di essere se stessi dentro; perché non c'è differenza, sono io questo; c'è un'adesione totale, sono io, non la malattia; sono io, persona che è, esiste, a11raverso e con la sua mala11ia, non potrei esserne fuori, posso solo vivere attraverso questa. In ogni caso di fronte a una persona malata di Aids si ha sempre una sensazione di grande sacralità: persone che hanno capito verità che non possono neanche dire, di cui solo una piccola parte può essere comunicata. In questa strada da percorrere come agiscono i gruppi di autoaiuto? I gruppi di autoaiuto sono anche una specie di rito primitivo. Da soli è molto difficile, allora si sta insieme ad altre persone con lo stesso problema, 1naanche con chi non lo ha. lo, ad esempio, sono stato il promotore in Italia dei gruppi di autoaiuto e non sono sieropositivo. Non ho mai inteso l'autoaiutocome un· assoluta autosufficienza. Anzi questo è proprio un equivoco in cui si rischia di dire: "fate da soli, per conto vostro", liberandosi così del problema. Io penso che sia importante la comunicazione e lo scambio con persone che non sono sieropositive, proprio per un gioco di polarità, in cui chi è malato, o potenzialmente malato, accetta questa condizione ma anche le parti sane di sé, e chi è "sano", idealmente sano, accetta di esserci in quanto avvantaggiato in quel momento, in quel contesto, e tuttavia riconosce la propria parte malata come possibilità, come necessità della sua esistenza. Questo dà integrità all'uno e all'altro, aumenta la complessità, ma aumenta anche le conquiste possibili. Condividendo l'esperienza, trovando un linguaggio, anche iconografico, di riti sociali di lu110, dalle coperte alle candele, alle fiaccolate, si cerca di creare una piccola comunità che affronta insieme un problema che da soli è impossibile affrontare. essere nella sofferenza, "io sono, non "ho" ••• Fuori non c'è la possibilità di condividere i temi della sofferenza, del dolore, la morte, come costitutivi. Non c'è lo spazio; nonostante la mala11ia, il dolore, la morte siano dappertutto c'è un grande occultamento e come in un gioco di prestigio spariscono. Pensa che passaggi televisivi siano una cosa positiva? Sono molto critico riguardo a questo, perché il problema che abbiamo sempre posto, anche nei gruppi di autoaiuto, è quello della vivibilità e non quello della visibilità. La visibilità in senso sociale, che comunque è un fattore importante, non è la visibilità pubblica, spettacolare, perché la società dell'immagine ricicla continuamente queste cose e le snatura, le svuota, le trasforma in oggelli di consumo. Anzi viene addirittura sfruttata l'immagine spettacolare per dare l'illusione alle persone di aver capito, di potersi identificare, di poter aver fatio la propria parte. Io faccio quello che posso per cercare di stare fuori dal circuito, per esempio abbiamo rifiutato tantissime volte l'accesso alla TV, perché questa impedisce di fare un discorso che non faccia passare tutto attraverso la forca caudina di un'immagine che deve racchiudere e rappresentare tutto. Viene superficializzato tutto, perché ci sono immagini molto profonde ma spesso accompagnate dal silenzio. Ci sono immagini che fanno cultura e vanno direttamente nel profondo, altre immagini invece sono soltanto superficie e costringono a fermarsi alla superficie, e quindi al godimento, alla fruibilità, ad un processo proprio chimico di catalizzazione di reazioni brevissime, dopo le quali uno si ritrova assolutamente inalterato, come se non fosse successo niente, perché non e' è stimolo alla riflessione, alla profondità. In effetti è un gioco estremamente delicato accettare o non accettare, decidere chi va e come ci va. Perché, tra l'altro, è anche massacrante. Chi accella di fare questo, non andando come caso pietoso descritto come tale, nel qual caso è vittima doppiamente, ma andando con una posizione di forza e potendo parlare, comunque poi paga duramente perché la macchina dei mezzi di comunicazione di massa è spaventosamente violenta. Si paga perché l'immagine crea un personaggio che risucchia la persona, la depaupera e la costringe a essere solo il personaggio. Però è un bel problema. Tra di noi abbiamo sempre pensato di accettare solo a condizione che venisse garantita la possibilità di dire delle cose e di parlare proprio di questo aspetto, della condizione della malattia e della propria esperienza umana e non di farmaci, di richieste alla medicina, di bisogni sociali. Parlare dell'esperienza di convivenza con la malattia, dell'esperienza culturale di diversità che uno sta vivendo, dandone un'immagine diversa da quella pietistica, ma non certamente disinvolta, perché l' Aids è una tragedia. In genere, invece, le televisioni preferiscono il dràmma alla tragedia, perché la tragedia riguarda tutti ed è costitutiva di quello che puoi rimandare agli altri come promozione di una cultura su questo. E questo purtroppo a livello di massa non è possibile, perché la comunicazione di massa è avviata su altri binari, non può materialmente fare cultura. Deve avvenire attraverso altre strade. Bisogna farlo, secondo me, nei rapporti personali. In tutti i rapporti personali bisogna rimboccarsi le maniche per fare cultura riguardo alla sofferenza, alla malattia, alla morte. Le persone vanno raggiunte attraverso queste esperienze di solidarietà, a macchia d'olio, con una politica personale. Per esempio nella quotidianità, in casa, con gli amici, si può parlare di malattia, di morte, senza aspettare l'Aids. r Comunque sia, ognuno, se valuta la propria esperienza personale, conosce cos'è la sofferenza e in questo senso riscopre la sua umanità e la concede anche agli altri. Non ha bisogno che gli altri siano soltanto fantocci o vittime sacrificali. - ---------------------stazioni OLTRE IL DOLORE MANGIARE FRITTELLE Le ultime pagine dei Fratelli Karamazov sono dedicate al funerale di un bambino, lljùsa morto di tisi e di stenti. Dostoewskij non ci risparmia nulla; descrive l'espressione del piccolo nella sua bara celeste, i suoi stivalini rossicci e rattoppati, la povertà della casa, la madre malata di mente che si batte il petto con il pugno, il padre, l'ufficiale degradato Snegirev che accompagna il corteo funebre stretto al suo "vecchio cappottuccio, troppo corto e troppo leggero". Il romanzo potrebbe fermarsi qui, nel cuneo del dolore più scandaloso e inaccettabile, quello per il quale è giusto "rendere a Dio il suo biglietto d'ingresso": il tormento di un bambino, la morte di un innocente. Potrebbe chiudersi sulla limpida giornata invernale, sui compagni di lljùsa che portano la bara fino al cimitero, e tutto sarebbe nell'usuale smarrimento che si prova di fronte alla morte, nella bellezza senza risposta della commozione. Ci aspetteremmo una pace confusa, la stanchezza fisica di chi è inconsolabile, ma il racconto continua, la terra cade sulla tomba, Snegirev trova appena la forza di esaudire il desiderio del figlio: sbriciolare sopra la fossa una crosta di pane "così i passerotti verranno a beccare, io li sentirò e sarò contento di non essere solo". Leggiamo, e pensiamo che su tanta pena ora potrà calare solo il silenzio, che le immagini sfiocheranno lentamente nella tristezza, nella necessità del vuoto, che nessuna azione sarà più possibile. Invece ecco è pronto il banchetto funebre, ci sarà del salmone, ci saranno delle frittelle. "Tanto dolore -dice sconcertato- Kòlja, uno dei ragazzi- e poi delle frittelle" .. E' la frase in cui si stringe l'intero romanzo, quella con cui Dostoewskij sceglie di rispondere alla logica "euclidea", alla ribellione umana nei confronti del dolore. Che cosa può stare accanto allo scandalo della sofferenza se non qualcosa di scandalosamente mite, di follemente lontano dal rancore, dal giudizio, dalla memoria? Che cosa possiamo opporre al male se non la totale alterità di un gesto: Sonja che s'inginocchia davanti al delitto di Raskolnikov, padre Zòsima che s'inginocchia davanti a Dimitri? Le frittelle, il tempo quieto dell'epulum, sono -come i segni che Cristo traccia sulla sabbia prima di rispondere ai farisei che vogliono lapidare l'adultera- l'improwiso azzerarsi di una distanza, l'incenerimento di ogni vendetta. Forse la bellezza capace di salvare il mondo non è che il dolore portato oltre se stesso, tanto spinto in avanti da sfondare in un'assoluta innocenza. Alesa Karamazov parla e chiede ai bambini di ricordarsi per sempre di essere stati buoni, di aver voluto bene ad lljùsa. Sono parole toccanti ma resterebbero nel chiuso dei buoni sentimenti (e forse non è un caso che vengano pronunciate non nel recinto del cimitero ma accanto ad una semplice pietra) se lì nell'abbagliante realtà di una tavola funebre non si fosse annunciata un'altra realtà, la radice di quel segreto affilarsi che coincide con la nudità dell'infanzia: le voci dei bambini che gridano "urrà per Karamazov" tenendosi per mano. Antonella Anedda UNA CITTA' 1 5
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