Una città - anno III - n. 24 - luglio 1993

proble111idi confine B Il problema della riabilitazione psicologica dopo una masteètomia. Una città che sappia riaccogliere delle persone, non degli expazienti. Una falsa visione organicistica del corpo a fronte di una sofferenza globale. Intervista alla dott.sa Gemma Martino. Gemma Martino è il direttore della Lei ha elaborato dei percorsi di Divisione di Terapie Fisico- riabilitativa per operati di tumore presso l'istituto tumori di Milano. riabilitazione per le donne mastectomizzate che sono considerati particolarmente efficaci ed innovativi; può illustrarci i prinCome è arrivata alla decisione cipi su cui ha fondato e fonda i professionale di fare il medico e, suoi interventi? in seguito, a occuparsi del pro- In realtà il primo percorso riabilitablema dei tumori? tivo l'ho operato nei miei confronti Per scelta genetica. Avevo nella e nei confronti dei miei assistenti e mia famiglia medici e avvocati, mi dei miei collaboratori. Perché non toccava essere medico e devo dire c'era mai stato un discorso riabiliche non è stata una scelta. Da pie- tativo all'interno dell'oncologia e colina già avevo questa idea, certo rerché la riabilitazione viene semnon avrei mai pensato all'istituto l?re intesa come un discorso fisico, dei tumori, pensavo che sarei anda- · di trattamento degli esiti, mai di ta a lavorare come Albert Schwei- · prevenzione, mai di integrazione tzer in Africa, i soliti ideali ... Ma somato-psichica. Noi veniamo da questo desiderio di spazi e di urna- una visione organicistica dove il nità è rimasto nel tempo. corpo è molto più funzionale, e E anche occuparmi di tumori è sta- quindi in primo luogo abbiamo ta una cosa accidentale. Mi sono dovuto rivedere il nostro disagio ritrovata, già da studente di medici- nel considerare la sofferenza delna, a conoscere delle persone che l'altro che è una sofferenza globalavoravano ali' interno dell' istitu- le. Abbiamo lavorato prima su di to, mi hanno fatto conoscere l'isti- noi, come equipe, e solo dopo abtuto e sono rimasta all'interno di biamocominciatoadareunmodelquesta struttura. E a occuparsi in particolare di tumori al seno? E' stata una cosa molto sofferta perché all'interno dell'Istituto io praticamente non vedevo pazienti oncologici. La mia percezione, con gli ammalati di tumore, era particolare perché lavoravo in sala operatoria, come anestesista e come terapista del dolore e quindi c'era un'utenza muta.C'era un mio desiderio e una mia capacità di essere attiva, ma senza che potessi entrare nell'emozione del paziente. Equesto lavoro, da donna a donna diciamo, è arrivato con una grossa crisi personale, nel senso che come terapista del dolore ho cominciato ad ascoltare e a capire il disagio dei pazienti, mentre come anestesista erano i corpi dei pazienti che mi interessavano. Ho capito che la situazione doveva comportare non solo una crescita professionale mia ma anche una crescita umana e ho cominciato a lavorare prima su di me, su un'informazione permanente verificando le cose che stavo facendo e piano piano ho cominciato ad avere una buona comunicazione con il paziente. • non sappiamo cosa stiamo innescando Con le donne è stato anche questo un po' occasionale, perché l' istituto ha un'utenza con pazienti che hanno avuto un cancro a1 seno molto più elevata di altre patologie. Per questo è una struttura trainante. Abbiamo 1200 donne operate ali' anno, è chiaro quindi che l'utenza maggiore di questo istituto è un'utenza femminile. Quindi, per forza di cose, la mia specializzazione è avvenuta maggiormente sui tumori femminili. lo riabilitativo. Ma riabilitativo è un brutto termine. Quando faccio lezione ai miei chiedo sempre: "cosa vuol dire per voi riabilitazione?". "Ah sì, riabilitazione è tornare come prima", "in genere c'è una mutilazione fisica" ... No, si tratta di lavorare per fare un percorso di medicina di qualità, io non mi sento una riabilitatrice, mi sento di avere operato un percorso oncologico, nella fattispecie di senologia oncologica. E di di avere dato soprattutto un indirizzo di qualità di intervento con le persone con cui sono entrata in contatto. Riguardo ai nostri principi, poi, il primo che attuiamo è la completa assenza di principi ... Nel senso che non abbiamo nessun programma, abbiamo una serie di possibilità perché ci siamo professionalizzate molto, sia in termini oncologici che in termini psico-terapeutici, che somalo-psichici che creativi. Noi non parliamo neanche più di terapia; non sappiamo neanche cosa stiamo innescando quando lavoriamo nell'incontro con una persona. Vi incontrate prima dell'operazione? Qualche volta prima, ma soprattutto ci siamo dedicati al post-intervento perché questa è una struttura chirurgica ed entrare in relazione prima in una struttura che è condizionata dal tempo dell'intervento, dal tempo della managerialità del ricovero, è molto difficile. (Qui uno è bravo se alla fine dell'anno dice che la media dei ricoveri nella sua divisione è di 3 giorni anziché di 20 perché vuol dire che c'è efficenza, c'è turn over). Il problema del cancro innesta sempre quello del tempo, perché prima si dice: "fai presto, vieni a farti vedere", poi si dice "fai presto a farti operare". E su questo si gioca moltissiW CaffdaeRi ifparmdiFi orlì s.p.A. ll+HBH- !il!f 10 anni PIOVANI dti O tt da 11 a 19 anni Perloro il migliorfuturopossibile AUT. INT. FIN. FORLI' n. 4n423 del 30/9/92 mo tutta la situazione delle cliniche private che è inutile che stiamo qui a raccontarcela perché la sa tutto il mondo. Fatto sta che quando la persona entra ali' interno di una struttura oncologico-chirurgica la prima cosa che vuole è quella di essere operata. non reincanalare qui le risorse liberate E anche se per noi non è pronto perché non è elaborato ancora il senso della diagnosi, abbiamo visto che intervenire prima, per fermare tutta questa macchina organizzativa in cui la persona stessa è un granello dell'ingranaggio, non paga molto. Quindi noi lavoriamo con persone soprattutto dopo l'intervento. Incominciamo con un'informazione, un minimo di approccio, gli diamo un po' la nostra carta da visita. Diciamo loro che siamo uno spazio dove poter lavorare e pensare a se stesse, che siamo un gruppo che si mette a disposizione dei tempi dell'altro, che possiamo far venir fuori le loro risorse attraverso le cose che sono più congeniali a ciascuna di loro. Perché fra questi gruppi di donne operate c'è una diversità enorme di cultura, di età, di storie, di sapienza o di non conoscenza rispetto al corpo, ma anche di risposte che spesso possono essere molto più forti in persone che sono meno sapienti. Ad esempio la contadina del sud a cui si propone un lavoro molto culturizzato sul corpo risponde probabilmente molto meglio di una persona con una certa cultura, perché quest'ultima ha più schermi. Quindi il nostro principio è quello di dare imput e di ascoltare. Mai di fare un programma preciso per i gruppi o per singoli. Singolo o gruppo poi dipende dalla scelta delle persone e anche qui, comunque, giochiamo in un tempo breve perché non vogliamo fare una struttura di accoglienza che abbia sempre in mente il tumore. Il nostro concetto di riabilitazione è un concetto reale di autonomia. Un riabilitatore è bravo non solo se migliora la qualità ali' interno della struttura oncologica, ma sopraltutto se liberiamo risorse che non vengano poi reincanalate qui -nel rivederci continuamente, in controlli sistematici all'interno di una struttura che ricorda la malattia- ma altrove. E su questo stiamo facendo da anni un lavoro sociale molto interessante: mettere in contatto la struttura sanitaria con le strutture culturali. Se nell'anamnesi raccogli amo che molte donne, prima dell' intervento, hanno frequentato centri culturali, ad esempio palestre diversificate, allora noi ci mettiamo in comunicazione con questi centri e cresciamo un po' insieme, in modo che la persona operata possa poi ritornare nel centro dove era già stata e che, il centro, a sua volta, consapevole dell'intervento subito dalla persona, possa accoglierla non come diversa, ma elaborando quella diversità senza per forza sottolinearla. Faccio un esempio: c'è a Milano una palestra di ginnastica per persone di tulle le età, una palestra molto famosa guidata da una persona, adesso ottuagenaria, anche molto saggia nel modo di relazionarsi con le persone. Questa persona è venuta nella nostra situazione, da lei abbiamo appreso alcune modalità, e lei stessa ha imparato da noi che cosa si poteva fare e non si poteva fare per interventi chirurgici. Per cui ora, se sappiamo che una persona andava in quella palestra, non diciamo di andare in un centro di riabilitazione, ma di ritornare pure nella sua palestra. Cosicché si ricrea il tessuto sociale e politico, la polis, che reingloba naturalmente ma anche con consapevolezza e conoscenza, i propri cittadini. Non come expazienti, ma come persone. Risentite nel vostro lavoro della crisi della sanità e dell'aumento dei costi? Ne risentiamo purtroppo molto per quanto riguarda una nostra impostazione preventiva, perché le persone devono comunque pagare un certo contributo, un ticket che prima non pagavano. E non è immediato capire l'importanza di un lavoro preventivo. Per esempio a una persona, che dopo l'intervento si sente libera in tulli i suoi movimenti e può rientrare nella propria famiglia e che però non ha elaborato ancora iI trauma, non possiamo dire: "senta, rimanga a fare un gruppo somato-psichico da noi". E di fatto le persone che vengono qui ricoverate sono ricoverate perché sono ammalate nel corpo; noi ripartiamo sempre dal corpo, dalla mutilità, e su questo, poi, si innescano altri bisogni. nell'incertezza anche l'esaltazione della vita Ora se la persona non è più limitata, il bisogno non si può indurglielo. Non si può dire: "guardi che lei non ha elaborato molto la diagnosi di cancro e per questo tra un po' esploderà nella famiglia, nel disagio sociale", ecc .. Non sentendo immediatamente il bisogno si giustifica male il costo. In realtà non abbiamo una cultura rispetto alla prevenzione. Da che cosa partite per iniziare quei percorsi riabilitativi poi differenziati? Gli interventi, chiamiamoli non più di terapia ma di elicitazione delle risorse, partono sempre da Il' ascolto dei bisogni fisici. E qui si inizia ad affrontare quell'incertezza che è anche -a qualcuno si accapponerà la pelle- la bellezza di una patologia come il cancro. Perché nell'incertezza ci può essere il declino verso la morte ma ci può essere anche l'esaltazione verso la vita. La bellezza è quella anche di scegliere di vivere e di accorgersi di poter vivere anche in maniera completamente diversa da come ci si aspettava, più positivamente, comunque diversamente da come erano state e da come si erano trascinate nella loro vita prima del tumore. Quindi il tumore rappresenta anche una crisi? Esattamente. Siccome la crisi iniziale viene esposta, viene sentita dalle persone come crisi corporea, noi ripartiamo da lì. una colonna imbottita e dei bastoni E poi nei percorsi di terapie del movimento oltre che di verbalizzazione delle esperienze e del movimento fatte, emergono tantissime altre problematiche. Su queste problematiche verbalizzate si può lavorare in termini neuro linguistici piuttosto che in termini psicanalitici, piuttosto che in termini di trance, di ipnosi. Insomma, si cerca il trattamento più congeniale per ciascuna delle persone. Magari non si lavora sul leemozioni perché inquel momento l'emozione è bloccata, oppure si lavora molto sulla rabbia che non tende mai ad esprimersi e la facciamo esprimere. Nel nostro reparto, ad esempio, c'è una colonna che abbiamo imbottito e dei bastoni e spesso chiediamo alle persone di potersi liberaree uccidere il loro cancro, di dare un volto, un nome a quella colonna, e di picchiare e battere e di fare venire fuori Luttii loro sentimenti di giusta rabbia e di frustrazione. Però non in tutte la rabbia può esprimersi immediatamente e quindi è difficile da valutare il tempo di reazione. Fattoèchedopouno o due anni di completo silenzio molte persone tornano e dicono: "mi avete dato una spinta e in quel momento non l'ho capito, l'ho capito dopo un po"'. Di solito quanto durano questi percorsi? Innanzitulto il tempo postchirurgico: un tempo che dura grosso modo un mese, un mese e mezzo. Non solo il ricovero cioè, ma anche il tempo in cui da esterne ritornano in ospedale per essere spuntate, per togliere drenaggi, per controllare se la ferita va bene. Il tempo del trattamento dello fisico, quando e' è una situazione di lievitazione funzionale; quando stanno facendo la chemioradioterapia e quindi ritornano all'istituto, e allora lo spazio diventa quello dell'accoglimento del le esigenze del proprio lamento, del proprio disagio oppure anche quello della gioia di poter reincontrarsi un attimo con i terapeuti che le hanno accompagnate nel poslintervento. Infine, qualche volta, ci sono dei traltamenti richiesti, singoli, di terapia breve, di una decina di interventi: sono trattamenti anche con la famiglia, quando viene richiesto, ma in genere mai nei primi mesi. perché nei primi mesi la famiglia casomai chiede, però è molto a lato. Però dopo un anno un anno e mezzo dall'intervento, la famiglia tende a chiedere un supporto per capire meglio quali sono

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