Una città - anno III - n. 21 - aprile 1993

0 prol, emi di con ,ne do farlo rivivere. però tenendolo al suo posto perché non turbi le nostre possibili1~1di vita. lo credo che questo schema. questo modello, si applichi non solo ai rituali runebri arcaici, ma anche ai rituali che ancora permangono nelle nostre culture contadine. Se i rituali funebri avevano questa funzione fondamentale come e perché sono entrati in crisi? Perché bisogna che ci sia una storia perché entri in crisi la storia. Se nessuno di noi si identifica piL1con una storia collettiva, ma si identifica solo con se stesso, quando muore non va in crisi la storia. Questo passaggio si è realizzato piano piano. Con lo sviluppo dell'individualismo, dal Rinascimento ad oggi, si è verificato un fenomeno per cui l'uomo non trae più il senso della sua vita dall'appartenere ad un destino collettivo, ma è qualcosa che riguarda solo lui e quando muore, muore del tutto. La morte è il terrore dell'annullamento e se la morte è individuale a che servono allora i rituali colletti vi? Chi si occupa di psicoterapia del lutto è frequente trovi gente che non è riuscita a superare questa cosa qui, e una delle osservazioni che di solito ci sentiamo rivolgere è "Ma lei in che senso può aiutarmi? Può ridarmelo mio marito? Questa è una cosa che interessa solo me, cosa c'entrano gli altri? Cosa c'entra una professione, un ruolo sociale?". E' quasi inconcepibile che qualcuno possa aiutarmi, poiché io mi identifico col mio destino individuale e quindi oggi la morte diventa assolutamente inaccettabile. se sto l,ene la morte non ci sta Questo è il frutto della transizione. Se la morte è inaccettabile, io, se mi identifico solo con la mia persona, con la mia storia, in fondo ho l'unica possibilità di concepirmi come immortale; tant'è vero che, quando uno è adulto e sta bene, cerca di fermare il tempo. Se sto bene, se mi sono realizzato, la morte non ci sta mica, allora alzo barriere, cerco prima di tutto di non pensarci, di tenerla a distanza e di non farmi trovare, mi creo delle difese ... Difese come l'essere sempre in forma? Certamente, oggi c'è la convinzione che se segui la dieta giusta, ti metti la sciarpa, stai attento quando attraversi la strada, non morirai mai. I rituali funebri sono entrati in crisi perché non possono difendere un individuo che, identificandosi con se stesso, non può affrontare la morte. Qual è quindi la difesa specifica della nostra cultura? E' nella rimozione: "Lascia perdere, non ci pensare, vivi come se non dovessi mai morire". Ma quando si entra realmente a contatto con la morte cosa succede di questi meccanismi? Se uno si ammala di cancro la famiglia è tentata di non dirglielo. Certo, il malato si identifica con la sua vita e non gli si dice nulla. Per esempio, negli U.S.A. è obbligatorio che il medico e il paziente firmino la diagnosi in cui si dice "carcinoma ...", ma il 20% delle persone nega che qualcuno gli abbia mai detto di avere un cancro. Negli U.S.A. questa pratica della l'irma è cominciata negli anni '60. quando i medici cominciarono ad andare in galera per via di problemi legati alle eredità. La questione era: 'Tu non mi hai detto che ho il cancro e io non ho fallo testamento, ma i miei rigli possono rivalersi con te perché hanno avuto un gran casino, pagato tasse cli successione e così via". E' quindi cominciato un altro cambiamento. più che altro per problemi giuridici; ma qui siamo nel pieno della seconda transizione, mentre in Italia siamo ancora nella prima. stiamo appena entrando nella seconda. Gli U.S.A. non si pongono più il problema se dire o no del cancro o di un'altra malattia mortale. ma il problema è ora sul cosa fare dopo che si è detto, come aiutare le persone che hanno appresa la diagnosi. Apprendere la diagnosi che però non vuol dire che le persone "sappiano" nel senso in cui lo "sapevano" una volta. Gli si dice "Tu ora hai un cancro, curati" e la cosa è accettabile perché gli si prospetta la soluzione tecnologica. La difesa, cioè, non è più ammettere che è arrivata la mia ora ed io devo fare qualcosa per confrontarmi, la difesa è diventata: "Ci si può sempre fare qualcosa". E infatti non si smette mai di farci qualcosa: se sei morto ti rianimano, se non respiri ti mettono nel respiratore, eccetera. Questo ha cambiato le definizioni della morte, c'è stato, e c'è, un grande dibattito sulla stessa definizione di "morte". Una volta bastava un medico qualunque per constatare la morte di uno, ora è difficilissimo constatarlo, se lo si porta in tempo in ospedale lo fanno respirare artificialmente, mica si può dire come una volta: "Mettiamogli uno specchio". Siamo ormai molto lontani dalla società che, attraverso i rituali funebri, aveva una risposta nei confronti della morte; che ritualizzava questa risposta in modo tale che I' individuo che si confrontava con la morte, che entrava in crisi, veniva aiutato. democrazia • • • per I VIVI e per i morti E questo valeva non solo per la morte dell'altro, ma anche per la propria, uno sapeva che fare ... Mio nonno diceva "Lì troverete le carte, i soldi", aveva fatto la tomba di famiglia, mentre oggi la maggior parte della gente si fa cogliere impreparata ... A proposito dei diversi modi di sepoltura essere sepolti nella terra era considerato da poveri... Le persone volevano essere seppellite in terra consacrata; quelli sepolti "bene" erano "apud ecclesiam", i Santi e le persone importanti dentro la chiesa, gli altri attorno. Quelli che non potevano essere sepolti intorno alla chiesa venivano sepolti nella nuda terra, in fosse comuni, senza nome, i poveri non erano individualizzati. Non a caso nei secoli passati c'era un grosso uso del cadavere del diseredato a scopo di dissezione anatomica, andavano a prenderli CASSARURALEDARTIGIAN-AFORLI' NEL CUORE DELLA CITTA' bl1otecaGino Bia nelle ros~e comuni. Poi. piano piano. per tutti si è individualizzata la tomba: è diventata più democratica la società e diventando più democratica la città dei vivi lo è diventata anche quella dei morti. li primo regolamento cimiteriale. c'era anche il problema dell'igiene, lo fece Napoleone e i cimiteri vennero spostati. Questo è stato un altro passaggio. Tra la fine ciel ·700 e l'inizio dell"S00 c'è il passaggio da una concezione religiosa del1' immortalità ad una concezione laica, che passa attraverso la famiglia, in mezzo c'è la rivoluzione francese, che distrugge tutto quello che era legato alla religiosità e alla trascendenza religiosa. Cambia completamente la mentalità, il mondo diventa più democratico e iI valore di ciascuno non è il suo valore come singolo, ma come appartenente ad una data famiglia e l'identità non è tanto legata al comportamento e alla responsabilità individuale, ma alla famiglia a cui si appartiene. Spostare i cimiteri lontano dalle chiese è dovuto solo a ragioni igieniche o anche a precise scelte ideologiche? In tutte le trasformazioni un posto centrale è occupato dal cimitero, che viene usato in modo diverso a seconda delle strutture difensive dominanti nelle varie epoche, a seconda di come si risponde alle angosce che la morte determina. Nelle epoche in cui si risponde alla morte dicendo che esiste l'aldilà è logico essere sepolti vicino alla chiesa, in terra consacrata; significa che ti danno un lasciapassare per l'aldilà e si pensa che chi non viene sepolto lì abbia un ostacolo ad andare nell'altra vita. Nel momento in cui trionfa un minimo di democrazia anche il cimitero diventa più democratico, tutti hanno diritto ad una sepoltura e c'è il nome sulla tomba, perché altrimenti nessuno si ricorda di te. La difesa è la memoria e il cimitero moderno corrisponde a quello foscoliano: uno va al cimitero a trovare i suoi morti, cioè a rinnovarne la memoria. Dal punto di vista psicologico questa è una certa elaborazione del lutto, non è il "Tanto ci ritroveremo di là". Significa che se me lo ricordo, il mio caro non muore e allora l'uso del cimitero non è altro che un veicolo della memoria e molti poeti, ma anche degli psicanalisti, han visto l'analogia tra il seppellire dentro e il seppellire nella terra. Ma con l'urbanizzazione il cimitero è diventato molto simile ai quartieri popolari, una specie di alveare. Io non so se le regole per le quali si rinnovano le lapidi e le tombe abbrevino in qualche modo la memoria, ma più che il tempo è forse la serialità: diventa sempre più difficile distinguere un loculo da un altro, sono tutti uguali, a Bologna il cimitero è come un alveare, con tanto di ascensori. La serialità è una cosa che alla gente dà fastidio e la ripetitività rende impossibile distinguere una tomba dall'altra, quindi distinguere un morto dall'altro. Fa un effetto stridente andare al cimitero e vedere, davanti a questi loculi, una vecchina che parla con suo marito. Il cimitero tende a ridursi alle sue runzioni igienico-sanitarie e se uno è coerente con questa logica. al cimitero non va più. E' come dire: "Dove meuiamo i morti')". "Ci pensa il comune". il morto diventa un problema pratico-amministrativo e anche questa è una difesa, una rimozione. A contribuire a questa situazione dei cimiteri moderni ci sono anche problemi di spazio... Questa è una balla, una sonora balla. li problema dello spazio c'è solo perché pensiamo non valga la pena occupare uno spazio più grande. C'è differenza rispetto a quello che succede negli U.S.A., dove c'è il tentativo di unire i morti ai vivi: ci sono cimiteri giardino dove vanno a giocare i bambini, in alcuni si passa in auto, non sono chiusi, ci sono degli spettacoli ... . . ~ non s1 va p1u in visita ai cimiteri Oggi c'è una miriade di comportamenti, anche quelli più arcaici. C'è chi non vuole ammettere che il morto sia proprio morto, quindi va al cimitero e parla col morto, convinto che lui lo senta. C'è stato un bambino che diceva che essere morti è essere imprigionati nella fotografia: sei vivo, ma non puoi uscire da lì. Sono comportamenti infantili, che non ammettono che si sia inte,rntto il contatto del vivo col morto, ma possiamo considerarli normali oggi? In realtà questi comportamenti corrispondono alle moda! ità con cui quel tipo di persona, che appartieneadun'altracultura, non a quella dominante oggi, ha elaborato la morte. La maggior parte della gente oggi non va al cimitero, se ne sbatte, al massimo tocca ferro. Nell'uso del cimitero siamo andati in una direzione che prelude al non usarlo più. Permangono gli usi del passato e permangono i cimiteri, ma quando tutti si faranno crerpare non ce ne sarà più bisogno e poi, forse, non ci si farà neanche più cremare. Ci sarà chi penserà, fidandosi dei progressi della scienza, che forse un giorno la gente resusciterà e allora, con un po' di soldi, uno si metterà nel frigorifero e aspetterà. E il culto dei morti che fine farà? Viviamo in una società che sta perdendo la memoria e con l'idea della memoria anche quella del futuro, che in fondo sono la stessa cosa. Siamo in un periodo di grande crisi e solo quando sarà superata sapremo se sarà inmodo positivo o no. Oggi è una Babele totale, essere contemporanei vuol dire non poter credere a tutte le illusioni di una volta e, nello stesso tempo, non avere una soluzione per potersi vivere questa situazione senza illusioni. C'è una ambiguità fondamentale nel vivere una situazione in cui uno muore. Se sto male, oppure mi è morta una persona cara, sono distrutto dal dolore, so di dover morire, la morte è la mia prospettiva, ma cosa vuol dire questo sentirsi morire? E' qui l'ambiguità straordinaria: è un sentirsi, quindi un vivere, ma il contenuto di questo vivere è il morire. - AlimentazioneNaturale Yoga- Shiatsu CO via G.Regnali,63 Forlì tel. 0543 34777 ...--------------letter LA PICCOLA FRASE Cari amici. Gino Zaccaria, da voi intervistato sull'ultimo numero ciel giornale, mi ha - come direbbe lui- sconvolto. Confuso e confusionario, egli non centra il bersaglio nemmeno in ciò che concerne mere questioni di fallo. La bomba atomica, infatti. non fu sganciata, come crede, "per fermare il nazismo" (virgolette nel testo dell'intervista). ~erché il nazismo al momento dello sganciamento della bomba su Hiroshima, era già fermo da tre mesi (sganciamento il 6/8/1945, resa nazista il 7/5/1945). Poi Gino Zaccaria scopre -e ne resta colpito- che i nazisti non sterminavano sul posto ma trasportavano nei campi di sterminio (vedi implicitamente sottolineata qui, nel quadro della famigerata categoria del moderno, l'importanza della tecnologia, senza la quale niente trasporti di massa, ecc ...,ecc ...): peccato che cli questa scoperta e dei suoi corollari non possano più essere informati gli ebrei ucraini e russi sterminati sul posto, nelle retrovie del fronte, fin dall'inizio dell'invasione dell'URSS nel 1941, a centinaia di migliaia, come se invece di tecnologi nazisti avessero scontrato, che so?, delle orde unne e delle legioni romane. Se si pensa a tutte le ambiguità "speculative" che potrebbero essere conseguite a simili errori di fatto nei pensamenti di Zaccaria, tanto dovrebbe bastare dall'esimere chiunque dal discutere il resto dell'intervista. Per me, almeno, basta. Voglio, invece, dire qualcosa in merito alla frase heideggeriana oggetto dell'intervista, per l'intendimento della quale a nulla giova -mi sembra- il denso fumo levato da Gino Zaccaria. Non si tratta, secondo me, di una frase ignobile, semmai fatuamente cinica; ma nemmeno ci sono in essa parole che conducano o indirizzino o anche solo accennino ad alcunché di essenziale. Molto più modestamente, la frase di Heidegger è, a mio parere, una definizione generica, espressa nei modi vagamente metaforici ai quali volentieri il filosofo indulgeva, della modernità tecnologica, macchinistica e in ultima analisi industriale del mondo. Chi volesse controllare e verificare il mio assunto basterebbe che leggesse, lasciandosi alle spalle Zaccaria e con lui tutto lo sciame degli epigoni heideggeriani-i deboli e i fortiil Capitale e i Grundrisse di Marx. Scoprirebbe un 'uscita inaspettata dalla heideggeriana genericità, nello sforzo potente di costruzione teorica di una centrale specificità del mondo moderno: quella del modo capitalistico di produzione, con la tecnologia, il macchinismo e in ultima analisi l'industrialismo e molto altro ancora: tutto quanto lucido e chiaro, quel che in Heidegger si tinge di un'ombra risentita, tra crepuscolare e notturna. Partendo da tale gigantesca specificità, il nostro verificatore potrebbe chiedersi se essa sia la medesima cosa della fabbricazione delle bombe ali' idrogeno e del blocco esercitato per affamare interi paesi, ovvero se vi sia in questa distinta coppia di violenze qualcosa che le specifichi rispetto al modo di produzione, benché esse, per realizzarsi, dal modo di produzione capitalistico non possano prescindere. (Avverto, tra parentesi, che il mio verificatore è convinto quanto me che nel mondo moderno c'è un solo modo dominante di produzione, quello capitalistico, e che altre esperienze lungamente accreditate di nomi "utopici" altro non erano e sono che varianti di quell'unico modo). A maggior ragione una domanda di specificità deve essere posta (e gli intervis!atori l'hanno inutilmente posta a Zaccaria) per quel che Heidegger chiama "fabbricazione di cadaveri in carnera a gas e in campo di sterminio", pena il rischio di giudicare Auschwitz effetto necessario del modo di produzione, come consideravano che fosse quei comunisti di cui parla Jean Amery, per i quali non c'era da meravigliarsi che Auschwitz stesse sulla faccia della terra, in quanto esso altro non era che uno dei frutti della fase ultima e putrescente del capitalismo. Antonio Gramsci riteneva che quanto di buono si trova nella filosofia di Benedetto Croce proviene, convenientemente mascherato, da Marx. Sembra, invece, che la peggior vulgata marxista -quella positivista della seconda internazionale o quella catechistica del marxismo-leninismo staliniano- presieda all'idea che Heidegger si faceva del mondo moderno: tra la struttura economicosociale, cioè il modo di produzione capitalistico (il "meccanizzato", la tecnologia, per il filosofo) e tutto il resto, c'è, per Heidegger, un rapporto di causazione immediata, nel senso del più chiuso determinismo. Con la sola differenza meramente nominalistica di chiamare "essenza" la struttura. Concludendo, mi sembra di potere dire che, se si riconduce la frase di Heidegger ad una corretta posizione anatomica, mettendola coi piedi per terra, si vede che in essa il modo di produzione capitalistico in agricoltura viene costretto a medesimezza con fenomeni che sono, invece, solo genericamente il medesimo del!' agricoltura industriale, mentre, qualora venissero specificati, mostrerebbero di avere con la produzione agricola industriale, e in definitiva con il complessivo modo capitalistico di produzione, quella relazione che conviene ancora, per amore di brevità, racchiudere nella formula del "rapporto fra struttura e sovrastruttura", con tutti i problemi infinitamente complessi di mediazioni e specificità che un tale rapporto comporta e dei quali si discute da più di un secolo. In questo quadro le mediazioni e le specificità di Auschwitz sono molte ed essenzialmente intrecciate alla storia tedesca e alla cultura tedesca, sia l'alta cultura, sia il germanico folclore (basta leggere Mosse). Molto meglio per Heidegger, così orgogliosamente e perfino folcloristicamente tedesco (pare si sia presentato, all'inizio degli anni cinquanta, all'università di Bologna, vestito di tutto punto con un abito sul tipo di quelli che indossano i nostri schutzen sudtirolesi), meglio per lui affondare i campi di sterminio e le camere a gas nell'hegeliana notte di vacche nere di un fenomeno mondiale come "l'industria meccanizzata", tanto più che la cosa si inseriva perfettamente nella concezione sua propria di cui ho detto. ,Naturalmente, sono consapevole di aver potuto svolgere -da profano- le mie osservazioni impertinenti sul grande filosofo della Foresta Nera unicamente perché me lo sono trovato ridotto a una piccola frase. Tuttavia, non passo fare a meno di sospettare che certe piccole frasi abbiano qualche volta lo stesso peso ed importanza della "piccola frase" di Vinteuil nel gran romanzo di Proust, anche se, nel caso della frase di Heidegger, con segno capovolto. Cordialmente. Alfredo Rosetti LIBRINCONTRO 2000 ••••••••••••••••••• libri nuovi a ffletà prezzo libri nuovi a prezzo intero Testi per professionisti PIROLA e IL SOLE 24 ORE A richiesta tutto. Consegna anche a domicilio •••••••••••••••••• Via Giorgio Regnoli, 76 Forlì Tel. 0543 / 23847 UNA CITTA' 1 5

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