Una città - anno III - n. 20 - marzo 1993

, punto Essere di sinistra non può più essere scontato. Senza responsabilità i diritti non stanno in piedi. Il difficile ma decisivo rapporto fra etnocentrismo e interdipendenza. Nella contrapposizione fra società civile e classe politica tantissima demagogia. Intervista a Vittorio Foa. Cosa prova di fronte a quello che oggi sta succedendo al sistema nel suo complesso e alla sinistra in particolare? E cosa vuol dire in questa situazione essere di sinistra? Mi sono sempre sentito parte della sinistra, evidentemente non solo da adesso ma da parecchio tempo, e mi sto domandando che cosa vuole dire oggi essere di sinistra. Sono arrivato ad una conclusione che può apparì-· re anche un pochino opportunistica, nel sen- · so che sfugge un po' ai problemi ed é questa:. non penso affatto di dovermi comportare in un modo coerente con una sinistra o con "la" sinistra. Penso piuttosto che devo cercare di fare ciò che reputo giusto e poi si vedrà se questo é di sinistra o di destra. Non credo di essere sempre stato così. In molti periodi della mia vita penso di essermi molto preoccupato di essere di sinistra. Pensandoci, molto probabilmente questa preoccupazione era un elemento di insicurezza personale; era cioè il bisogno di sentirmi parte di qualcosa di più grande che mi coprisse, che mi desse l'identità che non riuscivo a trovare da solo. Credo che presupporre in qualche modo un'appartenenza e poi pensare di essere conseguenti con questa, invece di verificarla costantemente, possa oggi essere visto come una debolezza. Non devo cercare di sapere se quello che faccio é coerente o no con un'idea di sinistra. Però questo non toglie che il problema della sinistra si ponga acutamente, perché questo ha connotato il nostro comportamento, cioè il bisogno di coerenza in un determinato ambito e la necessità di verificarlo. A me pare che forse non è del tutto scontato che si debba essere di sinistra, si può cercare di verificarlo. Quali sono i riferimenti che sono venuti meno, quelli che ci permettevano di dire se eravamo o no di sinistra? Forse alcuni di questi referenti devono essere ripensati. Intanto, quello che ha dominato per quasi due secoli, dalla rivoluzione francese in poi, cioè il confronto fra le classi. Prima fra le classi dominanti, feudalesimo e aristocrazia, e la borghesia durante lari voluzione borghese e poi fra classe operaia e borghesia nel sistema capitalistico. il lavoro salariato intrecciato in mille guise colf' idea di lavoro umano Questo referente della classe può veramente apparire sfocato, può essere difficile oggi marcare una distinzione di fondo su questo terreno, non perché l'esistenza della classe operaia sia messa in dubbio -esiste eccome, continua ad esistere nel modo più netto- ma indubbiamente l'appartenere a quella classe, come elemento d'identità, si é abbastanza sfocato, perché una serie di altri elementi culturali sono entrati in gioco. La crisi del- !' identità di classe nella politica, nell'etica non dipende da un mutamento soggettivo delle nostre idee, ma si collega con un mutamento nei fatti, nell'interdipendenza di una serie di destini, nel fatto che il lavoro salariato -che nel pensiero socialista era l'attore dominante- oggi si presenta intrecciato in mille diverse guise con la stessa idea del lavoro umano. Poi vi sono altri elementi distintivi che si sono affermati negli ultimi trent'anni, e il primo a tutti evidente é l'ambientalismo, il rapporto con la natura che ha altamente contribuito a mettere in crisi anche l'identità classista. La valorizzazione della natura rispetto ad altre soggettività ha avuto un effetto di profonda rottura nella nostra cultura, ha messo in crisi vecchie certezze, ha aperto degli orizzonti nuovi anche ali' etica, cioè al l'idea del nostro comportamento verso i nostri simili. Non credo però che possa costituire una discriminante riconducibile ali' idea classica di destra e di sinistra, perché anche l'identità ambientalista è carica di elementi contraddittori; il rapporto tra la natura e il lavoro é un rapporto contraddittorio ed é impossibile affermare unilateralmente il primato assoluto dell'uno o dell'altro. Vi sono comunque nell'ambientalismo dei pericoli di radicalizzazione che possono portare a vedere nella natura o nel naturismo degli elementi dentro i quali possono vivere anche le tendenze più ESTREMISMO SENILE Una volta l'estremismo era una qualità giovanile, benché Lenin l'avesse deplorato come una malattia infantile. Da qualche tempo tiene la scena pubblica un vario ma accanito stato d'animo che merita il titolo di estremismo senile. E' un sentimento, o piuttosto un risentimento, che del!' estremismo ha la drasticità chirurgica, la semplificazione, la voglia di fare piazza pulita -il contagio di uno spirito da tassista provato dagli anni e dai turni: ci vorrebbe una bella bomba a Montecitorio ... All'opposto dell'estremismo giovanile cui appartenni, soprattutto del suo periodo iniziale, questo è chiuso, sfiduciato, spesso vendicatico e incattivito, più attaccato al piacere di "fargliela pagare" - beninteso, se la sono voluta- che alla fiducia cordiale di poter cambiare il mondo e se stessi. Questo sentimento avaro si è cristallizzato in formazioni politiche nuove e per il resto molto diverse, ma ha anche pervaso formazioni e ambienti più tradizionali. L'esagerazione deliberata e insieme spuntata del suo linguaggio è diventata il tono dominante dei mezzi di comunicazione, anche i più compassati. Ha unito un presidente della repubblica ai suoi strenui avversari, decani del giornalismo a studiosi attempati e fin lì appartati. L'estremismo senile può avere gesti e fisionomie ignobili o nobili, la gongolante grettezza del professor Miglio o il dolore del giudice Caponnetto, degno del lutto di Priamo sui suoi figli: ma è anche sintomo di una inclinazione comune profonda e piena di conseguenze. Certo è una manifestazione e una reazione al trapasso di un regime. Ma è anche, mi sembra, una causa di quella scarsa visibilità dei giovani, di una loro mancata presa di parola, che scioccamente si attribuisce solo ali' adesione a valori d' ordine, di tornaconto e di comodità: come se i rudimentali sondaggi della vigilia del '68 non dipingessero anch'essi una generazione di studenti tutti scuola casa e chiesa. L'ansia pubblicitaria di riproporre alle generazioni successive di ragazze e ragazzi un impossibile (credo, e rmi auguro) "nuovo '68" ha giocato anch'essa una parte nel frustrare e mettere ai margini i giovani- e, reciprocamente, nella scelta di tanti ragazzi in gamba di starsene altrove, come è successo nel volontariato ravvicinato, dedicato al proprio prossimo, che è stato la qualità più preziosa degli anni '80. Ma l'estremismo senile è invadente, esso schiaccia distrattamente e contraffa il diritto dei giovani a un'interpretazione fresca e radicale del mondo, e a prendere una propria distanza da quello che gli adulti ne hanno fatto. Non penso a presunte regole sociologiche o biologiche. Penso che i giovani abbiano oggi di fronte una generazione di adulti che è stata festosamente travolta dall'idea di arricchire e vantarsene davanti alla prima telecamera, e penosamente travolta, mezz'ora dopo, da un avviso di garanzia e dalla caduta di reputazione, dalla perdita della faccia, che nel villaggio globale è tornata a essere il valore supremo, eclissando il confronto con la propria coscienza su cui per un paio di millenni si erano costruite la morale e il senso di colpa. Adulti che si ammazzano perché non ce la fanno più a guardarsi nello specchio dei teleschermi o dei dirimpettai; oppure non si ammazzano, fanno i nomi dei propri amici parenti e colleghi, e ripartono da zero come conduttori televisivi. Contro un tal ceto di uomini adulti e maturi tuonano con sdegno vero o retorica demagogia uomini vecchi e vecchissimi, inflessibili e pronti a descrivere il mondo come il più oscuro dei complotti, la più fraudolenta delle truffe, il più ribaltabile dei colpi di mano. I giovani accorrono numerosi o se ne stanno alla larga, votano per gli uni o per gli altri o si astengono, gremiscono le aule in cui il mondo viene loro spiegato, prendono appunti -e stanno zitti. Premono in un punto o in un altro, ma senza rompere la crosta. Naturalmente niente è casuale, e nessun rimpianto può compensare i motivi profondi che fanno esplodere movimenti nutriti, piuttosto che da solidarietà remote e avventurose simpatie, dal senso di una soffocante persecuzione o, addiCO rittura, da un astio fiscale e una disgustata insofferenza per i forestieri e i viaggiatori di ogni risma. Parole d'ordine secche come slogan da stadio, e una promessa più o meno vaga, più o meno imminente, di autorizzarli a menare le mani: questa una delle offerte più consistenti del mercato ci vile attuale ai giovani. In questo vario ma trasversale estremismo senile io vedo l'attenuazione, se non l'anestesia totale, del confronto e conflitto fra generazioni che, eccessi o no, nutre la vivacità di una società; e vedo la subordinazione dei giovani, semmai, a un conflitto interno alle generazioni maggiori. E ci vedo un riflesso allarmato della più vistosa differenza fra questi anni e la fine dei '60, fra l'arrivo allora ali' età della ribellione dei figli del boom demografico, e la longevità combinata col crollo della natalità ai nostri giorni. L'Italia, che è arrivata tardi a questa tendenza matura, se ne è rifatta come al solito con gli interessi, registrando record di longevità e di rarefazione giovanile, e manifestazioni psicologiche febbricitanti di quella inversione. A molti nostri anziani (maschi, direi), che abbiano un potere o lo applaudano o lo fischino -o gli tirino le pietre, anche per questo il limite di età è salito di molto- i nostri ragazzi non appaiono né interlocutori interessanti e rispettabili né avversari loscamente minacciosi. I giovani cui molti fra loro pensano, o che intravvedono come fantasmi notturni, hanno facce albanesi ed extraeuropee e zingaresche, di asiatici e di africani: sono del mondo in cui la maggioranza della gente ha meno di quindici anni. Chiusa, o sospesa per scarsa combattività la partita italiana, ed europea, fra vecchi e giovani, essa si gioca sottilmente o brutalmente fra le nostre società vecchie e le loro giovani. Davvero rovesciato, qui, il '68 giovanile innamorato del sud, del sole e del Terzo mondo è diventato un primo mondo spaventato, gretto, scostante per ora e pronto fra un po' al peggio. Dunque? Non so. Adriano Sofri reazionarie, per cui la identificazione della sinistra con l'ambientalismo mi sembra oggi non più possibile come appariva solo pochi anni fa -ricordiamoci lo slancio della sinistra nel momento della lotta contro l'energia nucleare. Se la centralità della classe operaia è quanto meno offuscata e altri soggetti come gli ambientalisti, le femministe e forse altri tendono a porsi al centro della società diventa più difficile riuscire ad immaginare la società futura ... Si, oggi la società nuova non ha più modelli. L'enorme difficoltà che attraversa la sinistra è che nelle idee socialiste in senso lato, e comuniste in particolare, si aveva una rappresentazione, per quanto sfumata, di una società alternativa alla società capitalistica. Se uno oggi deve dire "cos'é il socialismo" non può dirlo, perché c'è un solo socialismo reale ed è quello che è morto. Questo è il dramma. C'è poi un altro terreno sul quale negli ultimi tempi si è pensato all'interno della sinistra storica, socialisti e comunisti, di costruire un discrimine fra destra e sinistra: quello dei diritti, cioè un terreno sul quale si è cercato di recuperare l'individualismo storico, affermandone però l'eticità e quindi non soltanto sul terreno del!' egoismo e dell'utilitarismo. il tema della responsabilità non è di destra né di sinistra Questo terreno a me pare molto, molto fragile. Perché la rappresentazione direi più corrente dei diritti -non parlo solo dei diritti politici, civili, ma anche dei diritti sociali, il diritto al welfare, il diritto alla tutela sociale dei diritti individuali nel campo economicoè il rapporto fra l'individuo e lo stato. Io ho questo diritto e tu, Stato, lo devi assolvere. E allora poi si entra nel solito gioco: se la mia domanda di tutela è eccessiva rispetto ali' offerta possibile, ha diritto lo Stato di impedire i miei diritti oppure questi valgono comunque? E' la storia delle compatibilità, su cui si pensa di applicare anche qui la discriminante fra destra e sinistra. Cioè, sono di sinistra se rifiuto l'idea delle compatibilità: io ho un diritto e devo comunque lottare in nome di questo diritto; la destra, invece, è quella che dice: no, se non ho i mezzi ho il diritto di non riconoscere i tuoi diritti. Questa concezione dei diritti a mio giudizio, così come è correntemente sviluppata, è molto fragile perché non tiene conto del fatto che non esistono solo i diritti degli individui verso lo Stato, ci sono anche i diritti degli individui fra di loro. insomma il problema che si pone non è quello di dire "ho questo diritto e tu me lo devi garantire'', il problema è sapere chi me lo paga veramente. Se invece di pensare al diritto generale nei confronti di uno Stato penso al diritto dei miei vicini, degli altri cittadini, il problema non è più di compatibilità, è di solidarietà e di responsabilità. Cioè, ancora una volta tutta la tematica dei diritti rappresentati come elemento discriminante di una sinistra e di una destra non regge perché deve esservi per forza coinvolto il tema della responsabilità. A questo punto, quando parliamo di responsabilità non siamo più né nella destra né nella sinistra. Siamo tornati alla domanda di prima: qual è dunque un riferimento discriminante fra destra e sinistra? La domanda di un referente destra o sinistra è una ricerca costante, che si riproduce. Forse le vicende più recenti del post-comunismo ci permettono di trovare qualcosa a cui cercare di aggrapparsi, ancora una volta non per la preoccupazione di una coerenza con la sinistra, ma nel senso proprio della ricerca analitica di un qualcosa che valga la pena di proporsi, per il quale valga la pena di lottare, per iIquale valga la pena di spendere quel che resta della propria vita. Potrebbe essere nel rapporto fra l'interdipendenza da un lato e l'etnocentrismo dall'altro. Alla fine degli anni ottanta ci sono stati dei momenti in cui sembrava prevalere un'idea di interdipendenza, non su un terreno di compromesso, ma su uno fortemente dinamico. lo ricordo quando il governo americano assunse come proprio interesse la salvaguardia del governo sovietico, di fronte alla emergenza dei nazionalismi nei paesi baltici e Bush mandò Baker a Mosca a fare da mediatore fra il governo sovietico e quello lituano cercando di salvare Gorbaciov come risorsa per la pace nel mondo. In questo caso iI superamento del proprio ruolo nazionale e il riconoscimento dell'altro come elemento positivo rispetto a se stessi sembrò assumere un livello di primato e parve allora possibile l'uscita dall'antagonismo storico, dal bipolarismo, su un terreno che non fosse la frantumazione bensì la ricerca di valori che andavano oltre se stessi e che potevano essere alimentati solo dal confronto positivo con gli altri. Confronto non solo come collaborazione ma a partire dall'idea del valore dell'altro, inteso come elemento dinamico del!' insieme. E oggi? Quello che succede oggi, non solo nel!' area excomunista, ma anche nella frantumazione del multiculturalismo americano, ci dà l'idea di una tendenza per cui ogni cultura "frazionata" cerca l'assoluta coerenza con se stessa. Non si riconosce più che esista una storia valida per tutti. Poiché la storia di cui si parla è la storia dell'Europa bianca e dei maschi, ci vuole la storia delle donne, la storia degli afroamericani, ecc ... Cioè ogni etnia si riferisce a se stessa e trova la propria identità solo attraverso la negazione degli altri. Ho l'impressione (può essere un'illusione senile) che forse il modo in cui ci confrontiamo con gli altri, come li vediamo in rapporto a noi stessi, possa diventare una discriminante che può ricondursi ai valori storici che distinguevano destra e sinistra. (Tale distinzione del resto non era solo di ordine economico, era molto più ampia ...) L'idea è di vedere il mondo come un insieme, di vedere che l'altro ha gli stessi tuoi diritti nella storia, nella morale, nella politica. Di mettere l'uno contro l'altro l'interdipendenza e l'etnocentrismo. Penso che questo possa essere un terreno di ricerca per il futuro, perché in fondo tutti gli altri parametri di riferimento supponevano in qualche modo l'affermazione di se stessi attraverso la negazione dell'altro. Nella lotta di classe era evidentissimo, era una lotta di potere. • processi a somma positiva, o negativa, ma non •• p,u a somma zero Anche nell'ambito dei diritti c'è un antagonismo in cui la mia vittoria è la tua sconfitta, per usare una formula abbastanza significativa: un'operazione a somma zero. Forse l'idea del rapporto fra etnocentrismo e interdipendenza potrebbe permetterci di pensare che i processi siano a somma positiva - possono essere anche a somma negati va- ma comunque mai a somma zero. Potrebbero darsi rapporti diversi da: '·quello che guadagno io, lo perdi tu", può essere qualcosa che insieme cerchiamo di trovare "al di sopra". Naturalmente sono pensieri ad alta voce ... Al di là di questo "terreno di ricerca" resta tuttavia l'esigenza di interpretare quello che sta succedendo sotto i nostri occhi in Italia. Penso a cosa possano capire e cosa possano fare, ad esempio, i giovani. Naturalmente io sono molto condizionato dalla mia vita, e mi è molto difficile, quindi, rispondere a domande relative ai giovani. Nella mia giovinezza ho vissuto lacrisi di un sistema politico e la sua sostituzione con uno autoritario, in Italia e in Europa. Allora venivano avanti con forza. sull'onda anche della cultura del '900, che ha pure avuto i suoi aspetti positivi e creativi, idee di potere autoritario, di governo personale. La cosa che oggi colpisce favorevolmente un vecchio come mc è che nella contestazione diffusa del sistema politico italiano, non emergono richieste di "uomo forte''. Intendiamoci: non so se questo durerà, può darsi che in futuro queste proposte emergeranno, ma in Italia ancora non ci sono i Republikancr tedeschi né i Lepenisti francesi, non c'è una cultura razzista che presenti anche solo

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