Bi Nel racconto-intervista di Clara Sereni, i ricordi del rapporto con un padre ebreo e dirigente comunista si intrecciano con una riflessione su un certo antisemitismo della sinistra, sul rapporto con Israele e sulle speranze suscitate dall'accordo di pace. Figlia di Emilio Sereni, grande dirigente del P.C.I., Clara Sereni è l'awrice del bellissimo libro "Il gioco dei regni", nel quale ricostruisce la storia avvincente, drammatica, irripetibile. del/e famiglie di provenien~a dei suoi genitori. E' autrice anche di "Casalinghitudine ", "Ma11ico111iporimavera'', ''Sigma epsilon". Mio padre con me non parlava sostanzialmente di niente: c'erano un po· di racconti sull'infanzia, alcuni aneddoti resistenzialclandestin-galereschi. C'era uno stranissimo tipo di comunicazione e mi sono anche chiesta da dove siano passate certe cose. I nostri rapporti hanno cominciato ad essere cruenti quando ero intorno ai quindici anni: mentre prima erano fatti di silenzio. perché io mi limitavo ad evitare qualunque occasione sia pur lontanamente familiare, poi, pur senza diventare uno scontro diretto perché io non ce la facevo, è diventato in varie forme un contrasto più esplicito. Litigavamo talmente su tante cose, ad esempio sul!' ora in cui tornavo la sera, che poi non mi veniva neanche in mente di chiedergli qualcosa. Poi. come sempre capita, credo che ci sia comunque stata una trasmissione di cultura, ma non so proprio da dove sia passata. Sul fatto di essere ebrea da un lato c·era una forma di aristocrazia, cioè sentire l'essere ebrea come un titolo di merito, dall' altro mi hanno detto tutto, facendomi leggere tutto il possibile rispetto alle persecuzioni. Comunque, nella sinistra era diffuso il fatto di "dimenticare'' il proprio essere ebrei. bastava essere comunisti. Un mio cugino, di una famiglia che più ebrei di così non si poteva, ha scoperto a ventidue anni di es ere ebreo, non glielo aveva mai detto nessuno! Contemporaneamente, poi, per noi c'era anche il fatto di essere atei, per cui io alle medie, in una scuola di borgata, invece di dire che ero atea. preferii dire che ero ebrea perché era più tollerabile. Questo avvenne in coincidenza col cambiamento di casa che comportò un grande cambiamento dell'ambiente familiare. Prima era una famiglia allargata, con un sacco di gente che frequentava la nostra casa, poi, fra il '56 e il '57, ci fu appunto questo profondo cambiamento. Del le persone, dei politici, che prima si vedevano per casa ne rimasero due o tre, allora giovani, e si perse completamente questo rapporto con la famiglia; ogni tanto da Israele arrivava qualcuno, ma di questi a me non interessava granché. Comunque alle medie mi dichiarai ebrea, finché poi non mi capitò una compagna ebrea che mi scoperse il gioco, perché io di ebraismo non sapevo niente. Comunque, il fatto di dichiararmi ebrea non mi ha mai procurato disagio, almeno fino al '67. Con mio padre, invece, c'erano delle ambiguità pazzesche. Io ho una sorella molto più piccola di me, adesso ha 30 anni ed è molto fragile da quando è nata, all'asilo la solita maestra disse "E' tanto intelligente, mandiamola in seconda" ed io, che ho saltato una classe e ho sempre sentito il problema che questo salto poi fa sì che si continui a richiederti sempre qualcosa di più, ebbi a questo proposito una discussione con mio padre. Dicevo che c'è un'età, soprattutto intorno alla pubertà, in cui i ragazzini hanno bisogno di fare un po' il branco, di essere uguali agli altri, ma lui disse "Lo vedi che gli ebrei vengono meglio perché sono più discriminati ...", "Si, quelli che non muoiono" dissi io. Dunque, da parte sua, una rivendicazione di ebraismo che aveva radici molto profonde e che ogni tanto usciva fuori con connotati quasi razzisti, però mai dichiaratamente. Per esempio: in occasione di uno dei primi lavori che feci, una supplenza all'asilo ebraico, io non sapevo neanche la preghiera che dovevo far dire ai bambini, allora andai da mio padre e gli chiesi di insegnarmi la preghiera. "Ma come, tu non la sai?", si stupì. Non ~i sa perché avrei dovuto saperla, non avendo mai avuto un'educazione religiosa. Biascicò qualcosa in fretta, naturalmente io non capii niente e glielo dissi, "Ma tu l'ebraico non lo sai?", ribatté lui, "No", feci io. Dopodiché, con atteggiamento quasi schifato perché "ovviamente" avrei dovuto saperlo, mi i seinò questa preghiera. Altro esempio: il mio sedicesimo compleanno, e anche qui credo che l'ebraismo c'entri non poco, fu vissuto nell'ambiente familiare come l'entrata nella maggiore età e l"'ingresso in società" avvenne all'ambasciata sovietica. Mio padre mi presentò proprio a tutti. ed è stata una delle poche volte che ha fatto veramente il padre. Per quel mio compleanno mi mandò una filastrocca, ogni tanto ne faceva, tutta impostata sul ·'se non ora, quando?" ben prima che Primo Levi scrivesse il suo libro "Se non ora, quando?". Questa frase di mio padre è uno dei cardini della cultura ebraica. Cioè, nel momento in cui trasmetto. a te figlia che entri nella maggiore età, le regole di vita, uso quelle tradizionali, però non te lo dico che vengono da Il: se lo sai bene. se no, peggio per te. L' antisemitismo nellasinistrac'è. ma non è quel che mi preoccupa di più: mi sembra quasi un ospite casuale, una cosà abbastanza estranea all'ideologia di sinistra. Nessuno al!' interno della sinistra si sognerebbe di rivendicare l'antisemitismo come valore e si può quindi contare su un _contenimento complessivo dell' antisemitismo. Invece, secondo me, c'è qualcosa di più sottile, di più insidioso e di più profondo, che mi preoccupa: l' intolleranza per il diverso, che si è sempre coperta col discorso del 1·egualitarismo. ma che, proprio per questo, non è mai stata veramente affrontata. Sì e no si è cominciato ad affrontare il discorso rispetto a Israele, con molte approssimazioni, figuriamoci se si è mai riusciti ad affrontare quest'altro ... Poi si sono intrecciati tanti piani, perché un antimperialismo semplificato ... Durante la guerra del Golfo la paura, lo shock che tutti abbiamo provato ha prodotto ritorni inopinati ad antirnperialismi semplificati e di maniera. C'è un discorso culturale e profondo da affrontare. Ai ragazzi con la kefia ho cominciato a chiedere, ad esempio al figlio di una mia amica, diciotto anni, molto intelligente, in gamba, uno che legge, sicuramente uno dei migliori: "Ma, secondo te, quando è finito lo Stato di Palestina?" E lui, dopo averci pensato un po' su, mi ha risposto: "Non lo so; forse nel '48, forse nel '67". Credo che sarebbe interessante fare la stessa domanda a degli adulti, per vedere quali risposte tirano fuori. Questa non mi pare cosa da poco: l'idea che circola nella testa della gente, e bisognerebbe capire perché, è che c'era lo Stato di Palestina, libero, nor idoe indipendente, che sarebbe stato sottomesso in modo sanguinoso dai sionisti. Mi sembra un po' insufficiente leggere un tale questione soltanto come disinformazione. Anche se è risaputo che la conoscenza della storia non è uno dei punti forti della cultura odierna, rispetto ad un terna di cui si parla tanto qualche dubbio dovrebbe venire. Ed ecco che la responsabilità, anche semplicemente culturale, della sinistra su questo terreno forse c'è, quanto meno come non detto. Mentre l'antisemitismo vero e proprio non è un non detto: è detto eccome ... Forse la questione Ebrei e Stato di Israele non può non essere tenuta insieme. Può darsi. Del resto già nel '67, quando il problema del lari vendicazione del l' identi- ~braica non; passava proprio per la testa, mio padre, che non mediava mai, prese delle posizioni estreme e si creò una situazione molto pesante, anche con parenti con cui non ha parlato più per anni. Fra l'altro non ho mai saputo cosa abbia detto esattamente, fu in occasione di un intervento a Livorno di cui ho letto uno stringatissimo resoconto, ma sicuramente era contro Israele e a favore degli arabi. In quel momento io, che già vivevo per conto mio e resistevo ai tentativi di farmi risucchiare in "zona comunità", ai compagni che frequentavo in quel periodo dicevo, con sempre più disagio: "Voi forse avete ragione, però quelli dei miei che sono sopravvissuti, e gli altri che sono morti non sono morti di freddo, stanno lì; io da questo dato non posso prescindere." Fra l'altro, la guerra del '67, soprattutto a sinistra, è stata sempre raccontata come l'aggressione di Israele ai paesi arabi. In verità gli israeliani hanno aggredito, invece di aspettare di essere aggrediti, ma fu semplicemente una questione di intelligenza militare. E' un po' il solito discorso per cui gli ebrei se perdono vengono compianti, ma se vincono diventano oppressori. Certo oggi ci sono i territori occupati, ma anche in questo caso va detto che non sono stati tolti ai palestinesi. I palestinesi, se finalmente avranno uno Stato sarà perché c'è Israele, anche se è un controsenso storico pazzesco: uno Stato non lo avrebbero mai avuto dagli Stati arabi, dai quali le hanno sempre prese. Onestamente, pensando ad Israele e ai territori occupati, non posso dire di sentirmi lacerata, non è stata lacerante neanche Shabra e Chatila: non nel senso che non consideri quelle strage tragica, ma nel senso che ho sempre fatto la distinzione fra popolo, Stato e governo. Se vai in Israele ti accorgi per esempio che l'esercito è davvero un esercito di popolo e, unico caso al mondo, è anche successo che l'esercito sia stato più a sinistra del governo. Perfino in occasione della Guerra del Golfo, davanti alla Knesset, ci furono degli scontri fra manifestanti di destra e di sinistra, cosa impensabile in qualsiasi altro paese in stato d'assedio. Tutto questo poi non significa che quello sia un paese perfetto, non lo penso minimamente, però è sicuramente un paese che ha delle coordinate molto particolari. E' il paese delle contraddizioni, da tutti i punti di vista. Contemporaneamente, però, se non si esce dall'idea di uno Stato speciale, non se ne viene mai fuori; mi ha aiutato a capirlo il libro di Yehoshua" Elogio della normalità": è un libro straordinario, anche se in proposito devo dire una cosa che non è un piccolo dettaglio. Il discorso che Yehoshua fa presuppone uno Stato in cui gli ebrei siano maggioranza, ma il problema è che questo dato non è così stabile e questa non è certo una questione secondaria. Comunque, se non lo si comincia a pensare da dentro e da fuori come uno Stato normale e quindi non tenutoall'eroismoeallagenerosità -cioè, sostanzialmente, uno Stato tenuto alla perfezione, ma anche sempre scusabile per duemila anni di persecuzioni subite- non se ne esce. Questa è una sfida che Israele deve vincere. Questo accordo di pace, che è un accordo di grande realismo politico, con enormi implicazioni psicologiche, come forse non è mai successo nel corso della storia, è sicuramente un passo verso lo Stato normale ed è importante capire cosa significhi cominciare a decidere dei propri confini non in base alla Bibbia, ma in base al realismo politico. Se si continua a considerare Israele uno Stato speciale non se ne esce, e questo è un discorso che vale anche rispetto agli ebrei. Se ne sentono dire di tutti i colori, anche da chi pensa che ti stia facendo un complimento. Quando sento dire che gli ebrei sono più intelligenti degli altri ... Io tento di storicizzare edi spiegare in pillole le ragioni per cui poi succede che in una classe dirigente gli ebrei - come è accaduto in Italia negli ultimi cento anni, soprattutto a livello di intellettuali- non rispettano le proporzioni. Le ragioni non sono razziali, se si pensa che gli ebrei siano più belli o più intelligenti si rischia di fare ugualmente un discorso razzista. Questo non sempre viene percepì to con grande chiarezza: chi dice che gli ebrei sono più intelligenti pensa di essere assolutamente immune da idee razziste. Poi c'è tutta la genia di quelli che vorrebbero essere ebrei perché ''gli ebrei sono più bravi". A volte, chi non vive in Israele, chi sceglie di restare nella diaspora rischia di essere più realista del re: la comunità romana, ad esempio, non ha mai brillato per le sue posizioni aperte. La grossa differenza in Italia si è avuta con l'arrivo di Tullia Zevi alla presidenza dell'Unione delle Comunità. Grande politica, grande diplomatica, pur sostenendo Israele non ha sempre detto "bravi". Quando sono andata la prima volta in Israele con mio marito, che non è ebreo e tuttavia era stato lui a spingere per andare, io mi sentivo a disagio; ad esempio per il fatto che là non esiste una legislazione civile, ma solo la legislazione religiosa. Poi, una volta lì, capisci tante cose. Ho vissuto quarant'anni della mia vita sentendomi priva di legami familiari. Mi ci ero persino abituata, non lo trovavo gradevole, altri ce l'avevano io no, comunque era una realtà. Andare in Israele ha però significato la scoperta di una famiglia. Da una serie di elementi, da una serie di segnali, mi sono resa conto che la famiglia, proprio con le caratteristiche della famiglia, quindi solidarietà, sostegno, mediazione delle diversità, cioè il volersi bene anche se non si è daccordo, in Israele c'era e per me è stato abbastanza shoccante. E poi ho veramente cominciato a capire come questa cultura, che era passata quasi come un non detto, per canali che non sono assolutamente più in grado di ricostruire, mi appartenesse. Faceva proprio parte delle cose che penso, cioè di un certo modo di elaborare la realtà. Ovviamente è difficilissimo, direi anzi impossibile, discernere, nella cultura occidentale, quello che ti viene dalla corrente greco-romana e quello che viene dalla corrente ebraica. In ogni caso basti pensare che Marx e Freud sono ebrei e sono due pensatori che hanno sicuramente dato al pensiero moderno un contributo nòn piccolo. Per quanto riguarda il mio caso, 'penso che la cultura ebraica abbia una percentuale in più, che non so definire e che forse non serve neanche definire, ma credo sia così. Una cosa che mi ha letteralmente shoccata in Israele è stata la ristrettezza degli spazi: ogni volta che ti muovi sbatti contro un confine. Siamo andati a trovare una mia cugina in un kibbutz nell'alta Galilea e le col line che avevamo proprio sopra la testa, appena fuori dal kibbutz, erano del Libano. Insomma, complessivamente, non è una sensazione gradevole; se poi si pensa che ancora ci sono i sopravvissuti dei campi e che è passato ancora troppo poco tempo, allora si possono capire anche certe "paranoie". Il fatto che la sinistra abbia cominciato a riflettere su questa questione, e da così poco tempo, dipende anche dal fatto che ci sono state un sacco di semplificazioni, dietro cui non c'è solo una scelta politica, il sostenere gli stati arabi contro Israele: ci sono molte questioni assai complicate. Affrontare questi problemi con un minimo di serietà, non è possibile se non affrontandoli come paradigma della complessità, e quindi non suscettibili di semplificazioni. Bisogna accettare il fatto che non tulle le contraddizioni siano sanabili: un atteggiamento mentale innovativo diverso dall'esperienza politica che un po' tutti abbiamo alle spalle e che può esserci di grande utilità, ovviamente non solo rispetto ai problemi cl' Israele. -
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