Una città - anno III - n. 20 - marzo 1993

, A NE P I REDI Un centro sociale all'AIIJerglteria, uno dei quartieri più degradati di Palermo, impegnato a strappare ragazzini alla pedagogia mafiosa. Il prolJlema del nesso fra culturamafiosa e cultura siciliana. L • impegno di fanti siciliani contro individualismo, familismo e fatalismo. Intervista a Augusto Cavadi. 11 centro sociale S. Francesco Saverio, è ormai conosciuto in tutta Italia. AugustoCavadi ne è uno degli animatori, "lo scriba" come si definisce, insieme a Nino Rocca, oggi in Brasile fra i bambini di strada, a don Cosimo Scordato, a Maria De Carlo, a Donatella Natoli, medico, a Francesco Michele Stabile, studioso di storia siciliana e attuale presidente del centro. Il centro si definisce a-confessionale e a-partitico ed è impegnato nel riscatto di uno dei quartieri più martoriati di Palermo, in particolare sul "fronte" giovanile, doposcuola per bambini, corsi di formazione per ragazze, il recupero di giovani ex-detenuti. Pubblica un giornale "Vivere all'Albergheria". Dopo la strage di Capaci Augusto Cavadi incollaborazionecon il Centro "G. Impastasto"e al CentroStudi "Città dell'uomo", ha dato vita alla Scuola di formazioneetico-politica "G. Falcone", per la formazione di operatori sociali, quasi tutti volontari. Per chi volesse meuersi in contatto con il Centro Sociale "S. Francesco Saverio" l'indirizzo è via A. Vesalio. 1-90134 Palermo. Fai parte del Centro sociale "S. Francesco Saverio" che opera ali'Albergheria, uno dei quartieri più degradati di Palermo. Ci puoi parlare di questo Centro? Devo innanzitutto premettere che il Centro sociale di cui parliamo non è una struttura pubblica. Se è considerato un piccolo "miracolo" in un contesto urbano frammentato, dissociato come Palermo -un arcipelago di microcittà, più che una città-, è perché si tratta di una iniziativa "dal basso", di uno spazio di aggregazione democratica ideato, voluto e gestito da. cittadini "privati". Quando dico "dal basso" intendo escludere non solo che si tratti di un'iniziativa del Comune (in Sicilia non esistono quasi per nulla, o proprio per nulla, "centri sociali" a cura delle amministrazioni locali), ma anche che si tratti di un' iniziativa di partito o di chiesa: l'originalità dell'esperienza - la "scommessa" direi- sta tutta nella creazione di un "luogo" di confronto e di collaborazione per persone dalle identità culturali e dalle storie politiche più disparate. Il racconto di questa esperienza l'abbiamo tentato più volte (l'ultimo libro, in ordine di tempo, è Uscire dal fatalismo di Cosimo Scordato, edito dalle Edizioni Paoline di Milano): e ogni volta ci sentiamo delusi perché le parole restano al di qua del vissuto. E non perché abbiamo realizzato, dal 1985 ad oggi, cose eccezionali. Le vicende semplici, i "piccoli amori", hanno una fragilità peculiare: a parlarne si rovinano, senza per altro che si riesca a comunicarne il senso nascosto. Nella scheda ci sono alcune notizie essenziali. togliere alla mafia almeno una • generazione Posso solo aggiungere due sottolineature. La prima concerne il tipo di sogno che abbiamo sognato: che un quartiere "tipico", abbandonato dai responsabili politici, dove trascinano rassegnatamente l'esistenza cittadini inconsapevoli dei loro diritti e del le loro responsabilità, possa diventare protagonista del proprio riscatto. In questo senso, quando alcuni di noi (un prete, due professori di filosofia, una studentessa universitaria, una madre ed un padre di famiglia e due giovani disoccupati) abbiamo iniziato a lanciare le prime proposte, l'abbiamo fatto senza alcuna ottica missionaria o propagandistica: organizzando le prime assemblee di quartiere, i primi gruppi di lavoro per settori (bambini, anziani, donne ...), ci siamo augurati di diventare inutili come gli arnesi di un ostetrico subito dopo un parto ben riuscito. La seconda notazione riguarda la realtà effettiva, al di qua del og o c!Je continuiamo a sol '°''°' gnare. Purtroppo questo coinvolgimento. popolare sul modello, per intenderci, dell' America Latina - stenta a decollare: certo le diffidenze iniziali sono in parte cadute, non mancano le collaborazioni da parte di persone del quartiere, ma non si può dire ancora che il Centro sociale sia essenzialmente gestito da abitanti dell' Albergheria. Facciamo dei piccoli tests, ad esempio chiedendo a tutti i frequentatori di contribuire ali' autofinanziamento della sede e delle attività: ma la strada dell'autogestione completa (senza il concorso di noi "esterni") è ancora lunga. Quale parte dell'attività del Centro è rivolta ai minori? Perché? La mafia è un sistema di potere quasi perfetto: non manca quindi neppure di una pedagogia. •am•ine senza gioclti a madri senza tenerezza Come ha detto in una certa occasione don Cosimo Scordato, noi ci proponiamo di strappare almeno una generazione alla mafia. Per far questo abbiamo tentato di individuare alcune "fasce" rispetto alle quali abbiamo attivato delle strategie specifiche. Prima di tutto, ci sono i bambini dai due ai cinque anni. Nel nostro rione sono molto amati, ma malissimo. Concepiti in quanto trofei della fecondità animalesca dei padri, vengono allevati come giocattoli preziosi con cui intrattenere rapporti di incredibile infantilismo: da una parte se ne è morbosamente gelosi (impossibile ottenere, anche quando hanno dieci o dodici anni, che dormano fuori casa per una settimana, in occasione di un campeggio estivo), dall'altra li si tratta con violenza abituale, neppure conscia. La villetta davanti al Centro sociale, che al nostro arrivo era un immondezzaio, l'abbiamo dedicata a Maria Concetta Mazzola: aquatlro anni, in quel periodo, è stata uccisa a botte dal padre. Al processo è stato difficile far capire a questo disgraziato, i cui genitori a loro volta erano stati incriminati per aver ucciso a botte un suo fratellino venticinque anni prima, che cosa aveva compiuto di orrendo. E quando Francesca Vassallo e i suoi splendidi collaboratori che gestiscono questo "spazio infanzia" hanno invitato le mamme del quartiere a giocare con loro e con i loro bambini hanno scoperto che queste giovani donne non sapevano come si giocasse: nessuno lo aveva fatto con loro, con nessuno esse erano in grado di farlo. Una seconda fascia è data dai ragazzini in età scolare (fra i sei e i quattordici anni). Né il Comune né il Provveditorato agli Studi hanno statistiche complete, ma da una rapida indagine abbiamo appurato che (uas· il 44% di lor, o,parriva alla terza media: o per evasione o per mortalità scolastica o per altre cause di dispersione. Per alcuni anni abbiamo tentato di lavorare in funzione dei loro impegni scolastici, ma ci siamo dovuti arrendere. Questa scuola è per loro -difficile stabilire quanto a torto e quanto a ragione- ripugnante. Allora stiamo tentando la via dei laboratori liberi per offrire, anche fuori da una prospettiva di scolarizzazione, stimoli all'istruzione ed alla socializzazione: laboratori di fotografia, di danza, di sport, di animazione ... Una terza fascia è data dai ragazzi più grandicelli, fra i quattordici e i diciotto anni. E' il lavoro sinora peggio riuscito. Soprattutto grazie al Consultorio giovani del Distretto socio-sanitario della USL 58 (l'unico attivato in Sicilia a dieci anni e più dalla istituzione legislativa e non per caso ospitato dal Centro presso i propri locali), stiamo tentando degli approcci, almeno per strappare le ragazze al "destino" dellafuitina che, nell'illusione di fuga dal potere paterno, le consegna al potere maritale. Molte di loro passano così dalla tristezza di bambine prive di giochi alla tristezza di mogli prive di tenerezze, senza conoscere -se non per brevi giornate "trasgressive"- la spensieratezza della "gioventù". Un capitolo a parte meriterebbe la situazione dei loro coetanei maschi. Con impressionante consapevolezza, alcuni di loro si arruolano sin dai novedieci anni nel sistema della vendita delle sigarette di contrabbando per poi passare allo spaccio della droga ed a traffici illegali vari (totonero, scippi, ricettazione di refurtiva). Il passaggio dalla strada al carcere minorile è ovviamente facile e, dal punto di vista educativo, più controproducente che inutile. Palermo ha solo qualche timido esperimento di strutture alternative alla detenzione dei minori e così anche il nostro Centro, dall'autunno del '91 all'estate del '92, ha fatto, su richiesta di alcuni giudici del tribunale, le sue prove con ragazzi del quartiere aventi pendenze penali. Anche questo esperimento è sostanzialmente fallito. Senza un minimo di apporto finanziario statale non si può attivare col solo volontariato una struttura operante 24 ore su 24: e senza una struttura operante a tempo pieno non si possono ottenere risultati soddisfacenti. Ma il Ministero degli Interni ed il Ministero di Grazia e Giustizia hanno promesso, hanno fatto preparare molta documentazione, hanno indotto a spendere quel poco che riusciamo a raccogliere mediante il Comitato popolare di autofinanziamento, ma -sino a questo momento- non hanno sborsato una lira. Sono versanti della lotta alla mafia da parte di questo Stato semplicemente vergognosi. Anzi, difficilmente immaginabili. Aproposito di mafia, come si può a tuo avviso distinguerla da altre attività criminose? Partirei dall'ipotesi definitoria elaborata da Umberto Santino e dai suoi collaboratori del Centro "Impastato". Essi insistono, a mio avviso giustamente, sul fatto che la mafìaè un'associazione criminale che, attraverso la violenza metodica, persegue denaro e potere serCQ vendesi di un codice culturale e di un consenso sociale. Se una data realtà, per esempio i gruppi dirigenti dei partiti implicati in Tangentopoli, presenta alcuni di questi elementi, ma non tutti, non si può parlare di "mafia": sino a quando, per restare nell'esempio, i dirigenti democristiani e socialisti non sparano, costituiscono dei gruppi criminali para-mafiosi, non mafiosi in senso proprio. alla •ase del codice mafioso c'é il "famifismo" Similmente in molte nazioni "progredite" esistono forme di crimine "organizzato": ma sino a quando manca ad esse un universo simbolico specifico - e soprattutto sino a quando manca un consenso sociale abbastanza radicato e abbastanza vasto-, restano fenomeni di gangsterismo circoscritti. In questo quadro teorico, quali sarebbero gli aspetti specificamente "siciliani" della mafia? Confesso che ho sempre difficoltà a rispondere a questo genere di domande, per altro più che legittime. Ho difficoltà perché non mi pare che la ricerca antropologica, socio-psicologica, abbia prodollo risultati attendibili, al di là dei luoghi comuni stomachevoli. Forse è più facile scartare le risposte falsamente suggestive. sloganistiche, che formularne di "scientifiche". Direi dunque che hanno torto quei meridionali che respingono, con sdegno, ogni connessione fra cultura mafiosa e cultura meridionale e tendono a ridurre la mafia a sottoprodotto, indesiderato, dello sfruttamento del Sud ad opera dei gruppi politico-industriali del Nord . La mafia, al contrario, si serve di un codice culturale che è connotato da paradigmi, valori, linguaggi, consuetudini, modelli di comportamento ... tipicamente siciliani: il familismo, il rispetto per gli anziani, il senso vivo delle gerarchie, la sopravalutazione dell'onore, il tradizionalismo, il conformismo sociale, la diffidenza nei confronti dello Stato e così via. Questi ed altri elementi della cultura siciliana vanno tematizzati molto più a11entamente di quanto non si sia fatto sino ad ora, magari interrogandosi - come hanno iniziato a fare con coraggio alcuni miei amici teologi e storici della chiesasu 11' incidenza nella cultura mafiosa di alcune categorie tipiche del ca11olicesimo mediterraneo. Ma questa focalizzazione della "sicilianità"' non deve portare -sarebbe, anzi è giì1, questa una stupidaggine di segno opposto rispello al meridionalismo depistante- a generalizzazioni razzistiche di tipo lombrosiano. Bada bene che dico questo come intellettuale, non come siciliano. Se certi slogans leghisti mi feriscono, non è perché siano troppo feroci: è perché sono poco realistici. E, alla lunga, improduttivi. In ogni caso, capisco più Miglio che Bufalino: Miglio può dimenticare, da professore uni versitari o della buona borghesia lombarda, che i martiri del1' antimafia (poliziotti e giudici, ma anche imprenditori e politici, giornalisti e operatori sociali) sono quasi tutti siciliani. Ma Bufalino, quando si lascia scappare che la mafia è un fatto cromosomico inestirpabile nei suoi conterranei, perde ollimeoccasioni pertacere su ciò di cui non ha alcuna competenza. Senza contare che non c'è servizio migliore alla causa del la mafia di questa ipostatizzazione metafisica che ne occulta le origine storiche e, dunque, la potenzi ale dissoluzione. Così, quando ho recensito L'inferno di Bocca, mi è capitato di notare che diceva delle cose vere, anzi al di qua delle cronache successive (non si era ancora scoperto I' intreccio in Calabria fra alcuni politici e alcuni mafiosi a proposito dell 'omicidio Ligato, né a Palermo si erano incriminati per collusioni mafiose personaggi come Contrada): ciò che mi è dispiaciuto è che un giornalista di livello così elevato abbia ignorato, programmaticamente, il lavoro instancabile che -da decenni- migliaia di siciliani portano avanti contro il sistema di potere mafioso, rischiando tutto quello che hanno di più caro. Comunque i tagli tematici di un piemontese che sa cosa tacere per fare di un discreto reportage un ottimo affare editoriale mi scandalizzano molto meno delle dichiarazioni di Leonardo Sciascia sulla "irredimibilità" di città come Palermo. Che Palermo non sia redimibile solo grazie alle conversazioni erudite nei salotti della signora Elvira Sellerie è un conto; che questo autorizzi a ironizzare elegantemente sugli sforzi di centinaia di cittadini che lavorano, lontano dalle telecamere e dalle interviste prestigiose, nei quartieri e nei piccoli comuni per logorare le radici del potere politicoclientelare mafioso, è un altro conto. Insomma, la mafia è indecifrabile senza il contesto socioculturale siciliano; ma non è riducibile ad una protuberanza etnica. Proprio la mancanza di chiarezza su queste coordinate ha consentito alla mafia di estendere i suoi "legami pericolosi" con la finanza nazionale e internazionale, con importanti pezzi dello Stato e dei partiti, con associazioni criminali analoghe dal Giappone alla Bolivia, con gruppi terroristici di mezzo mondo: mentre i mafiologi discettavano sul folklore isolano, i mafiosi hanno costruito un impero sovranazionale. fa mafia come forma di solidarietà "sicura" Chiarito questo, si può tentare -amò di ipotesi tutte da verificare- qualche ulteriore determinazione circa le ragioni del radicamento meridionale del sistema mafioso. A me ha sempre colpito, ad esempio, la tendenza siciliana (soprattutto della Sicilia occidentale, per molti versi diversa da quella orientale) all'individualismo: in fondo, il familismo è solo un individualismo allargato. Nella nostra storia la cooperazione, il lavoro di squadra, hanno sempre stentato a partire. C'è un'ipertrofia dell'io che spinge a non piegarsi alle opinioni ed alle esigenze degli altri: si può essere sicuri solo di se stessi, mai del prossimo. Che c'entra questo dato antropologico con la mafia? In un contesto di diffidenza reciproca e éli scarsa possibilità di aggregazione, la mafia rappresenta per chi vi entra una forma di solidarietà "sicura". D'altra parte, in simile contesto, è improbabile che il taglieggiato dalla mafia ipotizzi una risposta corale, sociale alle minacce ed ai ricatti: l'Associazione dei Commercianti di Capo d'Orlando promossa da Tano Grasso è l'eccezione. E non è un caso che l'eccezione si verifichi in una provincia, come quella di Messina. tradizionalmente estranea a sistemi mafiosi: la cultura della sudditanza non vi si è ancora radicata. Al contrario, a Palermo, migliaia di commercianti, imprenditori e professionisti pagano il "pizzo": e se uno come Libero Grassi prova a ribellarsi, resta solo e viene ucciso senza nessuna fatica. Senza la logica individualista, infine, non si capisce neppure GAIA ÀUr Mr{ .5:;Jt, à /.; r r -

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==