Una città - anno III - n. 24 - luglio 1993

tradizione democratica consolidata. Ed 'altra parte non sembra che l'Europa sia in grado di aiutarli più di tanto. Loro si sono già resi conto che devono lavorare soprattullo con le loro forze. E anche senza grandi aiuti esterni un po' di ripresa economica in alcuni paesi c'è già: in Polonia, per esempio, la terapia d'urto sta facendo uscire il paese dalla crisi; così in Cecoslovacchia che era, come disse Havel, ·'una casa in rovina". Il quadro non è poi così disastroso. Dopo tulio, forse, se l'occidente non ha risposto come loro si aspettavano e anche come pareva promellere questo è staro quasi un bene. Perché così queste economie non sono state del tutto colonizzate, non rischiano di diventare delle appendici dell'Occidente. E anche perché sono costrette a cercare forme nuove,originali, come succede ad esempio nel processo di privaùzzazione. Privatizzare è essenziale (nonostante quello che dice ancora la sinistra occidentale), perché queste imprese statali se continuano ad esistere assorbono capitali, producono beni che non trovano sbocco e quindi incrementano il deficit statale, l'inflazione, gli squilibri. Stanno venendo fuori esperienze nuove in questa terra incognita che è il passaggio dalla pianificazione al mercato come i fondi sociali collettivi, -una proprietà che non è né statale, né delle società per azioni- che, pur se sono solo ai primi passi, sono guardati con molto interesse anche dagli economisti occidentali. Attraverso strade spesso contorte qualcosa viene fuori, il quadro non mi sembra così catastrofico, per lo meno ha cessato di essere in discesa. Anche sul piano politico, se è vero che questi paesi hanno molti problemi di recupero di ritardi rispetto all'occidente, perché non ci sono state esperienze pro I unga te di vita democratica -e noi sappiamo quanto questo conti, basta paragonare la situazione dell'Italia e quella dell'Inghilterra- è anche vero che loro in qualche modo preannunciano dei processi attraverso i quali noi dobbiamo ancora passare. Loro hanno come bruciato delle tappe. Il sommovimento politico che oggi in Occidente porta al tramonto dei partiti politici-che sono, come diceva Mao, una formazione storica che è nata, vive e si estingue- loro l'hanno anticipato. I partiti storici da loro non so.no quasi più ricomparsi; c'erarro, però sono emerse altre cose, delle alleanze, delle aggregazioni diverse dai vecchi partiti. La Yugoslavia è un caso a parte perché lì più che un·esplosione etnica c'è stato l'affermarsi di un disegno egemonico ed espansionista serbo. La guerra etnica è stata preordinata e pianificata dall'alto. Ma a parie le zone a pericolo sismico permanente -come i Balcani, il Caucaso, l'Asia Centrale-, questi problemi si possono risolvere lavorando per un nuovo sistema di convivenza. Il ritardo della comunità mondiale su questo piano è enorme. L'ordine del dopoguerra, in cui le frontiere erano divenute immutabili, è saltato. Ed in fondo è giusto: se dei popoli vogliono modificare le frontiere questo deve essere possibile. Il problema è che le cose devono essere fatte senza scannarsi. Per esempio in Belgio fiamminghi e valloni si odiano non meno dei serbi e dei croati, però non si sgozzano. Le tensioni etniche ci possono essere e non c'è da scandalizzarsi, l'importante è che siano contenute entro limiti civili. Io credo che le tensioni etniche possano essere anche positive, che vivifichino le società. In questo dopoguerra i polacchi sono una nazione quasi completamente omogenea (anche se poi c'è diversità fra i polacchi dell'est, dell'ovest) e alcuni dicono "che bello, noi non siamo afflitti dalle tensioni etniche"; ma altri dicono: "questo paese una volta era straordinario, aveva i tedeschi, gli ebrei ... ora siamo un paese noiosissimo". Marek Edelman l'ha definita una nuova Auschwitz E comunque, realisticamente, bisogna riconoscere l'importanza del fattore etnico perché ogni volta che è stato negato e soffocato è tornato con più prepotenza. Il problema è che possa esprimersi in forma pacifica e non antagonista, attraverso rapporti di convivenza e non di esclusione, come succedeva a Sarajevo. Lasciamo spazio a quelli che non vogliono avere un'identità etnica e però lasciamo spazio anche a quelli che vogliono averla, perché può avere valori positivi, culturali per esempio. Un nuovo ordine mondiale quindi. Ma dominato dalla forza di qualcuno, degli Stati Uniti per esempio? Una specie di nuovo impero? Un nuovo ordine mondiale, che non sia più basato su una forza che si impone, come fu quello di Jalta, perché questa congela i problemi, li rinvia e poi non sappiamo che cosa lasciamo ai nostri figli e nipoti. Bisogna creare qualcosa che assomigli ad un ordine e che non sia imposto ma accettato. in Polonia la clericalizzazione non è passata Non vedo oggi tanto il pericolo di La stessa cosa la vediamo nella fine una ripresa dell'imperialismo USA della distinzione tra destra e sini- perché negli Stati Uniti sta prevastra. Se non ci fosse stato il logora- !endo una tendenza isolazionista. mento finale dell'esperienza stori- Loro lo negano, però il problema ca del socialismo reale, destra e c'è. Ed è per questo che il movisinistra avrebbero continuato a esi- mento per la pace sembra fuori dal stere nella loro configurazione tra- mondo: perché non c'è più l'impedizionale. E' proprio lì che si è rialismo americano. Abbiamo tutti consumata questa esperienza ed è pianto perché sono andati via dalstata vissuta più direttamente; noi l'lrak troppo presto e non sono in fondo la viviamo di riflesso. neppure riusciti a far fuori Saddam Quella situazione da noi viene tal- Hussein. E magari fossero intervevolta vista come un disastro: non nuti in Bosnia. c'è uno schieramento politico, c'è Maallorachipotrebbegarantire la frantumazione, non si riesce a questo nuovo ordine? L'ONU? fare un'alleanza stabile di governo, Tutti, se tutti diventassero un po' i governi cadono l'uno dopo l'al- più ragionevoli. Ora noi viviamo tro. un momento sfavorevole in cui tutIn realtà quei paesi stanno maci- to tende al peggio: la xenofobia, nando delle cose, in qualche modo, l'antisemitismo, la guerra in J ugosia pure sotterraneamente, proce- slavi a, la guerra nel Caucaso, l'odio dono. Stupefacente è la velocità in India per non parlare poi delcon cui, ad esempio, in un paese l'Africa. Ma poi vengono momenti come la Polonia, con tutto quello magici, quelli in cui tutti sono un che sotto il socialismo ha rappre- po' migliori, in cui, invece di venisentato la Chiesa -che ha aiutato re fuori un Milosevic viene fuori un non solo i cattolici ma anche i marxi- riformatore. In cui le cose si ricomsti, i dissidenti laici- si è respinto il pongono e si sviluppa quello che le clericalismo che la Chiesa voleva persone di buona volontà hanno imporre. Pensiamo invece ali' Ita- seminato. Questa è la ragione per lia che pur non essendo mai stato cui ha sempre senso lavorare nel un paese molto cattolico, s'è la- "politico", anche quando sembra sciato nel dopoguerra clericalizza- di essere completamente emargire dalla Chiesa e dalla democrazia nati, quando sembra che nessuno ti cristiana. Quindi non tutto è fosco stia a sentire, perché in fondo qualnell'altra Europa. La cosa più peri- cosa si può sempre seminare. colosa è il ritorno di nazionalismi, E' perquestocheèimportanteoggi tribalismi, dell'antisemitismo, del- fare qualcosa per la Bosnia, per la xenofobia. Ma queste cose ci questa sorta di nuova Auschwitz, sono anche da noi. comel'hadefinitaMarekEdelman. dopo la Yugoslavia... - B1 io eca Gino Bianco PRO'IAGONIS'II INVISl8111 La mafia come metodo e sistema. La mafia come impresa. Le ingenuità del proibizionismo. Intervista a Giovanni La Fiura. Quando -tra se11a11toacento anni- si potràfinalme111e scrivere una storia disincantata della mafia e de/l'a111imajia, per gli storici pitì a/lenti non mancheranno le sorprese. Si scoprirà, ad esempio, che per alcuni "protagonisti" de/l'antimafia, l'essenziale è stato -pera11ni-011e11ere 1111 "intervista su Repubblica o, pitì modestamente, 1111 '"passaggio" di qualche minuto su Samarcanda. Esi scoprirà -si potrà scoprire- che altri "protagonisti•· del movimento civile di lolla contro la mafia hanno preferito, per stile, il lavoro diwumo e nascosto, tanto pitì efficace quanto meno dis111rbatodai fari dei mass-media: hanno preferito lavorare produuivamente anziché disperdersi in mille iniziative di awopromozione, di presenzialismo e di polemiche contro i compagni di strada. Tra questi personaggi invisibili ci sono insegnanti elementari che trascorrono il pomeriggio gratis a scuola per lavorare con i bambini che la ma11i11eavadono; ci sono medici e infermieri che dedicano ore del tempo libero a visitare a domicilio le mogli dei carcerati, le madri degli spacciatori; ci sono preti che wiliu.ano i luoghi tradizionali della catechesi (la preparazione alla prima comunione, alla cresima e al matrimonio) per parlare della responsabilità verso il quartiere, della necessità di liberarsi dal dominio dei più violenti, de/l'importanza di 1111 lavoro onesto. E ci sono anche -come dire?- i più invisibili tra gli invisibili: quegli studiosi che. senza alcuna prospeuiva di successo economico o di carriera accademica, trascorrono le giornate ad analizzare il fenomeno mafioso, le sue metamo,fosi, i suoi intrecci con il resto della società. Senza /afatica quotidiana e so11ova- /111atadi queste poche persone, il movimento antimafia sarebbe un grosso bestione senza cervello: mancherebbero del tu/lo le analisi scientifiche, le ipotesi di lavoro, le proposte operative. Anche i pochi magistrati coraggiosi, anche i pochi politici onesti avrebbero lavorato, -lavorerebbero tu/fora- con difficoltà ancora maggiori se, ogni tanto, dalla società veramente civile non venissero co111rib11steiri per capire meglio il nemico ed i suoi punti deboli. Giovanni La Fiura è uno di questi protagonisti silenziosi lacui preziosità sarà misurabile solo in futuro, quando il tempo aiuterà a distinguere l'oro dai fondi di bo/figlia. Al presell/e, si gode -in una sperduta casella di montagna, 11011/0111a11d0a Monreale- la fertile tranquillità che la sua riservatezza temperame111aledesidera e che la tendenza dei mass-media a puntare i riflettori sul "sensazionale" gli regalano. Non è facile forzare la sua privacy: è riuscito ad evitare le telecamere della RAI anche quando, nel maggio del '93, don Luigi Cioui è venuto da Torino a Palermo per presenwre, nella Sala Gialla del Palazzo dei Normanni, la sua ultima pubblicazione (in collaborazione con Umberto Santino). Solo in pochi sapevano che Giovanni non era nessuno dei cinque personaggi al tavolo dei relatori e che era sed1110in terza fila, confuso tra i trecento spellatori. Approfi11a11dodella sua amicizia, ho voluto carpirgli le brevi confidenze che leggete qui di seguito. Costituiscono le risposte alla prima ùrtervista che egli ha sinora rilasciato. Augusto Cavadi Prima la laurea in filosofia, poi l'impiego inbanca; infine, dopo 6 anni, la scelta di dedicarti esclusivamente allo studio. Un itinerario insolito, si direbbe: seguendo quali ragionamenti? Più che seguire "ragionamenti", hanno fatto gioco il caso e la necessità: il caso di avere vinto un con: corso e dell'essere finito in banca, praticamente da un giorno all'altro, e la necessità di uno stipendio in mancanza di altri "sbocchi" lavorativi in quèl momento. Mi hanno mandato a Siculiana (in provincia di Agrigento) e così ho potuto "godere" dell'opportunità di una "full immersion" in una zona di mafia ancestrale e moderna allo stesso tempo. Quando ho lasciato un lavoro e un ambiente che non sopportavo più ho voluto fermarmi a riflettere, soprattutto sulle nostre "cose" di Sicilia; rimettermi a fare quello che avevo sempre fatto "prima", cioè studiare, anche se la scelta dello studio non volevaessereesclusiva, né eterna. La tua prima pubblicazione (La mafia come metodo e come sistema, Pellegrini, Cosenza 1989) è stata realizzata in tandem con Amelia Crisantino, tua moglie: perché proprio su questo argomento? Lo spunto è stato il premio Pio La Torre bandito dall'Istituto Gramsci per un testo scolastico sulla mafia. Era iI 1985 e dopo un'estate di assassinii (come quella che è trascorsa e come quella che è appena iniziata) ci siamo detti che valeva la pena dire la nostra sull "'argoment". Abbiamo impostato il nostro lavoro storicamente, fondandolo, per quanto potevamo e sapevamo, sul- !' esercizio della memoria, così negletto e poco praticato, nei fatti, dalla mafiologia "ufficiale" consacrata dalla televisione. Partivamo dall'assunto che il primo ostacolo alla conoscenza è la nozione stessa di arretratezza, con tanta sospetta costanza applicata alla Sicilia e notavamo che dietro il paravento della decadenza politica e della depressione venivano avanti dinamiche economiche e formazioni sociali tutt'altro che attardate, anche se rivolte costantemente al male (con l'eccezione importante dei fasci siciliani e del movimento contadino). La mafia dal nostro punto di vista, era il precipitato organico, indesiderato o meno, del processo di formazione dello Stato in Italia, e come tale riguardava e coinvolgeva I' intero paese, il suo modo di fare politica e di fare economia, da Torino a Gela. Questo lavoro è stato l'occasione per incontrarci (o reincontrarci) con Umberto Santino e per aderire al Centro Impastato. Il tuo lavoro più impegnativo resta a tutt'oggi l'opera a due mani (in collaborazione con Umberto Santino) L'impresa mafiosa, Franco Angeli, Milano, 1990: quali pensi siano state le acquisizioni più salienti e più durevoli di quella vostra ricerca? Aver posto il problema della mafia come impresa e dell"'impresa mafiosa" all'interno di una ricerca empirica condotta sugli accertamenti patrimoniali in attuazione della legge antimafia. Aver cercato di far risaltare tutta la complessità di un tema già ridotto a stereotipo dai media. L'indagine porta costantemente fuori e dentro: dentro, sul territorio segmentato delle famiglie siciliane, e fuori sul circuito finanziario mondiale. Io mi sono occupato soprattutto degli Stati Uniti; anche in quel paese risulta evidente da un lato il movimento della criminalità organizzata verso l'esterno, verso l'ambiente operativo del mercato e delle imprese legali, e dall'altro il movimento all'interno del bacino delle attività legali verso l'assenza di controlli, verso la non trasparenza delle strutture, comportamenti e transazioni. Il dato di fondo è I' incontrollabilità della corsa all'arricchimento individuale, che sempre più diventa, a partire dalle aree "marginali" (che oggi inglobano il Sud del mondo e quasi tutta la galassia dell'ex Est) via criminale al capitalismo. Poco prima di morire, Giovanni Falcone è tornato un pomeriggio da Roma espressamente per presentare -all'Università di Palermo- un volume a più voci sul maxiprocesso( AA.VV, Gabbie vuote, Franco Angeli, Milano 1992). ln quel volume, conte.~ente anche un tuo contributo sui "pentiti", vi erano delle crìtiéhe riguardanti sia la gestioné delmaxiprocesso sia alcune sue proposte (la Procura Nazionale antimafia): come avete vissuto queste divergenze di valutazione con il Giudice Falcone? In modo assolutamente "laico" e normale, direi. Dissentire, discutere ci vilmente su argomenti che erano e restano controversi come la centralizzazione del lavoro giudiziario antimafia mi pare assolutamente giusto. Una cosa però è la discussione e altra completamente diversa la calunnia e la denigrazione personale. Noi non ci siamo mai permessi di dire o di fare ipocritamente capire che Falcone era "passato dall'altra parte", era "funzionale al potere" e altre baggianate del genere. E' strano che chi ha condiviso questi metodi si presentasse, e fosse considerato dai più, come rinnovatore del costume politico. Recentemente a Palermo don Luigi Ciotti hapresentato un 'unità didattica multimediale sulle droghe (un audiovisivo e due libri). Tu sei l'autore di Droghe e mafie.Bibliografia ragionata e annotata su narcotraffico e criminalità organizzate (Quaderno del CSI "G.Impastato", Palermo 1993) ed il co-autore (con Umberto Santino) di Dietro la droga. Economie di sopravvivenza, imprese criminali, azioni di guerra, progetti di sviluppo (Edizione Gruppo Abele, Torino 1993): che rapporti ci sono oggi fra traffico delle droghe e attività mafiose? La droga è stata ed è il grande affare della mafia: un potere e una ricchezza immensi regalati sul piatto d'argento del protezionismo. Si è pensato di affrontare un problema psicologico e sociale molto complesso e multidimensionale con una logica di contrapposizione, accampando il cosiddetto "buon senso" secondo cui per risolvere un problema critico e doloroso basta rovesciare la situazione, introducendovi elementi opposti a quelli che l'hanno creata. Il proibizionismo dell'alcool nell'America degli anni '20 aveva insegnato che questa soluzione era risultata fallimentare e anzi aveva contribuito acreare il problema stesso. Ma I' esperienza non è servita a nulla. La guerra alla droga ha oggi a ché fare con effetti-paradosso di intensità centuplicata rispetto al passato, per l'ampiezza della posta in gioco e della sua carica destabilizzante. Le scelte di interdizione sembrano avere avuto come risultato la crescita dell'intelligenza politica e operativa delle borghesie criminali che gestiscono i grandi traffici a livello planetario, la dislocazione e mimetizzazione ulteriore delle vie e delle basi di traffico, la crescita della quantità di prodotto illegale e fatalmente anche la crescita del consumo, se non altro per la disseminazione delle occasioni, dei punti-vendita, delle sollecitazioni. Credo che ogni strategia antimafiosa, in Italia e altrove, non possa che parùreda un radicale ripensamento del proibizionismo. Dopo il buio delle stragi all'inizio dell'estate '92,dopounanno, viè qualche piccola luce all'orizzonte. Che cosa pensi che si possa fare per non spegnere queste fiammelle? Queste luci sono davvero lontane, si vedono e non si vedono. Non sono ottimista: i successi di polizia sono importanti e così quel tanto di movimento antimafia che si è riformato, dopo un periodo di crisi e latenza, sotto il ricatto delle stragi. Ma non basta: il movimento coinvolge ancora poche persone (io non credo alle cifre dei giornali), che per altro non hanno, temo, molte cose in comune a parte la lodevole volontà di testimoniare. Mentre si tratterebbe, né più né meno, di cambiare le regole dell'economia e di smantellare un sistema sociale, una formazione sociale storicamente determinata, avremmo detto ai vecchi tempi del marxismo: capi e capetti, appena presi vengono sostituiti, mentre la mafia "coIT\emetodo e come sistema" -se rru permetti l'autocitazione- sopravvive e si adatta ai nuovi tempi, anche a quelli del "rinnovamento", specie in un quadro mondiale sempre più dominato da dinamiche violente e dall'entropia della ragione, come l'attuale. - UNA CITTA' 5

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